The Project Gutenberg eBook of I misteri del castello d'Udolfo, vol. 3
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Title: I misteri del castello d'Udolfo, vol. 3
Author: Ann Ward Radcliffe
Release date: September 20, 2010 [eBook #33783]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online
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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I MISTERI DEL CASTELLO D'UDOLFO, VOL. 3 ***
I MISTERI
DEL
CASTELLO D'UDOLFO
DI
ANNA RADCLIFFE
VOL. III
MILANO
Oreste Ferrario
Sotterranei Galleria Nuova, via Silvio Pellico, 6, scala n. 18
e Santa Margherita

IL CADAVERE
... la sua faccia, sfigurata dalla morte, era schifosa
e coperta di livide ferite.
Cap. XXVI
SOMMARIO
Capitolo XXII
Capitolo XXIII
Capitolo XXIV
Capitolo XXV
Capitolo XXVI
Capitolo XXVII
Capitolo XXVIII
Capitolo XXIX
Capitolo XXX
Capitolo XXXI
Capitolo XXXII
Capitolo XXXIII
Capitolo XXXIV
Capitolo XXXV
Capitolo XXXVI
Capitolo XXXVII
[5]
CAPITOLO XXII
Montoni fece invano le più esatte ricerche sulla
strana circostanza che lo aveva allarmato, e non
avendo potuto scoprir nulla, dovette credere che
qualcuno de' suoi fosse l'autore d'una burla così
intempestiva. Le sue contese colla moglie, a proposito
della cessione, divenendo più frequenti, pensò
confinarla nella sua camera, minacciandola a una
maggior severità se persisteva nel rifiuto.
Se la signora Montoni fosse stata più ragionevole,
avrebbe compreso il pericolo d'irritare, con quella
lunga resistenza, un uomo come il marito in cui
balia ella trovavasi. Non aveva pure obliato di quale
importanza fosse per lei la conservazione del possesso
de' suoi beni, che l'avrebbero resa indipendente,
caso avesse potuto sottrarsi al dispotismo di
Montoni. Ma in quel momento aveva una guida più
decisiva della ragione, lo spirito cioè della vendetta,
che le faceva opporre la negativa alla minaccia, e
l'ostinazione alla prepotenza.
Ridotta a non poter uscir dalla camera, sentì
finalmente il bisogno ed il pregio della compagnia
già sprezzata della nipote, perchè Emilia, dopo Annetta,
era la sola persona che le fosse permesso di
[6]vedere.
La fanciulla s'informava spesso del conte Morano.
Annetta ne sapeva pochissimo, se non che il chirurgo
credeva impossibile la di lui guarigione.
Emilia affliggevasi di essere la causa involontaria
della sua morte. Annetta, che osservava la di lei
commozione, l'interpretava a modo suo. Un giorno,
essa le entrò in camera tutta affannosa e piangente.
« Per carità, troviamo il modo di uscire da questo
luogo infernale. Sappiate, » diss'ella, « che siamo
alla vigilia di qualche brutta scena in questo maledetto
castello. Quei signori tengono tutte le notti
conciliaboli, ove si pretende che discutano affari
importanti: inoltre, cosa significano tutti i preparativi
che si fanno sui bastioni e sulle mura? E
poi, quanta gente entra tutti i giorni nel castello
con cavalli! e sembra che vi debbano restare, perchè
il padrone ha ordinato di somministrar loro il
bisognevole. Io ho saputo tutto da Lodovico, che
mi ha raccomandato di tacere; ma siccome vi amo
quanto me stessa, non ho potuto fare a meno di
dirlo anche a voi. Ah! qualche giorno ci ammazzeranno
tutti per certo.
— Non sai tu altro, Annetta?
— Come! Non basta tutto questo?
— Sì, ma non basta a persuadermi che ci vogliano
uccider tutti. »
Emilia si astenne dal manifestare i suoi timori
per non aumentare la paura della cameriera. Lo
stato attuale del castello la sorprendeva e la turbava.
Appena Annetta ebbe finito, la lasciò sola,
per andare a nuove scoperte.
La fanciulla quella sera passò alcune ore tristissime
in compagnia della zia. Si disponeva a coricarsi,
quando udì un forte colpo alla porta della
camera, prodotto dalla caduta di qualche oggetto.
Chiamò per sapere cosa fosse, e non le fu risposto.
Chiamò una seconda volta senza miglior successo:
pensò che qualcuno dei forastieri giunti recentemente[7]
nel castello avesse scoperta la sua camera, e
vi si recasse con cattive intenzioni. Inquieta, stette
attenta, tremando sempre che il rumore si rinnovasse.
Si fece invece coraggio; si avvicinò alla porta
del corridoio tutta tremante, ed intese un lieve sospiro
tanto vicino, che la convinse esservi qualcuno
dietro l'uscio. Mentre ascoltava ancora, il medesimo
sospiro si fece intendere più distintamente, ed il
suo terrore aumentò. Non sapea cosa risolvere, e
sentiva sempre sospirare. La sua ansietà divenne
sì forte che risolse di aprire la finestra e chiamar
gente. Mentre vi si accingeva, le parve udir i passi
di qualcuno nella scala segreta, e vincendo ogni
altro timore corse verso il corridoio. Premurosa
di fuggire, aprì la porta, ed inciampò in un corpo
steso al suolo. Mise un grido, e guardando la persona
svenuta, riconobbe Annetta. Grandemente sorpresa,
fece ogni sforzo per soccorrere l'infelice. Allorchè
ebbe ripreso l'uso dei sensi, Emilia l'aiutò
ad entrare in camera, e quando potè parlare la
ragazza l'assicurò, con una fermezza che scosse fino
l'incredulità dell'altra, di aver veduto un'ombra
nel corridoio.
« Io aveva inteso strane cose sulla camera attigua, »
disse Annetta; « ma siccome è vicina alla
vostra, madamigella, non voleva dirvele per non
ispaventarvi. Tutte le volte ch'io ci passava accanto,
correva a tutta possa; e vi accerto inoltre, che
spesso mi parve di sentirvi rumore. Ma stasera, camminando
nel corridoio, senza pensare a nulla, ecco
veggo apparire un lume, e guardando indietro scorgo
una gran larva. L'ho veduta, signorina, distintamente,
quanto voi in questo momento. Una gran
figura entrava nella camera sempre chiusa, di cui,
non tien la chiave altri che il padrone, e la porta
serrossi immediatamente.
— Sarà stato il signor Montoni, » disse Emilia.
— Oh! no, non era lui, avendolo lasciato che
altercava colla padrona nel suo gabinetto.[8]
— Tu mi fai racconti molto strani, Annetta;
stamattina mi hai spaventata colla paura d'un assassinio,
ed ora vorresti farmi credere...
— Non vi dirò più nulla; ma però se non avessi
avuta gran paura, non sarei svenuta, come ho fatto.
— Era forse la camera dal quadro del velo
nero?
— No, signora, è quella più vicina alla vostra:
come farò a tornare nella mia stanza? Per tutto
l'oro del mondo non vorrei più traversare il corridoio. »
Emilia, commossa da questo incidente, e dall'idea
di dovere esser sola tutta la notte, le rispose
che poteva stare con lei.
« Oh! no, davvero, » disse Annetta, « io non
dormirei ora in questa camera, neppure per mille
zecchini. »
Emilia, rammentandosi d'aver udito gente sulla
scala insistè perchè passasse la notte secolei, e l'ottenne
con molta pena, e dopo che la paura di ripassare
il corridoio ve l'ebbe persuasa.
Il dì dopo, Emilia, traversando la sala per andare
sulle mura, intese rumore nel cortile e lo
scalpito di molti cavalli. Il tumulto eccitò la sua
curiosità. Senza andar più oltre, si affacciò ad una
finestra, e vide nel cortile una truppa di cavalieri;
aveano divise bizzarre ed armamento completo,
sebben variato. Portavano essi una giacchetta corta
rigata di nero e scarlatto; si avvolgevano in grandi
ferraiuoli, sotto uno dei quali vide pendere dalla
cintola pugnali di varia grandezza; osservò quindi
che quasi tutti ne eran ben provvisti, e parecchi
vi aggiungevano la picca ed il giavellotto; portavano
in testa berretti all'italiana ornati di pennacchi
neri; essa non si rammentava aver mai visti
tanti brutti ceffi riuniti. Nel vederli si credette
circondata da banditi, e le si affacciò subito alla
mente che Montoni fosse il capo di questi birbanti,[9]
e il castello il loro luogo di riunione. Questa strana
supposizione però fu passeggiera. Mentre guardava,
vide uscire Cavignì, Verrezzi e Bertolini vestiti come
gli altri; avevano soltanto i cappelli ornati di grandi
pennacchi rossi e neri; quando montarono a cavallo,
Verrezzi brillava di gioia; Cavignì pareva allegro,
ma il suo contegno era riflessivo, e maneggiava il
cavallo con estrema grazia. La sua figura amabile,
e che parea quella d'un eroe, non era mai apparsa
con tanto vantaggio. Emilia, considerandolo, pensò
che somigliava a Valancourt, e per vero dire ne
aveva tutto il fuoco e la dignità; ma essa cercava
invano la dolcezza della fisonomia, e quella schietta
espressione dell'anima che lo caratterizzava.
Comparve quindi Montoni, ma senza divisa. Esaminò
scrupolosamente i cavalieri, conversò a lungo
co' capi, e quando li ebbe salutati, la truppa fece il
giro del cortile, e, comandata da Verrezzi, passò
sotto la vôlta ed uscì.
Emilia si ritirò dalla finestra, e nella certezza di
esser più tranquilla, andò sui bastioni: non vide
più lavoranti, ed osservò che le fortificazioni parevano
ultimate. Mentre passeggiava assorta nelle sue
riflessioni, udì camminare sotto le mura del castello,
e vide parecchi uomini, il cui esteriore accordavasi
colla truppa partita poco prima.
Presumendo che la zia fosse alzata, andò ad
augurarle il buon giorno, e le raccontò quanto
aveva veduto; ma essa non volle, e non potè darle
contezza di nulla. La riserva di Montoni verso sua
moglie, a tal proposito, non era punto straordinaria.
Però, agli occhi di Emilia, aggiunse qualche
ombra al mistero, e le fece sospettare un gran pericolo
o grandi orrori nel progetto da lui concepito.
Annetta tornò ansante, secondo il consueto; la
sua padrona le domandò premurosamente cosa vi
fosse di nuovo, ed essa le rispose « Ah! signora,[10]
nessuno ci capisce nulla. Carlo sa tutto, ma è riservato
come il suo padrone. Qualcuno dice che
il signor Montoni vuole spaventare il nemico; altri
pretendono che voglia prender d'assalto qualche
castello, ma ha tanto posto nel suo, che non ha
bisogno certo d'andar a carpire quelli degli altri.
Lodovico pare che ci veda più di tutti, perchè dice
d'indovinare tutti i progetti del padrone.
— E che ti ha detto?
— Mi ha detto che il padrone.... che il signor
Montoni è..... è.....
— Che cosa insomma? » disse la signora Montoni
impazientandosi.
— Che il padrone si è fatto capo d'assassini, e
manda a rubare per conto suo.
— Sei pazza. Come mai puoi tu credere?...
In quella comparve Montoni; Annetta fuggì tutta
tremante. Emilia voleva ritirarsi, ma sua zia la
trattenne, giacchè il marito l'aveva resa tante volte
testimone de' loro diverbi, che non avevane più
veruna soggezione.
« Che cosa significa tutto questo? » gli chiese
la moglie; « chi sono quegli armati partiti testè e
perchè faceste fortificare il castello? voglio saperlo.
— Evvia, ho ben altro da pensare, » rispose
Montoni; « fareste meglio ad obbedirmi. Fatemi la
cessione de' vostri beni senza tanti contrasti.
— Giammai! Ma quali sono i vostri progetti? Temete
un attacco? sarò uccisa in un assedio?
— Firmate questa carta, e lo saprete.
— Qual nemico viene? » lo interruppe la donna:
« siete voi al servizio dello Stato? Son io prigioniera
fino all'ora della mia morte?
— Potrebbe darsi, » soggiunse Montoni, « se non
cedete alla mia domanda; voi non uscirete dal castello
se non mi avrete contentato. »
La signora gettò grida spaventose, ma li cessò
poscia pensando che i discorsi del marito non fossero[11]
che artifizi per estorcerle la donazione. E glielo
disse poco dopo, aggiungendo che il di lui scopo
non era certo tanto glorioso quanto quello di servir
lo Stato; che probabilmente erasi fatto capo di
banditi, per unirsi ai nemici di Venezia e devastare
il paese.
Montoni la guardò un momento con aria truce;
Emilia tremava, e sua zia, per la prima volta, credè
aver detto troppo. « Questa notte stessa, » diss'egli,
« sarete trascinata nella torre d'oriente, là
forse comprenderete il pericolo d'offender un uomo,
il cui potere su voi è illimitato. »
La fanciulla si gettò ai suoi piedi, e lo supplicò,
piangendo, di perdonare alla zia. Questa, intimorita
e sdegnata, ora voleva prorompere in imprecazioni,
ora unirsi alle preghiere della nipote. Montoni, interrompendole
con una bestemmia orribile, si staccò
aspramente da Emilia, che lo teneva pel mantello:
cadde essa sul pavimento con tanta violenza, che si
fe' male alla fronte, ed egli uscì senza degnarsi di
rialzarla. Ella si scosse al pianto della zia, corse a
soccorrerla, e trovolla tutta convulsa. Le parlò senza
ricevere risposta, ma le convulsioni raddoppiando,
fu costretta di andare a chieder soccorso. Traversando
la sala, incontrò Montoni, e lo scongiurò di
tornare a consolar sua moglie. Allontanossi egli
colla massima indifferenza; finalmente, essa trovò il
vecchio Carlo che veniva con Annetta. Entrati nel
gabinetto, trasportarono la Montoni nella camera
attigua. La misero sul letto, ed a gran stento poterono
impedire dal farsi male. Annetta tremava e
piangeva. Carlo taceva, e sembrava compiangerla.
Allorchè le convulsioni furono alquanto cessate,
Emilia, vedendo che sua zia aveva bisogno di riposo,
disse: « Andate, Carlo, se avremo bisogno di
soccorso vi manderò a cercare; ma intanto, se ve
se ne presenta l'occasione, parlate al signor Montoni
a favore della vostra padrona.[12]
— Oimè! » rispose Carlo; « ne ho vedute troppe!
ho poco ascendente sul cuore del mio padrone.
Ma voi, signorina, abbiate cura di voi stessa; mi
pare che non istiate troppo bene. »
E partì scuotendo il capo. Emilia continuò a curare
la zia, la quale, dopo un lungo sospiro, rinvenne;
ma aveva gli occhi smarriti, e riconosceva
appena la nipote. La sua prima domanda fu relativa
a Montoni. Emilia la pregò di calmarsi e di star in
riposo, soggiungendo: « Se volete fargli dire qualcosa,
me ne incaricherò io. — No, » rispos'ella
languidamente. « Persiste egli ancora a strapparmi
dalla mia camera? »
La fanciulla rispose che non aveva detto più nulla,
e fece ogni sforzo per distrarla; ma la zia non
l'ascoltava, e sembrava oppressa dai pensieri. Emilia,
lasciandola sotto la custodia della cameriera,
corse a cercar Montoni, e lo trovò sulle mura in
mezzo ad un gruppo d'uomini di ciera spaventevole.
Egli si esprimeva con vivacità. Infine qualche
sua espressione fu ripetuta dalla truppa, e quando
si separarono, la fanciulla udì le seguenti parole:
Stasera comincia la guardia al tramonto del sole.
« Al tramonto del sole, » fu risposto, e si ritirarono.
Emilia raggiunse Montoni, sebbene ei paresse volerla
scansare, ed ebbe il coraggio di pregare per
la zia, e rappresentargliene lo stato ed il pericolo
cui sarebbesi esposta la di lei salute in un appartamento
troppo freddo. « Soffre per colpa sua, »
rispos'egli, « e non merita compassione. Sa benissimo
come deve fare per prevenire i mali che la
attendono. Obbedisca, firmi, ed io non ci penserò
più. »
A forza di preghiere, ella ottenne che la zia non
sarebbe stata rimossa fino al dì seguente. Montoni
le lasciò tutta notte per riflettere. Emilia corse ad
annunziarle la dilazione. Essa non rispose, ma parea
molto pensierosa. Intanto la sua risoluzione sul[13]
punto contestato sembrava cedere in qualche cosa.
La nipote le raccomandò, come una misura indispensabile
di sicurezza, di sottomettersi. « Voi non
sapete quel che mi consigliate, » le rispose la donna.
« Rammentatevi che i miei beni vi appartengono
dopo la mia morte, se io persisto nel rifiuto.
— Io lo ignorava, cara zia; ma questa notizia
non m'impedirà certo di consigliarvi un passo dal
quale dipende il vostro riposo, e ardisco dire anche
la vostra vita. Nessuna considerazione per un sì
debole interesse, ve ne scongiuro, non vi faccia esitare
un momento a cedergli tutto.
— Siete voi sincera, nipote?
— E potreste dubitarne? »
La signora Montoni parve commossa. « Voi meritate
questi beni, cara nipote, e vorrei poterveli
conservare: avete una virtù, di cui non vi credeva
capace. Ma il signor Valancourt?
— Signora, » interruppe Emilia, « cambiamo discorso,
di grazia, e non credete che il mio cuore
capace di egoismo. » Il dialogo fini così.
Emilia rimase presso la zia, nè la lasciò che
molto tardi.
In quel momento, tutto era tranquillo, e la casa
pareva sepolta nel sonno. Traversando le lunghe e
deserte gallerie del castello, Emilia ebbe paura
senza saper perchè; ma quando, entrando nel corridoio,
si rammentò l'avvenimento dell'altra notte,
fu assalita da improvviso terrore, e fremè che un
oggetto come quello veduto da Annetta non si presentasse
innanzi a lei, e che la paura ideale o fondata
non producesse il medesimo effetto su i di lei
sensi. Non sapeva precisamente di qual camera
avesse parlato la donzella, ma non ignorava che
dovea passarvi dinanzi. Il suo sguardo inquieto procurava
di distinguere nell'oscurità: camminava adagio
e con passo incerto. Giunta ad una porta, udì
un piccolo rumore; esitò, ma ben presto il suo timore[14]
divenne tale, che non ebbe più forza di camminare.
D'improvviso, la porta si aprì, una persona,
che le sembrò Montoni, apparve, rientrò prontamente
nella camera e la chiuse. Al lume ch'era in
essa, credette aver distinta una persona vicina al
fuoco, in atteggiamento malinconico. Il suo terrore
svanì, e fece luogo alla sorpresa: il mistero di Montoni,
la scoperta d'un individuo ch'egli visitava a
mezzanotte in un appartamento interdetto, e di cui
si raccontavano tante cose, eccitò vivamente la di
lei curiosità.
Mentre stava perplessa desiderando spiare i movimenti
di Montoni, ma temendo d'irritarlo se ne
fosse vista, la porta si aprì di bel nuovo e si richiuse
per la seconda volta. Allora Emilia entrò
bel bello nella camera contigua, e depostovi il lume,
si nascose in una vôlta oscura del corridoio, per
vedere se la persona che usciva fosse veramente
Montoni. Dopo alcuni minuti la porta si aprì per
la terza volta; la medesima persona ricomparve:
era Montoni; egli guardossi intorno, chiuse e se
ne andò. Poco dopo si sentì chiudere al di dentro.
Essa rientrò nella sua stanza sorpresa al massimo
segno. Era già mezzanotte: essendosi avvicinata
alla finestra, intese camminare sul terrazzo sottoposto,
e vide parecchie persone moversi nell'ombra;
la colpì un rumor d'armi, ed una parola d'ordine
detta sottovoce: allora si ricordò degli ordini di
Montoni, e comprese che per la prima volta montavano
la guardia nel castello; quando tutto fu
quieto, se ne andò a riposare.
CAPITOLO XXIII
La mattina seguente, Emilia andò a trovare la
zia di buonissim'ora; ella aveva dormito bene, e
ricuperati gli spiriti e le forze, ma la di lei risoluzione
di resistere al marito era combattuta dal[15]
timore. La fanciulla, temendo le conseguenze della
sua caparbietà, fece di tutto per persuaderla, ma
la signora Montoni, come vedemmo, aveva lo spirito
della contraddizione; e quando se le presentavano
circostanze disgustose, cercava meno la verità
che argomenti da combattere. Una lunga abitudine
aveva tanto confermato in lei questa disposizione
naturale, che non se ne accorgeva più. Le
ragioni di Emilia non fecero che risvegliare il suo
orgoglio, anzichè convincerla; e non pensava se non
a sottrarsi alla necessità di obbedire sul punto in
questione. Se le fosse riuscito di fuggire dal castello,
contava già separarsi legalmente, e vivere
nell'agiatezza coi beni che le restavano. Emilia lo
avrebbe desiderato quanto lei, ma non si lusingava
d'un esito favorevole; le dimostrò l'impossibilità di
uscire dalla porta, assicurata e guardata con tanta
cautela; l'estremo pericolo di confidarsi alla discretezza
di un servo, che avrebbe potuto tradirla per
malizia o imprudenza; e la vendetta infine di Montoni,
se avesse scoperto la trama...
Questa lotta di contrari affetti lacerava il cuore
della zia, quando entrò d'improvviso il marito, e
senza parlare della di lei indisposizione, le dichiarò
venir a rammentarle quanto indarno essa tentasse
di resistere ai suoi voleri. Le accordò tutto il giorno
per acconsentire alla sua domanda, protestandole,
in caso di rifiuto, che la sera medesima l'avrebbe
rilegata nella torre di levante; aggiunse che molti
cavalieri dovendo pranzare quel giorno istesso nel
castello, essa farebbe gli onori della tavola colla
nipote. La signora Montoni non voleva accettare,
ma riflettendo che durante il pranzo, la sua libertà,
sebben ristretta, avrebbe potuto favorire i suoi progetti,
acconsentì; il marito ritirossi tosto. L'ordine
ricevuto penetrava Emilia di maraviglia e timore;
fremeva all'idea di trovarsi esposta a tali sguardi,
e le parole del conte Morano non erano fatte per[16]
calmarla. Le convenne dunque prepararsi per comparire
al pranzo, ma si vestì anche più semplicemente
del solito, per evitare d'essere distinta. Questa
politica non le riuscì, giacchè, quando tornò
dalla zia, Montoni, rimproverandole il suo far dimesso,
le prescrisse un abbigliamento più ricercato,
adoperando a tal uopo gli ornamenti destinati pel
di lei matrimonio con Morano. Adornata col miglior
gusto e la massima magnificenza, la bellezza di
Emilia non aveva mai brillato tanto. La sua unica
speranza in quel punto era che Montoni progettasse
meno qualche avvenimento straordinario, che il
trionfo dell'ostentazione, spiegando agli occhi dei
convitati l'opulenza della sua famiglia. Allorchè
entrò nella sala, ov'era ammannito un lautissimo
pranzo, il castellano ed i suoi ospiti erano già a
mensa; essa andava a prender posto presso la zia,
ma Montoni le fe' cenno colla mano; due cavalieri
si alzarono, e la fecero sedere in mezzo a loro.
Il più avanzato in età di costoro era grande,
aveva lineamenti caratteristici, naso aquilino, occhi
incavati penetrantissimi; il di lui volto era magro
e sparuto come dopo una lunga malattia.
L'altro, in età di circa quarant'anni, aveva fisonomia
diversa; sguardo obliquo, ma volpino, occhi
castagni, piccoli ed infossati, volto quasi ovale, irregolare
e brutto.
Altri otto personaggi sedevano alla medesima
tavola, tutti in divisa, ed avevano tutti un'espressione
più o meno forte di ferocia, d'astuzia o di
libertinaggio. Emilia li guardava timidamente, rammentandosi
la truppa veduta il dì precedente, e si
credeva circondata da banditi. Il luogo della cena
era un'immensa sala antica ed oscura, illuminata
da una sola finestra gotica altissima, dalla quale
vedevasi il bastione occidentale e gli Appennini.
Ella osservò che Montoni trattava con grand'autorità
gli ospiti, i quali ricambiavanlo con dignitosa[17]
deferenza. Nel tempo del pranzo non si parlò che
di guerra e di politica, di Venezia, dei suoi pericoli,
del carattere del doge regnante e dei primari
senatori. Finito il pranzo, i convitati, alzatisi, bevvero
tutti alla salute di Montoni e alla gloria delle
sue imprese. Mentre egli accostava la coppa alla
bocca, il vino traboccò spumeggiando e ruppe il
cristallo in mille pezzi. Ei faceva uso di quella
specie di vetri di Venezia, i quali hanno la proprietà
di rompersi allorchè ricevono un liquore
avvelenato. Sospettando che qualcuno dei convitati
avesse attentato alla sua vita, fece chiuder le porte,
e mettendo mano alla spada, lanciò occhiate furibonde
su tutti indistintamente, gridando: « Qui c'è
un traditore! che tutti quelli che sono innocenti
mi aiutino a trovare il colpevole. » I cavalieri proruppero
in grida d'indegnazione, e sguainarono le
spade. La signora Montoni voleva fuggire, ma il
marito le impose di restare, aggiungendo qualche
altra cosa che non fu intesa a motivo del tumulto
e delle grida. Allora tutti i servi comparvero innanzi
a lui, e dichiararono la loro ignoranza. La
protesta però non poteva essere ammessa, essendo
innegabile che soltanto il vino del castellano era
stato avvelenato, per cui bisognava che almeno il
dispensiere fosse stato connivente. Quest'uomo, con
un altro, la cui fisonomia tradiva la convinzione
del delitto, o il timore della pena, fu messo in
ceppi e trascinato in un tetro carcere; Montoni
avrebbe trattato nella stessa guisa tutti gli ospiti
se non avesse temute le conseguenze d'un passo sì
ardito: si contentò dunque di giurare che non sarebbe
uscito neppur uno, prima che fosse dilucidato
quest'affare. Ordinò aspramente alla moglie
di ritirarsi, e ad Emilia di accompagnarla.
Mezz'ora dopo comparve nel di lei gabinetto;
Emilia fremè vedendo la sua aria truce, gli occhi
sfavillanti di rabbia e le labbra livide. « È inutile[18]
tenervi sulla negativa, » gridò egli furente alla
moglie, « giacchè ho la prova del vostro delitto:
non avete alcuna speranza di perdono se non in
una sincera confessione; il vostro complice ha svelato
tutto. »
Emilia fu colpita dall'atroce accusa. L'agitazione
della zia non le permetteva di parlare; la sua faccia
passava da un estremo pallore ad un rosso infiammato.
« Risparmiate i discorsi inutili, » disse Montoni,
vedendola disposta a parlare; « il vostro contegno
basta a tradirvi; or sarete condotta nella torre
d'oriente.
— Quest'accusa, » rispose la moglie, che poteva
appena articolar parola, « è un pretesto per la vostra
crudeltà; sdegno di rispondervi.
— Signore, » disse vivamente Emilia, « questa
orribile imputazione è falsa; oso rendermene mallevadrice
sulla mia vita. Sì, signore, » soggiunse,
« questo non è il momento di usar riguardi. Voi
cercate ingannarvi volontariamente, al solo fine di
perdere la mia povera zia.
— Se vi è cara la vita, tacete. »
Emilia, alzando gli occhi al cielo, sclamò: « Non
c'è più speranza. »
Egli si volse alla moglie, la quale, rimessa dalla
sorpresa, ne respingeva i sospetti con veemente
asprezza. La rabbia di Montoni aumentava; Emilia,
prevedendone le conseguenze, si precipitò ai di lui
piedi, abbracciandogli le ginocchia e supplicandolo,
piangendo, di calmare il suo furore; ma sordo alle
preghiere della nipote e alle giustificazioni della
moglie le minacciava fieramente amendue, quando
fu chiamato. Uscì chiudendo la porta e portandone
seco la chiave. Esse dunque si trovarono prigioniere.
La Montoni guardava intorno a sè cercando un
mezzo di fuggire. Ma come farlo? Sapeva pur troppo
fino a qual punto il castello fosse forte, e con qual[19]
vigilanza guardato. Tremava di affidare il suo destino
al capriccio d'un servo, di cui conveniva mendicare
l'assistenza.
Frattanto intesero gran tumulto e confusione nella
galleria; alle volte si sentiva il cozzar delle spade.
La provocazione di Montoni, la sua impetuosità, la
sua violenza, facevano supporre ad Emilia che le
armi sole potessero finire l'orribile contesa. La zia
aveva esaurite tutte le espressioni dello sdegno, e
la nipote tutte le frasi consolanti. Tacevano amendue
in quella specie di calma, che succede nella
natura al conflitto degli elementi. Le circostanze di
cui Emilia era stata testimone le rappresentavano
mille confusi timori, e le sue idee succedevansi in
tumultuoso disordine; fu scossa dalla sua meditazione
sentendo battere alla porta, e riconobbe la
voce di Annetta.
« Mia cara signora, aprite: ho molte cose da raccontarvi, »
diceva sottovoce la povera ragazza. — La
porta è chiusa, » rispose la padrona. — Sì, lo vedo,
signora, ma per carità apritela. — Il padrone ha
portato seco la chiave. — O beata Vergine! che
sarà di noi? — Aiutaci ad uscire, » disse la Montoni.
« Dov'è Lodovico? — Nella sala grande cogli
altri, che combatte valorosamente. — Combatte! e
chi sono gli altri? — Il padrone, tutti quei signori,
e molti altri. — C'è qualche ferito? » disse Emilia
con voce tremante. — Sì, signora, ce n'è qualcuno
disteso in terra immerso nel sangue. Gran Dio! fate
ch'io possa entrare, signora; ah! eccoli che vengono;
mi ammazzano sicuramente. — Fuggi, » disse Emilia,
« fuggi; noi non possiamo aprirti. »
Annetta ripetè che venivano, e fuggì.
« Calmatevi, zia, » disse Emilia, « per pietà, calmatevi;
essi vengono forse per liberarci. Chi sa che
il signor Montoni non sia già vinto.
— Eccoli, » gridò la zia, « li sento venire. »
Emilia alzò gli occhi languenti verso la porta,[20]
spaventata al maggior segno. Fu messa la chiave
nella serratura; la porta si aprì, ed entrò Montoni
seguito da tre satelliti. « Eseguite i miei ordini, »
disse loro accennando la moglie; essa mise un grido
e fu trascinata via sul momento. Emilia cadde priva
di sensi sur una sedia: allorchè rinvenne, si vide
sola, e guardando per tutta la stanza con occhi
smarriti, sembrava interrogare ogni cosa sul destino
della zia. Finalmente, si alzò per esaminare, quantunque
con poca speranza, se la porta era libera, e
la trovò aperta. Si avanzò timidamente nella galleria,
incerta ove dovesse andare. Suo primo desiderio
fu di ottenere qualche notizia sul destino
della zia. Scese nel tinello. A misura che si avanzava,
sentiva da lontano voci irate: le facce che incontrava
pei numerosi anditi e la confusione che
regnava aumentavano il di lei spavento. In fine arrivò
nella stanza che cercava, ma non c'era alcuno.
Non potendo più reggersi in piedi, si riposò un
momento. Riflettè che avrebbe invano cercata la zia
nell'immenso laberinto di quel castello, che pareva
assediato dai briganti. Pensò dunque a tornare nella
sua camera, ma temeva d'incontrarsi in que' feroci,
quando un sordo mormorio interruppe il cupo silenzio;
il rumore cresceva: distinse qualche voce e
sentì passi che s'accostavano. Si alzò per andarsene
ma venivano appunto per l'unica via ch'ella potesse
seguire: pensò dunque di aspettare che fossero entrati.
Udì gemiti, e vide poco dopo comparire un
uomo portato da quattro. Atterrita a questo spettacolo,
ebbe appena forza bastante per tornare alla
sua camera senza poter conoscere chi fosse l'infelice
circondato da quella gente, che nella confusione
non l'aveano veduta.
Il suo affetto per la zia diveniva sempre maggiore;
si ricordava che Montoni l'aveva minacciata
di chiuderla nella torre di levante, ed era probabile
che tal castigo avesse soddisfatto la di lui vendetta.[21]
Risolse dunque, nel corso della notte, di cercare
una via per recarsi a quella torre. Sapeva
bene che non avrebbe potuto efficacemente soccorrere
la zia, ma credè che nel suo tristo carcere sarebbe
stata sempre una consolazione per lei l'udire
la voce della nipote. Alcune ore passarono così nella
solitudine e nel silenzio, e parve che Montoni l'avesse
obliata del tutto. Appena fu notte, vennero appostate
le sentinelle.
L'oscurità della camera rianimò il terrore di Emilia.
Appoggiata alla finestra, fu assalita da mille idee
disgustose. « E che! » diceva ella; « se qualcuno
di questi banditi, col favor delle tenebre, s'introducesse
nella mia camera, cosa avverrebbe di me? »
Poi, ricordando l'abitante misterioso della camera
vicina, il suo terrore mutò oggetto. « Non è un
prigioniero, benchè resti nascosto in quella stanza;
non è Montoni che lo chiuda per di fuori, ma è
l'incognito stesso che si prende questa cura. » Facendo
tutte queste riflessioni, si ritirò dalla finestra,
ed accese il lume. Si affrettò quindi ad assicurare
alla meglio l'uscio della scala. Questo lavoro l'occupò
sino a mezzanotte. Tutto era quieto, nè si
udiva che i passi della sentinella sul bastione. Aprì
la porta con cautela, e vedendo e sentendo una perfettissima
calma, uscì; ma appena ebbe fatti pochi
passi, vide un fioco chiarore sui muri della galleria.
Rientrò in camera, e chiuse la porta, immaginandosi
che forse Montoni andasse a fare la sua visita
all'incognito. Dopo mezz'ora circa uscì di nuovo, e
non vedendo nessuno, prese la direzione della scala
di tramontana, immaginandosi di poter ivi più facilmente
trovare la torre. Si fermava spesso, ascoltando
con paura il fischiar del vento, e guardando
da lontano attraverso l'oscurità dei lunghi androni.
Finalmente giunse alla scala che cercava, la quale
metteva in due passaggi diversi. Esitò alcun poco,
e scelse quello che conduceva in una vasta galleria.[22]
La solitudine di quel luogo la gelò di spavento, e
tremava perfino all'eco de' propri passi. D'improvviso
le parve sentire una voce, e temendo egualmente
d'avanzarsi o di retrocedere, rimase immobile,
osando appena alzar gli occhi. Le parve che
quella voce proferisse lamenti, e venne confermata
in quest'idea da un lungo gemito. Credè potesse
essere sua zia, e si avanzò verso quella parte. Nulladimeno,
prima di parlare, tremava di confidarsi con
qualche indiscreto che potesse denunziarla a Montoni.
La persona, qualunque fosse, pareva afflittissima.
Mentre titubava, quella voce chiamò Lodovico.
Emilia allora riconobbe Annetta, e tutta lieta si accostò
per risponderle.
« Lodovico! » gridava Annetta piangendo; « Lodovico!
— Son io, » disse Emilia, tentando aprir la porta,
« Ma come sei tu qui? Chi ti ha rinchiusa?
— Lodovico! Lodovico!
— Non è Lodovico; sono io, è Emilia. »
Annetta cessò di piangere e tacque.
« Se tu puoi aprir la porta, entrerò, » disse Emilia;
« non temer di nulla.
— Lodovico! oh Lodovico! » gridava Annetta.
Emilia perdeva la pazienza, e temendo di essere
scoperta, voleva andarsene; ma riflettè che la ragazza
potrebbe aver qualche notizia sulla zia, o almeno
avrebbe potuto indicarle la strada della torre.
Ottenne infine una risposta, benchè poco soddisfacente.
Annetta non sapeva nulla della padrona, e
scongiuravala soltanto di dirle cosa fosse stato di
Lodovico. Emilia rispose non saperlo, e le domandò
come mai si trovasse rinchiusa là entro.
« Mi ha messo qui Lodovico. Dopo esser fuggita
dal gabinetto della padrona, io correva senza saper
dove: lo incontrai nella galleria, ed egli mi ha confinata
in questa camera, portando via la chiave, affinchè
non mi accadesse alcun male. Mi ha promesso[23]
di tornare quando tutto sarà quieto. Ma è già tardi,
e non lo veggo venire; chi sa che non l'abbiano
ucciso? »
Emilia si rammentò allora l'individuo ferito da
lei veduto trasportare nella sala, e non dubitò più
che non fosse Lodovico, ma nol disse. Impaziente
di saper qualcosa della zia, la pregò d'insegnarle
la strada della torre.
« Oh! non vi andate, signorina, per l'amor di
Dio, non mi lasciate qui sola.
« Ma, Annetta cara, » rispose Emilia, « non creder già
ch'io possa restar qui tutta notte. Insegnami la
strada della torre, e domattina mi occuperò della
tua liberazione.
— Beata Maria! » disse Annetta; « dovrò dunque
star qui tutta la notte? Morirò dalla paura e dalla
fame, non avendo mangiato nulla dopo il pranzo. »
Emilia potè a stento contener le risa a queste
espressioni. Infine ne ottenne una specie di direzione
verso la torre orientale. Dopo molte ricerche,
giunse alla scala della torre, e si fermò un istante
per fortificare il suo coraggio col sentimento del
dovere. Mentre esaminava quel luogo, vide una
porta in faccia alla scala. Incerta se questa la condurrebbe
dalla zia, tirò il chiavistello e l'aprì. Si
avvide che metteva sul bastione, e l'aria le spense
quasi il lume. Le nubi agitate dai venti stentavano
a lasciar vedere alcune stelle, raddoppiando gli
orrori della notte. Rinchiuse la porta e salì.
L'immagine della zia, pugnalata forse per mano
istessa del marito, venne a spaventarla; e si pentì
d'aver osato recarsi in quel luogo. Ma il dovere
trionfò della paura, e continuò a camminare. Tutto
era calmo. Finalmente le colpì gli sguardi una striscia
di sangue sulla scala; le pareti e tutti i gradini
n'erano aspersi. Si fermò sforzandosi di sostenersi,
e la sua mano tremante lasciò quasi cadere
il lume. Non sentiva nulla; quella torre non[24]
pareva abitata da anima viva. Si rimproverò mille
volte di essere uscita; temeva sempre di scoprire
qualche nuovo oggetto d'orrore; eppure, prossima
al termine delle sue ricerche, non sapeva risolversi
a perderne il frutto. Riprese coraggio, e giunta alla
torre, vide un'altra porta e l'aprì. I fiochi raggi
della lampada non le lasciarono vedere che mura
umide e nude. Entrando in quella stanza, e nella
spaventosa aspettativa di ritrovarvi il cadavere della
zia, vide qualcosa in un canto, e colpita da un'orribile
convinzione, restò alcun tempo immobile. Animata
quindi da una specie di disperazione, si accostò
all'oggetto del suo terrore, e riconobbe un vecchio
arnese militare, sotto al quale erano ammucchiate
armi. Mentre si dirigeva alla scala per uscire,
vide un'altra porta chiusa di fuori con un catenaccio,
e dinanzi alla quale si vedevano altre orme di
sangue: chiamò ad alta voce la zia, ma nessuno
rispose. « Essa è morta! » sclamò allora; « l'hanno
uccisa; il suo sangue rosseggia questi gradini. »
Perdè tutta la forza, depose il lume, e sedette sulla
scala. Dopo nuovi inutili sforzi per aprire, scese per
tornare alla sua camera. Appena fu nel corridoio,
vide Montoni, e spaventata più che mai, si gettò in
un angolo per non incontrarlo. Gli sentì chiudere
una porta, l'istessa ch'ella avea già notato. Ne ascoltò
i passi allontanarsi, e quando l'estrema distanza
non le permise più di distinguerlo, entrò in camera
e coricossi.
Già biancheggiava l'alba e le palpebre d'Emilia
non eransi ancora chiuse al sonno; ma alfine la
natura spossata diè qualche tregua alle sue pene.
CAPITOLO XXIV
Emilia restò in camera tutta la mattina, senza
ricevere alcun ordine di Montoni, nè vedere altro
che gli armati i quali passeggiavano sul bastione.[25]
L'inquietudine sul destino della zia la vinse finalmente
sull'orrore di parlare a quel barbaro, e decise
di recarsi da lui per ottenere il permesso di
vederla.
L'assenza troppo prolungata di Annetta provava
inoltre ch'era accaduta qualche disgrazia a Lodovico,
e ch'essa era tuttavia rinchiusa. Emilia risolse
dunque d'andar a vedere se ella fosse ancora nella
stanza, e d'avvertirne Montoni: suonava il mezzogiorno.
I lamenti della meschina si sentivano all'estremità
della galleria: deplorava il proprio destino
e quello di Lodovico; quando intese Emilia,
la supplicò a liberarla subito, perchè moriva di
fame. La padroncina le rispose che sarebbe andata
immediatamente a chiedere la sua liberazione; allora
la paura della fame cedè pel momento a quella
del padrone; e quando la fanciulla la lasciò, essa
la pregava con calore a non iscoprir l'asilo ove nascondeasi:
Emilia si avvicinò alla gran sala, ed il
tumulto che udì, gl'individui che incontrò rinnovaronle
gli spaventi. Però pareano pacifici: la guardavano
con avidità, talvolta le parlavano. Traversando
la sala per recarsi nel salotto di cedro, ove
teneasi d'ordinario Montoni, scorse sul suolo spade
infrante e gocce di sangue: quasi quasi credea vedere
un cadavere. Avanzandosi, distinse un mormorio
di voci, che la fecero titubare se dovesse o
no inoltrarsi. Cercava invano cogli occhi qualche
servitore per farsi annunziare, ma non ne compariva
alcuno. Gli accenti ch'ella intendea non esprimevano
più la collera, e riconobbe la voce di parecchi
convitati della sera precedente. Mentre si
disponeva a bussare, comparve lo stesso Montoni;
sorpreso, lasciò conoscere nella sua fisionomia tutti
i vari moti dell'animo. Emilia, tremante, stavasi
mutola. Montoni le domandò con severità che cosa
avesse inteso del loro colloquio. Essa lo accertò di
non essere venuta coll'intenzione di ascoltare i di[26]
lui segreti, ma per implorare la sua clemenza per
la zia e per Annetta. Montoni parve dubitarne, la
fissò con occhio indagatore, e l'inquietudine che
provava, non poteva nascere da frivole ragioni. Emilia
lo scongiurò di lasciarla andare a visitare sua
zia: egli rispose con un sorriso amaro, che confermò
i suoi timori, e le fece perdere il coraggio di
rinnovargliene la preghiera.
« Per Annetta, » diss'egli, « andate a trovar Carlo,
che le aprirà. Lo stolto che l'ha rinchiusa non esiste
più. »
Emilia, fremendo, rispose: « Ma la mia povera
zia, signore, per pietà, parlatemi della mia zia...
— Se ne ha cura, » soggiunse Montoni: « non
ho tempo di rispondere alle vostre vane domande. »
E volle lasciarla. Emilia lo trattenne scongiurandolo
di farle sapere ove fosse sua moglie; d'improvviso
intesero la tromba, ed un rumore confuso
di uomini e di cavalli nel cortile. Montoni corse
subito fuori. Emilia, nell'incertezza di seguirlo, affacciatasi
alla finestra, le parve distinguere i medesimi
cavalieri veduti partire pochi giorni prima,
e, scorgendo accorrer gente da tutte le parti, stimò
bene di rifugiarsi nella sua camera. La maniera e
le espressioni di Montoni quando aveva parlato di
sua moglie, confermavano in parte i di lei sospetti.
Stava assorta in que' cupi pensieri, quando vide entrare
il vecchio Carlo.
« Cara signorina, » le diss'egli, « non ho potuto
prima d'ora occuparmi di voi. Vi porto frutti e
vino, chè dovete averne bisogno.
— Vi ringrazio, Carlo, » diss'ella; « avete forse
ricevuto quest'ordine dal signor Montoni?
— No signora, » rispose il vecchio; « sua eccellenza
ha troppe occupazioni. »
La fanciulla rinnovò le sue domande sul destino
della zia: ma mentre la trascinavano via, Carlo era
dall'altra parte del castello, e da quel momento[27]
non ne sapeva più nulla. Mentr'egli così diceva,
Emilia lo guardava attenta, e non poteva comprendere
se parlasse per ignoranza, o dissimulazione o
timore di offendere il padrone. Le rispose laconicamente
sulla zuffa della sera prima, accertandola
nel tempo stesso che gli alterchi erano finiti, e che
il castellano credeva essersi ingannato sospettando
degli ospiti. « Il combattimento non ebbe altra origine, »
soggiunse Carlo, « ma mi lusingo di non
rivedere mai più un simile spettacolo in questo castello
sebbene vi si preparino cose strane. » Essa
lo pregò di spiegarsi. « Ah! signora, » diss'egli,
« non posso tradire il segreto, nè esprimere tutti i
miei pensieri in proposito; ma il tempo svelerà tutto. »
Essa lo pregò di aprire ad Annetta, indicandogli
la stanza ove la meschina si trovava rinchiusa;
Carlo le promise di soddisfarla; mentre partiva, gli
domandò chi fossero i nuovi arrivati: la sua congettura
si verificò: era Verrezzi colla sua truppa.
Scorse più di un'ora prima che Annetta comparisse.
In fine arrivò piangendo e lamentandosi.
« Chi l'avrebbe mai preveduto, signorina? Oh!
caso terribile! Oh! povero Lodovico!
— L'hanno proprio ucciso? » le chiese commossa
Emilia.
— No; ma fu ferito gravemente. Ecco perchè
non poteva venire ad aprirmi; ma ora comincia a
star meglio.
— Cara Annetta, mi rallegro molto nel sentire
ch'egli esiste. »
Appena la giovine fu alquanto calmata, Emilia la
mandò a far ricerche sulla zia, ma non potè averne
notizia alcuna.
I due giorni susseguenti passarono senza verun
caso notevole, e senza ch'ella potesse saper nulla
della zia. La sera del secondo giorno, in preda al
suo dolore, ed assalita da funeste imagini, per
iscacciarle, si affacciò alla finestra, considerando i[28]
tanti astri fulgidissimi e scintillanti nell'azzurro
empireo, che tutti seguono una determinata via
senza confondersi nello spazio. Si rammentò quante
volte col diletto padre ne avesse osservato il corso.
Queste riflessioni finirono a destare in lei quasi
egualmente dolore e sorpresa. Pensò ai tristi eventi
succeduti alle prime dolcezze della vita, alle ultime
scosse, alla sua presente situazione in terra
straniera, in un castello isolato, circondata da tutti
i vizi, esposta a tutte le violenze, e le pareva d'essere
illusa da un sogno prodotto dall'immaginazione
alterata, nè poteva persuadersi che tanti mali
non fossero ideali. Pianse al pensiero di quanto
avrebbero sofferto i di lei genitori, se avessero potuto
prevedere le sventure che l'attendevano.
Alzò gli occhi al cielo, e vide il medesimo pianeta
osservato in Linguadoca la notte precedente
alla morte del padre; desso trovavasi al di sopra
delle torri orientali. Si rammentò i discorsi relativi
allo stato dell'anime, e la melodia intesa, e
della quale la sua tenerezza, a dispetto della ragione,
aveva ammesso il senso superstizioso. All'improvviso,
i suoni d'una dolce armonia parvero
traversar l'aere; rabbrividì, ascoltò qualche minuto
in una penosa aspettativa, sforzandosi di raccogliere
le idee e ricorrere alla ragione. Ma la ragione
umana non ha impero sui fantasmi dell'immaginazione,
più che i sensi non abbian mezzi per giudicare
la forma dei corpi luminosi, che brillano e
tosto si estinguono nell'oscurità della notte.
La sorpresa di lei a quella musica sì dolce e
deliziosa, era per lo meno scusabile, essendo già molto
tempo che non udiva la menoma melodia. Il suono
acuto del piffero e della tromba era la sola musica
che si conoscesse nel castello di Udolfo.
Allorchè si fu un poco rimessa, cercò assicurarsi
da qual parte venisse il suono. Le parve che partisse
dal basso del castello, ma non potè precisarlo.[29]
Il timore e la sorpresa cedettero tosto al piacere
di un'armonia, che il silenzio notturno rendeva ancor
più interessante. La musica cessò, e le idee di
Emilia errarono a lungo su questa strana circostanza;
era singolare udir musica dopo mezzanotte,
allorchè tutti dovevano essere al riposo, e in un
castello ove da tanti anni non erasi inteso nulla
che vi somigliasse. I lunghi patimenti avevanla resa
sensibile al terrore, e suscettibile di superstizione.
Le parve che suo padre avesse potuto parlarle con
quella musica, per ispirarle consolazione e fiducia
sul soggetto ond'era allora occupata. La ragione le
suggerì però questa congettura esser ridicola, e la
respinse; ma, per un'inconseguenza naturale della
fantasia riscaldata, si abbandonò alle idee più bizzarre:
rammentò il caso singolare che aveva posto
Montoni in possesso del castello; considerò la maniera
misteriosa della scomparsa dell'antica proprietaria;
non si era mai più saputo nulla di lei, ed il
suo spirito fu colpito da paura. Non eravi nessun
rapporto apparente tra quell'avvenimento e la melodia,
eppure credè che queste due cose fossero
legate da qualche vincolo segreto.
Finalmente si ritirò dalla finestra, ma le tremavano
le gambe nell'accostarsi al letto. Il lume stava
per estinguersi, ed ella fremeva di dover restare
al buio in quella vasta camera; ma vergognandosi
tosto della sua debolezza, andò a letto pensando
al nuovo incidente, e risoluta di aspettare la notte
successiva all'ora istessa per ispiare il ritorno della
musica.
CAPITOLO XXV
Annetta venne da lei la mattina senza fiato. « Oh!
signorina, » le disse con tronche parole, « quante
cose ho da raccontarvi! Ho scoperto chi è il prigioniero,
ma non era il prigioniero; è quello chiuso[30]
in quella camera, di cui vi ho parlato, ed io l'aveva
preso per un'ombra!
— Chi era quel prigioniero? » chiese Emilia,
ripensando al caso della notte scorsa.
— V'ingannate, signora, non era prigioniero
niente affatto.
— Chi è dunque?
— Beata Vergine! come son rimasta! L'ho incontrato
poco fa sul bastione qui sotto! Ah! signora
Emilia, questo luogo è proprio strano. Se ci vivessimo
mill'anni, non finirei mai di stupirmi. Ma,
come vi diceva, l'ho incontrato sul bastione, e certo
pensava a tutt'altro che a lui.
— Queste ciarle sono insopportabili; di grazia,
Annetta, non abusare della mia pazienza.
— Sì, signorina, indovinate? chi era mo; è una
persona che voi conoscete benissimo.
— Non posso indovinarlo, » rispose Emilia con
impazienza.
— Ebbene, vi metterò sulla strada. Un uomo
grande, col viso lungo, che cammina con gravità,
che porta un gran pennacchio sul cappello, che abbassa
gli occhi quando gli si parla, e guarda la
gente di sotto le ciglia negre e folte! Voi l'avete
veduto mille volte a Venezia; era amico intimo del
padrone. Ed ora, quando ci penso, di che aveva
egli paura in questo vecchio castello selvaggio per
chiudervisi con tanta precauzione? Ma adesso prende
il largo, ed io l'ho trovato poco fa sul bastione.
Tremava nel vederlo; mi ha fatto sempre paura;
ma non voleva che se ne accorgesse. Allorchè mi
è passato vicino, gli ho fatto una riverenza, e gli
ho detto: Siate il ben venuto al castello, signor
Orsino.
— Ah! dunque era Orsino?
— Sì, signora; egli stesso, colui che ha fatto
ammazzare quel signore veneziano.
— Gran Dio! » sclamò Emilia; « egli è venuto
a Udolfo! Ha fatto benissimo a star nascosto.[31]
— Ma che bisogno c'è di tante precauzioni? Chi
potrebbe mai immaginarsi di trovarlo qui?
— È verissimo, » disse Emilia, ed avrebbe forse
concluso che la musica notturna veniva da Orsino,
se non fosse stata certa non aver egli nè gusto, nè
talento per quell'arte. Non volendo aumentare le
paure di Annetta parlando di ciò che cagionava la
sua, le domandò se fossevi alcuno nel castello che
sapesse suonar qualche istrumento.
« Oh, sì, signorina, Benedetto suona bene il tamburo,
Lancellotto è bravo per la tromba, e anche
Lodovico suona bene la tromba. Ma ora è ammalato.
Mi ricordo che una volta...
— Non avresti tu intesa una musica, » disse Emilia
interrompendola, « dopo il nostro arrivo in
questo luogo, e segnatamente la notte scorsa?
— No, signora; non ho inteso mai altra musica,
fuor quella dei tamburi e delle trombe. E quanto
alla notte passata, non ho fatto altro che sognare
l'ombra della mia defunta padrona.
— La tua defunta padrona? » disse la fanciulla
tremando; « tu sai dunque qualcosa? Dimmi tutto
quello che sai, per carità.
— Ma, signorina, voi non ignorate che nessuno
sa cosa sia accaduto di lei: è dunque chiaro che
ha preso l'istessa strada dell'antica padrona del castello,
della quale nessuno ha saputo più nulla. »
Emilia, profondamente afflitta, congedò la cameriera,
i cui discorsi avevano rianimato i terribili
di lei sospetti sul destino della zia, ciò che la decise
a fare un secondo sforzo per ottenere qualche
certezza in proposito, dirigendosi un'altra volta a
Montoni.
Annetta tornò di lì a poche ore, e disse ad Emilia
che il portinaio del castello desiderava parlarle
avendo un segreto da rivelarle. Quest'ambasciata
la sorprese, e le fece dubitare di qualche insidia;
già esitava ad acconsentire; ma una breve riflessione[32]
gliene dimostrò l'improbabilità, e arrossì della sua
debolezza.
« Digli che venga nel corridoio, » rispos'ella,
« e gli parlerò. »
Annetta partì, e tornò poco dopo dicendo:
« Bernardino non ardisce venire nel corridoio,
temendo di essere veduto. Si allontanerebbe troppo
dal suo posto, e non può farlo per adesso. Ma se
volete compiacervi di venire a trovarlo al portone,
passeremo per una strada segreta ch'egli mi ha
insegnata, senza traversare il cortile, e vi racconterà
cose che vi sorprenderanno assaissimo. »
Emilia, non approvando quel progetto, negò positivamente
di andare. « Digli, » soggiunse, « che se
ha da farmi qualche confidenza, l'ascolterò nel corridoio
quando avrà il tempo di venirci. »
Annetta andò a portar la risposta, ed al suo ritorno
disse ad Emilia: « Non ho concluso nulla,
signorina; Bernardino non può in verun modo lasciare
la porta in questo momento; ma se stasera,
appena farà notte, volete venire sul bastione orientale,
egli potrà forse allontanarsi un minuto e svelarvi
il suo segreto. »
Emilia, sorpresa ed allarmata al tempo stesso
dal mistero che colui esigeva, esitava sul partito
da prendere; ma considerando che forse l'avvertirebbe
di qualche disgrazia, od avrebbe da darle
notizie della zia; risolse di accettare l'invito. « Dopo
il tramonto del sole, » disse, « io sarò in fondo al
bastione orientale; ma allora sarà appostata la sentinella;
come farà Bernardino a non esser veduto?
— È appunto ciò che gli ho detto, ed esso mi ha
risposto aver la chiave della porta di comunicazione
fra il cortile e il bastione, per la quale egli si propone
di passare; che quanto alle sentinelle, non ne
mettono alcuna in fondo al bastione, perchè le mura
altissime e la torre di levante bastano da quella
parte per guardare il castello, e che quando sarà
oscuro, non potrà esser veduto all'altra estremità.[33]
— Ebbene, » disse Emilia, « sentirò ciò che vuol
dirmi, e ti prego di accompagnarmi stasera sul bastione:
intanto di' a Bernardino di esser puntuale
all'ora indicata, giacchè potrei ancor io esser veduta
dal signor Montoni. Dov'è egli? Vorrei parlargli.
— È nel salotto di cedro, a parlamento con altri
signori. Io credo che voglia dare un banchetto per
riparare il disordine dell'altra notte: in cucina sono
tutti occupatissimi. »
La padroncina le domandò se aspettavano nuovi
ospiti. Annetta non lo credeva. « Povero Lodovico! »
diss'ella; « sarebbe allegro come gli altri se fosse
ristabilito! Il caso però non è disperato: il conte
Morano era più ferito di lui, e intanto è guarito e
se n'è tornato a Venezia.
— Come facesti a saperlo?
— Me l'han detto ier sera, signorina; mi sono
scordata di contarvelo. »
Emilia la pregò di avvertirla quando Montoni
fosse solo. Annetta andò a portar la risposta a Bernardino,
che l'aspettava impaziente. Il castellano
intanto fu così occupato per tutto il giorno, che
Emilia non ebbe l'occasione di calmare i suoi timori
sul destino della zia. Volse i suoi pensieri
all'ambasciata del portinaio: si perdeva in mille
congetture, e man mano che si avvicinava l'ora
del misterioso colloquio, cresceva la sua impazienza.
Il sole finalmente tramontò: sentì appostare le sentinelle,
ed appena giunse Annetta, che doveva accompagnarla,
scesero insieme. Emilia temeva d'incontrar
Montoni, o qualcuno de' suoi. « Rassicuratevi, »
disse Annetta, « sono ancora tutti a tavola,
e Bernardino lo sa. »
Giunte al primo terrazzo, la sentinella, gridò:
Chi va là? Emilia rispose, e s'incamminarono al
bastione orientale, ove furono fermate da un'altra
sentinella, e dopo una seconda risposta, poterono
continuare. Emilia non amava esporsi così tardi alla[34]
discrezione di quella gente, impazientissima di ritirarsi,
accelerò il passo per raggiunger Bernardino,
ma non trovandolo si appoggiò pensierosa al parapetto.
Il bosco e la valle eran sepolti nell'oscurità,
un lieve venticello agitava solo la cima degli alberi,
e tratto tratto si udivano voci nell'interno del
vasto edifizio.
« Cosa sono queste voci? » disse Emilia tremante.
— Quelle del padrone e de' suoi ospiti che gozzovigliano, »
rispose Annetta.
— Gran Dio! com'è mai possibile che un uomo
sia così allegro quando forma l'infelicità del suo
simile!... E la fanciulla guardò con raccapriccio la
torre di levante presso cui si trovava: vide una
fioca luce attraverso la ferriata della stanza inferiore:
una persona vi passava col lume in mano; tale circostanza
non rianimò le sue speranze a proposito
della signora Montoni, poichè, avendola cercata colà
appunto, non vi aveva trovato che una vecchia divisa
e delle armi. Nulladimeno si decise a tentar di aprire
la torre al di fuori, appena Bernardino si fosse partito
da lei.
Passava il tempo, e costui non compariva. Emilia,
inquieta, esitò se dovesse aspettarlo ancora;
avrebbe mandata Annetta a cercarlo, se non avesse
temuto di restar sola.
Mentre ragionava colla seguace della tardanza, lo
videro comparire. Emilia si affrettò a domandargli
che cosa voleva dirle, pregandolo di non perder
tempo, poichè l'aria notturna l'incomodava.
« Licenziate la cameriera, signorina, » le disse
Bernardino con voce sepolcrale, che la fece fremere,
« il mio segreto non posso rivelarlo che a voi
sola. » Emilia esitò, ma finì a pregare Annetta di
allontanarsi alcuni passi; indi gli disse: « Ora,
amico mio, son sola, cosa volete dirmi? »
Egli tacque un momento, come per riflettere poi,
rispose: « Io perderei certo il mio impiego se lo[35]
sapesse il padrone. Promettetemi, signorina, che non
paleserete a chicchessia sillaba di ciò che son per
dirvi. Chi si è fidato di me in quest'affare me ne
farebbe pagare il fio se venisse a capire ch'io l'avessi
tradito. Ma mi sono interessato per voi, e voglio
dirvi tutto. » Emilia lo ringraziò accertandolo
della sua segretezza, e lo pregò di continuare. « Annetta
mi ha detto nel tinello, quanto voi state in
pena per la signora Montoni, e quanto desiderate
essere informata del suo destino.
— È vero, se lo sapete ditemi tosto ciò che ha
di più terribile; son parata a tutto.
— Io posso dirvelo, ma vi veggo così afflitta, che
non so come cominciare.
— Son parata a tutto, amico, » ripetè Emilia
con voce ferma ed imponente, « e preferisco la più
terribile certezza a questo dubbio crudele.
— Se è così, vi dirò tutto. Già sapete che il
padrone e sua moglie non andavano d'accordo;
non tocca a me conoscerne il motivo, ma credo che
ne saprete il risultato.
— Bene, » disse Emilia, « e così?
— Il padrone, a quanto pare, ha avuto ultimamente
un forte alterco con lei: io vidi tutto, intesi
tutto, e più di quel che possono supporre; ma ciò
non riguardandomi, io non diceva nulla. Pochi
giorni sono egli mi mandò a chiamare e mi disse:
Bernardino, tu sei un brav'uomo, e credo potermi
fidare di te... Lo assicurai della mia fedeltà. Allora,
per quanto mi ricordo, mi disse: Ho bisogno che
tu mi serva in un'affare importante. Mi ordinò ciò
che doveva fare; ma di questo non dirò nulla, chè
concerne soltanto la padrona.
— Cielo! che faceste? qual furia poteva indurvi
ambidue ad un atto così detestabile?
— Fu una furia, » rispose Bernardino con voce
cupa, e tacquero entrambi. Emilia non aveva coraggio
di domandarne davvantaggio. Bernardino
pareva temere di spiegarsi più particolarmente; alfine[36]
soggiunse: « È inutile riandare il passato. Il
padrone fu troppo crudele, sì, ma voleva essere obbedito.
Se io mi fossi ricusato, ne avrebbe trovato
un altro meno scrupoloso di me.
— L'avete uccisa? » balbettò Emilia; « io dunque
parlo con un sicario? » Bernardino tacque, e
la fanciulla mosse un passo per lasciarlo.
— Restate, signorina, » ei le disse; « voi meritereste
di lasciarvelo credere, giacchè me ne stimaste
capace.
— Se siete innocente, ditelo tosto » soggiunse Emilia
quasi moribonda; « non ho forza bastante per
ascoltarvi maggior tempo.
— Or bene, la signora Montoni è viva per me
solo; essa è mia prigioniera: sua eccellenza l'ha
confinata nella camera di sopra del portone, e me
ne affidò la custodia. Voleva dirvi che avreste potuto
parlarle; ma ora... »
Emilia, sollevata a tai parole da inesprimibile angoscia,
scongiurollo di farle vedere la zia. Egli vi
acconsentì senza farsi pregar molto, e le disse che
la notte seguente, allorchè Montoni fosse a letto, se
voleva recarsi alla porta del castello, potrebbe forse
introdurla dalla prigioniera.
In mezzo alla riconoscenza che le ispirava siffatto
favore, parve alla fanciulla di scorgere ne' di lui
sguardi una certa soddisfazione maligna, mentre
pronunziava quest'ultime parole. Sulle prime scacciò
tale idea, lo ringraziò di nuovo, e raccomandò
la zia alla di lui pietà, assicurandolo che l'avrebbe
ricompensato, e sarebbe esatta all'appuntamento indicato;
quindi gli augurò buona sera, ed andossene.
Passò qualche ora prima che la gioia, eccitata in
lei dal racconto di Bernardino, le permettesse di
giudicare con precisione dei pericoli che minacciavano
ancora la zia e lei stessa. Quando la sua agitazione
si calmò, riflettè che la zia era prigioniera
d'un uomo, il quale poteva sacrificarla alla vendetta
o all'avarizia sua. Allorchè pensava all'atroce fisonomia[37]
del portinaio, credeva che il suo decreto di
morte fosse già firmato; immaginando colui capace
di consumare qualunque atto barbaro. Queste idee
le rammentarono l'accento col quale le aveva promesso
di farle vedere la prigioniera. Le venne mille
volte in idea che la zia potesse esser già morta, e
che lo scellerato era forse incaricato d'immolare
anche lei all'avarizia di Montoni, il quale di tal
guisa sarebbe entrato in possesso dei suoi beni in
Linguadoca, che avevan formato il tema d'una sì
odiosa contestazione. L'enormità di questo doppio
delitto gliene fece alla fine respingere la probabilità;
ma non perdè tutti i timori, nè tutti i dubbi ispiratile
dalle maniere di Bernardino.
La notte era già molto avanzata, ed ella si afflisse
quasi di non sentir la musica, della quale
aspettava il ritorno con sentimento più forte della
curiosità. Distinse lunga pezza le risa smoderate di
Montoni e de' suoi convitati, le canzoni lubriche, e
sentì finire ben tardi i loro rumorosi discorsi. Susseguì
un profondo silenzio interrotto soltanto dai
passi di quelli che si ritiravano ne' rispettivi alloggi.
Emilia, ricordandosi che la sera precedente aveva
intesa la musica press'a poco all'istess'ora, aprì
pian piano la finestra, stando in attenzione della
soave armonia.
Il pianeta da lei osservato al primo sentire della
musica, non si vedeva ancora, e cedendo ad una
impressione superstiziosa, guardava attenta la parte
del cielo in cui doveva apparire, aspettando la melodia
nello stesso momento. Alfine esso comparve,
rifulgendo sopra le torri orientali. Emilia tese l'orecchio,
ma indarno. Le ore scorsero in ansiosa
aspettativa; nessun suono turbò la calma solenne
della natura. Ella rimase alla finestra finchè l'alba
non cominciò a biancheggiare le vette de' monti, e
persuasa allora che la musica non si sarebbe altrimenti
sentita, se ne andò a letto.
[38]
CAPITOLO XXVI
Emilia restò sorpresa il dì seguente udendo che
Annetta sapeva la detenzione della zia nella camera
sopra il portone d'ingresso del castello, e non ignorava
neppure il progetto di visita notturna; che
Bernardino avesse potuto confidare alla cameriera
un mistero così importante era poco probabile, ma
intanto le mandava un messaggio relativo al loro
colloquio, invitandola a trovarsi sola, un'ora dopo
mezzanotte, sul bastione, e aggiungendo che avrebbe
agito secondo la promessa. Emilia fremè a tale proposta,
e fu assalita da mille timori simili a quelli
che l'avevano agitata la notte. Non sapea qual partito
prendere: figuravasi spesso che Bernardino l'avesse
ingannata; che forse aveva già assassinata la
zia; ch'era in quel momento il sicario di Montoni,
il quale voleva sacrificarla all'esecuzione dei suoi
progetti. Il sospetto che la infelice donna non vivesse
più, si riunì ai suoi timori personali. Infatti,
lo zio sapeva che, in caso di morte della moglie
senza avergli fatta la cessione de' suoi beni, li avrebbe
ereditati Emilia; ned era improbabile ch'egli pensasse
a sbarazzarsi anche di lei per entrar in tranquillo
possesso di quelle tanto agognate sostanze.
Alfine, il desiderio di liberarsi da tante crudeli incertezze,
la decisero a non mancare al convegno.
« Ma come potrò io, » diss'ella, « traversar il
bastione così tardi? Le sentinelle mi fermeranno, e
il signor Montoni lo saprà.
— Bernardino ha pensato a tutto, » rispose Annetta;
« ei mi ha dato questa chiave, incaricandomi
d'avvertirvi ch'essa apre una porta in fondo
alla galleria a vôlta, che conduce al bastione di
levante; così non temerete d'incontrare gli uomini
di guardia. Mi ha incaricato di dirvi inoltre che vi
fa andare sul terrazzo sola per condurvi al luogo[39]
convenuto, onde non aprire la sala grande, il cui
cancello cigola. » Questa spiegazione così naturale
calmò Emilia.
« Ma perchè vuole egli ch'io vada sola?
— Perchè? glie l'ho domandato appunto. Perchè,
gli dissi, non potrei venire anch'io? che male
ci sarebbe? Ma mi ha risposto di no. Io volli persistere:
fu inflessibile. Mi figuro però che saprete
chi andate a vedere.
— Te lo ha forse detto Bernardino?
— No, signora, non mi ha detto nulla. »
Per tutto il resto del dì, Emilia fu in preda a
continue incertezze. Udì suonare la mezzanotte e
titubava ancora. La pietà per la zia vinse alfine ogni
ripugnanza: pregò Annetta di seguirla fino alla porta
della galleria, e quivi aspettare il suo ritorno. Giunta
colà, aprì, tremando, la porta, ed entrata sola e
senza lume sul bastione, avanzossi guardinga ed attenta
verso il luogo convenuto, cercando Bernardino
attraverso le tenebre. Raccapricciò al suono di una
voce rauca che parlava vicino a lei, e riconobbe tosto
il portinaio, il quale l'aspettava appoggiato al
parapetto. E' le rimproverò la sua tardanza, dicendole
aver mancato più di mezz'ora. Le disse di seguirlo,
ed accostossi al luogo ond'era entrato sul
terrazzo. Quando la porta fu aperta, la tetra oscurità
dell'andito, illuminato da una sola fiaccola che
ardeva infissa nel suolo, la fece fremere; ricusò di
entrarvi, a meno che non permettesse ad Annetta
di accompagnarla. Bernardino si oppose, ma unì destramente
al rifiuto tante particolarità proprie ad
eccitare la curiosa pietà di Emilia per la zia, che
riuscì a persuaderla a seguirlo fino al portone. Egli
prese la torcia e andò avanti. In fondo all'andito
aprì un'altra porta, e scesi pochi gradini si trovarono
in una cappella diroccata. La fanciulla si rammentò
alcuni discorsi di Annetta su tal proposito.
Contemplava con terrore quelle mura senza vôlta[40]
e coperte di musco; quelle finestre gotiche dove
l'ellera e la brionia supplivano da lunga pezza ai
vetri, ed i cui festoni frammischiavansi ai capitelli
infranti. Bernardino urtò in una pietra e proruppe
in una bestemmia orribile, resa più tremenda dall'eco
lugubre. Il cuore di lei si agghiacciò, ma
continuò a seguirlo, ed egli voltò a destra. « Per
di qui, signorina, » le disse, scendendo una scala
che pareva addurre a profondi sotterranei. Emilia
si fermò domandandogli con voce tremante ove
pretendesse condurla.
« Al portone, » rispose Bernardino.
— Non possiamo andarci per la cappella?
— No, signora, essa ci condurrebbe nel secondo
cortile, ch'io voglio scansare. »
Emilia esitava ancora, temendo egualmente di
andare innanzi, e d'irritare colui ricusando di seguirlo.
« Venite, signorina, » diss'egli, giunto già in
fondo alla scala, « spicciatevi: io non posso star
qui tutta notte; non vi aspetto più. » Sì dicendo,
andò innanzi, portando sempre la fiaccola. Emilia,
temendo di restar nelle tenebre, lo seguì con ripugnanza.
Giunsero in un sotterraneo, ove l'aria umida
e grossa, i folti vapori oscuravan talmente la fiaccola,
che Bernardino, per paura non gli si spegnesse,
si fermò un momento ad attizzarla; nell'intervallo,
Emilia osservò vicino a lei un doppio cancello di
ferro, e, più lontano, alcuni mucchi di terra che
parevano circondare una fossa da morti. Simile
spettacolo in cotal luogo l'avrebbe colpita violentemente
in ogni altro tempo, ma allora credè quella
fosse la tomba della zia, e che il perfido Bernardino
conducesse anche lei alla morte. Il luogo
oscuro e terribile ove ritrovavansi giustificava quasi
il suo pensiero, che sembrava adattato al delitto, e
vi si poteva commettere impunemente un assassinio.
Vinta dal terrore, non sapeva che risolvere,[41]
pensando come vana fosse la fuga, impedita dalla
tenebria e dal lungo cammino, non che dalla sua
debolezza. Pallida ed inquieta, aspettava che Bernardino
avesse attizzata la fiaccola, e siccome la sua
vista ricorreva sempre alla fossa, non potè a meno
di chiedergli per chi fosse preparata. L'uomo volse
vêr lei gli sguardi senza rispondere. Ella ripetè la
domanda; colui, scuotendo la face, andò oltre, nè
aperse bocca. La fanciulla camminò tremando sino
ad un'altra scala, salita la quale trovaronsi nel
primo cortile. Nel traversarlo, la fiamma lasciava
vedere le alte e nere muraglie tappezzate di lunghe
erbe sporgenti dalle commessure, e coronate da
torricelle contrastanti colle enorme torri del portone.
In quel quadro risaltava la tarchiata figura di
Bernardino. Costui era avvolto in un lungo mantello
scuro, sotto del quale appena si scuoprivano
i suoi coturni, o sandali, e la punta della lunga
sciabola che portava costantemente al fianco. Aveva
in testa un berretto basso di velluto nero ornato
d'una piccola piuma. I lineamenti duri esprimevano
un umore burbero, astuto ed impaziente. La vista
del cortile rianimò l'abbattuta Emilia, e nell'avvicinarsi
al portone cominciò a sperare di essersi ingannata
nelle sue paurose congetture; guardando
inquieta la prima finestra sopra la vôlta, e vedendola
scura, domandò se fosse quello il luogo ove
trovavasi rinchiusa la sua zia. Essa parlava adagio,
e Bernardino non parve intenderla perchè non le
rispose. Entrarono nell'edifizio, e trovaronsi ai piè
della scala d'una delle torri.
« La signora Montoni dorme lassù, » disse Bernardino.
— Dorme! » rispose Emilia salendo.
— Dorme in quella camera lassù, » soggiunse
l'uomo.
Il vento che soffiava per quelle profonde cavità
accrebbe la fiamma della torcia, la quale rischiarò[42]
vie meglio l'atroce figura di Bernardino, le vetuste
pareti, la scala a chiocciola annerita dal tempo, e
gli avanzi di vecchie armature che parean il trofeo
d'antiche vittorie.
Giunti al pianerottolo, la guida mise una chiave
nella serratura d'una stanza, « Potete entrar qui, »
le disse, « ed aspettarmi: intanto vado a dire alla
padrona che siete arrivata.
— È una precauzione inutile, chè mia zia mi vedrà
volentieri.
— Non ne sono ben sicuro, » soggiunse Bernardino
additando la camera. « Entrate, signorina, che
io vado ad avvertirla. »
Emilia, sorpresa ed offesa in certo qual modo, non
ardì resistere; ma siccome colui portava via la
fiaccola, lo pregò di non lasciarla al buio. Ei si
guardò intorno, e veduta una lucerna in sulla scala,
l'accese e la diede alla fanciulla, la quale entrò,
ed egli chiuse la porta al di fuori; ascoltò attenta,
e le parve che, in vece di salire, scendesse la scala,
ma il vento impetuoso che soffiava sotto il portone,
non le permetteva di distinguere alcun suono; infine,
non udendo verun movimento nella camera superiore
aveva detto il custode che stava la Montoni,
stette viepiù perplessa. Poco dopo, in un intervallo
di calma, le parve sentir scendere Bernardino
nel cortile, e di ascoltarne perfino la voce.
Tutti i primieri timori tornarono a colpirla più forte,
persuasa non fosse più errore dell'immaginazione,
ma un avvertimento del destino che doveva subire:
non dubitò che la sua zia non fosse stata immolata,
e forse in quella medesima stanza ove aveano tratto
anche lei pel medesimo oggetto. Il contegno e le
parole di Bernardino a proposito della zia confermavano
le sue idee lugubri. Stava attenta, e non
sentiva verun rumore nè sulla scala, nè nella stanza
superiore; accostatasi alla finestra munita di ferree
sbarre, udì alcune voci tra il soffio del vento,[43]
ed al lume di una torcia che pareva essere sotto la
vôlta, vide sul suolo l'ombra di parecchi uomini,
tra cui una colossale, che riconobbe per quella del
feroce custode.
Appena il di lei spirito si fu calmato, prese il
lume per vedere se le fosse possibile di fuggire. La
stanza era spaziosa, nè aveva altre aperture che la
finestra e la porta per la quale era entrata: non
c'erano mobili, all'infuori di un seggiolone di bronzo
fisso in mezzo alla stanza, e sul quale pendeva una
grossa catena di ferro, infissa alla vôlta. Lo guardò
a lungo con orrore e sorpresa; osservò vari cerchi
pure di ferro per chiudervi le gambe, ed altri simili
anelli sui bracciuoli della sedia. Si convinse
che quell'odiosa macchina era un istrumento di
tortura, e che più d'un infelice, incatenato colà,
doveva esservi morto di fame. Se le rizzarono i capelli
al pensiero di trovarsi in siffatto luogo, e precipitossi
all'altra estremità per cercarvi uno sgabello;
ma non vide che una tenda oscura, la quale
copriva intieramente parte della stanza. Attonita,
stette a considerarla con ispavento: desiderava e
temeva di sollevarla per vedere ciò che ricoprisse:
due volte fu trattenuta dalla rimembranza dello
spettacolo orribile che la sua mano temeraria aveva
scoperto nell'appartamento chiuso; ma pensando
che forse nascondeva il cadavere della zia assassinata,
spinta dalla disperazione, l'alzò. Dietro trovavasi
un cadavere steso sopra un lettuccio basso
e lordo di sangue; la sua faccia, sfigurata dalla
morte, era schifosa e coperta di livide ferite. Emilia
lo contemplò con occhio avido e smarrito: ma
il lume le cadde di mano; e cadde ella stessa svenuta
a' piè dell'orribile oggetto.
Allorchè riebbe i sensi, si trovò nelle braccia di
Bernardino, e circondata da gente che la trasportava
fuori: si accorse di che si trattava; ma l'estrema
debolezza non le permise di alzar la voce,[44]
nè di fare moto alcuno, e scese la scala. Si fermarono
sotto la vôlta: uno di coloro, togliendo la
torcia a Bernardino, aprì una porta laterale, ed
uscendo sulla piattaforma, lasciò distinguere gran
quantità di gente a cavallo. Sia che l'aria aperta
l'avesse un poco rianimata, o che quegli strani oggetti
la restituissero al sentimento del pericolo, la
fanciulla gettò alcune strida e fece vani sforzi per
isciogliersi da quei briganti.
Bernardino intanto chiedeva la torcia, alcune voci
lontane rispondevano, parecchie persone si avvicinavano,
e un lume comparve nel cortile; Emilia fu
trascinata fuor della porta: ella vide lo stesso uomo
che teneva la torcia del portinaio, occupato a far
lume ad un altro, il quale sellava un cavallo in
fretta, circondato da altri cavalieri dal truce aspetto.
« Perchè perdere tanto tempo? » disse Bernardino,
bestemmiando ed avvicinandosi; « spicciatevi,
fate presto, perdio!
— La sella è quasi pronta, » rispose l'uomo che
l'affibbiava, e Bernardino bestemmiò di nuovo per
siffatta trascuraggine. Emilia, che gridava aiuto con
voce fioca, fu trascinata verso i cavalli, ed i briganti
disputarono fra loro su quale dovessero farla
montare. In quella uscì molta gente con lumi, ed
Emilia conobbe distintamente, fra tutte le altre, la
voce strillante di Annetta: scorse quindi Montoni e
Cavignì seguiti da soldati. Non li vedeva più allora
con paura, ma con isperanza, e non pensava più
ai pericoli del castello, dal quale poco prima desiderava
tanto fuggire.
Dopo una breve zuffa, Montoni ed i suoi sconfissero
i nemici, i quali, in minor numero, e poco
interessati forse nell'impresa ond'erano incaricati,
fuggirono di galoppo. Bernardino sparve fra le tenebre,
ed Emilia fu ricondotta nel castello. Ripassando
dal cortile, la memoria di quanto aveva veduto
nella stanza del portone rinnovò in lei i terrori[45]
primieri; e quando udì ricadere la saracinesca
che la rinchiudeva ancora in quelle mura formidabili,
fremè, ed obliando quasi il nuovo pericolo cui
era sfuggita, non poteva comprendere come la vita
e la libertà non si trovassero al di là di quelle
barriere.
Montoni ordinò ad Emilia d'aspettarlo nella sala
di cedro. Vi andò poco dopo, e l'interrogò con severità
sul misterioso avvenimento. Sebbene lo riguardasse
allora come l'assassino di sua zia, e potesse
appena soddisfare alle sue domande, pure le
di lei risposte poterono convincerlo non avere essa
avuto volontariamente alcuna parte nella trama, e
la congedò appena vide comparire la sua gente, che
aveva fatto radunare per iscoprire i complici.
Emilia stette un pezzo agitata prima di poter
riflettere sull'occorso. Il cadavere veduto dietro alla
tenda stavale sempre innanzi agli occhi, e ruppe in
dirotto pianto. Annetta gliene chiese il motivo, ma
essa non volle confidarglielo, per timore di irritare
Montoni.
Costretta a concentrare in sè tutto l'orrore di
quel segreto, la di lei ragione fu per soccombere
all'insopportabile peso. Quando Annetta le parlava,
essa non l'udiva, o rispondeva fuor di proposito;
sospirava, ma non versava lagrime. Spaventata dalla
di lei situazione, Annetta corse ad informarne Montoni:
egli aveva allora congedati i servi, senza avere
scoperto nulla. Il commovente racconto che gli fece
la cameriera sullo stato di Emilia, lo indusse a recarsi
da lei. Al suono della sua voce, la fanciulla
alzò gli occhi, un raggio di luce parve ravvivarne
gli spiriti: si alzò per ritirarsi lentamente in fondo
alla camera. Montoni le parlò con dolcezza: essa
lo guardava con aria curiosa e spaventata, rispondendo
sempre di sì a tutte le sue domande. Il di
lei spirito pareva aver ricevuto una sola impressione,
quella della paura. Annetta non poteva spiegar[46]
questo disordine, e Montoni, dopo inutili sforzi per
farla parlare, ordinò alla donzella di restar là tutta
notte, e d informarlo il giorno di poi del suo stato.
Partito che fu, Emilia si ravvicinò, e domandò
chi fosse colui ch'era venuto ad inquietarla, Annetta
le rispose ch'era il signor Montoni, ed essa, ripetendo
replicatamente questo nome, si lasciò condurre
al letto, e l'esaminò con occhio smarrito;
volgendosi quindi tremando alla seguace, la scongiurò
a non lasciarla, dicendo che dopo la morte
di suo padre era stata abbandonata da tutti. Annetta
ebbe la prudenza di non interromperla, e
quando, dopo aver pianto molto, la vide infine cedere
al sonno, l'affezionata ragazza, obliando ogni
paura, restò sola ad assistere Emilia tutta notte.
CAPITOLO XXVII
Il riposo restituì le forze alla fanciulla. Svegliandosi
vide con sorpresa Annetta addormentata su
d'una sedia vicina e tentò di rammentarsi le circostanze
della sera uscitele talmente dalla memoria,
che non gliene restava traccia: fissava tuttavia gli
occhi sopra la cameriera, quando questa si destò.
« Ah, cara padroncina mi riconoscete? » sclamò
essa.
— Se ti riconosco! Sicuramente; tu sei Annetta;
ma come ti trovi qui?
— Oh! voi siete stata malissimo, in verità, ed
io credeva...
— È singolare, » disse Emilia, procurando rammentarsi
il passato; « ma parmi essere stata funestata
da un sogno orribile! Dio buono! » soggiunse
raccapricciando; « certo non poteva essere che un
sogno. » E fissava sguardi spaventati su Annetta,
la quale, volendo tranquillarla, le rispose: « Non
era un sogno, no, ma ora tutto è finito.
— Essa fu dunque uccisa? » disse Emilia tremante.[47]
Annetta mise un grido; essa ignorava la
circostanza che ricordavasi la fanciulla, ed attribuiva
la frase al delirio. Quand'ebbe chiaramente
spiegato ciò che aveva voluto dirle, Emilia si rammentò
il tentativo per rapirla, e domandò se l'autore
del progetto era stato scoperto. L'altra le rispose
di no, sebbene fosse facile indovinarlo, e
disse che doveva a lei la sua liberazione. « È così,
signora Emilia, » continuò Annetta; « io era decisa
ad essere più accorta di Bernardino, il quale
non aveva voluto confidarmi il suo segreto; ma io
mi era piccata di scuoprirlo. Invigilava sulla terrazza;
ed appena egli ebbe aperta la porta, uscii
per cercar di seguirvi, persuasissima che non si
progettava nulla di buono con tanto mistero. Assicuratami
che non aveva chiusa la porta internamente,
l'aprii, e vi tenni dietro da lontano, aiutata
dal chiaror della fiaccola, fin sotto la vôlta della
cappella. Io ebbi paura di andare avanti, avendo
sentito raccontare cose strane di quel luogo, ma
temeva parimenti ritornarmene sola; e mentre Bernardino
attizzava la torcia, vinsi ogni timore, vi
seguii fino al cortile, e quando saliste la scala, scivolai
pian piano sotto il portone, ove intesi un calpestìo
di cavalli al di fuori, e vari uomini che
bestemmiavano contro Bernardino, perchè tardava
a condurvi; ma colà fui quasi sorpresa: il custode
scese, ed io ebbi appena il tempo di schivarlo. Aveva
sentito abbastanza per sapere di che si trattava, nè
dubitai più che c'entrasse il conte Morano in quel
progetto, benchè fosse partito. Corsi indietro al
buio, obliando tutte le paure; eppure non farei
un'altra volta lo stesso tragitto per tutto l'oro del
mondo. Fortunatamente il signor Cavignì ed il padrone
erano ancora alzati; in un batter d'occhio
radunammo gente, e abbiam fatti fuggire i briganti. »
L'ancella aveva cessato di parlare, e Emilia parea
ascoltare ancora. Finalmente, rompendo il silenzio,[48]
disse: « Credo sia meglio andarlo a trovare
io stessa. Dov'è? »
Annetta domandò di chi parlasse.
« Del signor Montoni; ho bisogno di vederlo. »
Annetta, rammentandosi allora l'ordine ricevuto
la sera, si alzò immantinente, dicendo che incaricavasi
d'andarlo a cercare.
I sospetti della buona ragazza sul conte erano
fondatissimi; e Montoni, non dubitandone anch'esso,
cominciò a presumere che il veleno mescolato col
vino vi fosse stato messo per ordine di Morano.
Le proteste di pentimento da questi fatte ad
Emilia allorchè fu ferito, erano sincere quando le
fece, ma erasi ingannato anche lui. Aveva creduto
disapprovare i suoi progetti, e si affliggeva soltanto
del funesto loro risultato; quando però fu guarito,
le sue speranze si rianimarono, e si trovò disposto
ad intraprendere nuovi tentativi. Il portinaio del
castello, lo stesso ond'erasi già servito, accettò volentieri
un secondo regalo, e quand'ebbero concertato
il ratto di Emilia, il conte partì pubblicamente
dall'abituro ov'era stato a curarsi, e si ritirò colla
sua gente a qualche miglio di distanza. Le ciarle
sconsiderate di Annetta avendo somministrato a
Bernardino un mezzo quasi sicuro per ingannare
Emilia, il conte nella notte convenuta mandò tutti
i suoi servi alla porta del castello, restando esso
all'abituro per aspettarvi la fanciulla, cui si proponeva
di condurre a Venezia. Abbiamo già veduto
in qual modo andò a vuoto il suo progetto; ma le
violente e diverse passioni dalle quali fu agitata
l'anima gelosa di lui, son difficili ad esprimere.
Annetta fece l'ambasciata a Montoni e gli domandò
un colloquio per la nipote: egli rispose che fra
un'ora sarebbe stato nel salotto di cedro. Emilia
non sapeva qual esito dovesse aspettarsi dall'abboccamento,
e fremeva d'orrore alla sola idea della
sua presenza; voleva parlargli del funesto destino[49]
della zia, e supplicarlo d'una grazia che ardiva appena
sperare, di ritornare cioè in patria, giacchè
la zia non esisteva più.
Mentre, combattuta da mille timori, rifletteva sulla
prossima conferenza, e sulle probabili conseguenze
che potea derivargliene, Montoni le fece dire non
poterla vedere se non il giorno dopo: Emilia non
seppe che cosa pensare di tal ritardo. Annetta le
disse, che Verrezzi e la sua truppa tornavano per
certo alla guerra: il cortile esser pieno di cavalli,
ed avere saputo che il resto della banda era aspettato
per prendere tutti insieme un'altra direzione.
Quando fu notte, Emilia si rammentò la musica
misteriosa già udita; vi attaccava tuttavia una specie
d'interesse, sperando provarne qualche sollievo.
L'influenza della superstizione diventava ogni giorno
più attiva sulla di lei fantasia infiacchita; congedò
Annetta, e risolse di restar sola per aspettare la
musica. Andò diverse volte alla finestra invano; le
parve avere intesa una voce, e dopo un profondo
silenzio, si credè nuovamente delusa nella sua aspettativa.
Così passò il tempo fino a mezzanotte, ed allora
tutti i rumori lontani che si facevano sentire nell'abitato,
cessarono quasi nello stesso momento, e
il sonno parve regnar dappertutto. Tornò alla finestra,
e fu scossa da suoni straordinari: non era
un'armonia, ma il basso lamento d'una persona desolata.
Atterrita, stette ad ascoltare: i flebili lamenti
eran cessati: si chinò fuori della finestra per
iscoprire qualche lume: una perfetta oscurità avvolgeva
le camere sottoposte, ma credè vedere a poca
distanza, sul bastione, moversi qualche oggetto. Il
debole chiarore delle stelle non le permetteva di
distinguer bene: s'immaginò fosse una sentinella,
e celò il lume per osservare meglio senza essere
veduta.
Il medesimo oggetto ricomparve quasi sotto la[50]
finestra: essa distinse una figura umana; ma il silenzio
con cui si avanzava le fe' credere non fosse
una sentinella; la figura si accostò: Emilia voleva
ritirarsi, ma la curiosità la spingeva a restare, ed
in quell'incertezza l'incognito si pose in faccia a
lei e restò immobile. Il profondo silenzio, la misteriosa
ombra la colpirono talmente, che stava per
ritrarsi, allorchè vide la figura muoversi lungo il
parapetto e sparire. Emilia pensò qualche tempo a
questa strana circostanza, non dubitando di aver
veduto un'apparizione soprannaturale. Allorchè fu
più tranquilla, si ricordò ciò che le avean detto
delle temerarie imprese di Montoni, e le venne in
idea d'aver visto uno di quegl'infelici spogliati dai
banditi, divenuto loro prigioniero, e ch'egli fosse
l'autore della musica misteriosa. Riflettendo però
che un prigioniero non poteva passeggiare così senza
guardia, respinse tale idea.
Credè in seguito che Morano avesse trovato il
mezzo d'introdursi nel castello, ma se le presentarono
tosto le difficoltà ed i pericoli di siffatta impresa,
tanto più che se gli fosse riuscito di giunger
fin lì, non sarebbesi contentato di stare muto
a mezzanotte sotto la finestra, giacchè conosceva
perfettamente la scala segreta, e non avrebbe per
certo fatto quei lamenti da lei intesi. Giunse perfino
a supporre, fosse qualcuno che volesse impadronirsi
del castello; ma i suoi dolorosi sospiri distruggevano
anche questa congettura. Allora risolse
di vegliare la notte successiva per cercar di dilucidare
il mistero, decisa ad interrogare la figura se
si fosse di nuovo mostrata.
[51]
CAPITOLO XXVIII
Il giorno di poi Montoni mandò ad Emilia una
seconda scusa, che la sorprese non poco.
Verso sera, il distaccamento che aveva fatta la
prima scorreria nelle montagne, tornò al castello:
dalla sua camera remota, Emilia sentì le frenetiche
grida ed i canti di vittoria. Annetta venne poco dopo
ad avvertirla che coloro si rallegravano alla vista
d'un immenso bottino. Tal circostanza la confermò
nell'idea, che Montoni fosse realmente un capo di
masnadieri, e si fosse prefisso di ristabilire la sua
opulenza assaltando i viaggiatori. In verità, quand'essa
rifletteva alla posizione di quel castello fortissimo,
quasi inaccessibile, isolato in mezzo a quei
monti selvaggi e solilari, lontano da città, borghi
e villaggi, sul passaggio dei più ricchi viaggiatori;
le pareva che tal situazione fosse adattatissima per
progetti di rapina, e non dubitò che Montoni non
fosse realmente un capo di assassini. Il di lui carattere
sfrenato, audace, crudele e intraprendente,
conveniva molto ad una simile professione; amava
il tumulto, e la vita burrascosa; era insensibile a
pietà e timore; il suo coraggio somigliava alla ferocia
animale: non era quel nobile impulso che
eccita il generoso contro l'oppressore a pro dell'oppresso;
ma una semplice disposizione fisica che
non permette all'anima di sentire il timore, perchè
non sente null'altro.
La supposizione di Emilia, quantunque plausibile,
non era però abbastanza esatta: essa ignorava la
situazione dell'Italia, e l'interesse rispettivo di tante
contrade belligeranti. Siccome i redditi di parecchi
Stati non bastavano a mantenere eserciti, neppure
nel breve periodo in cui il genio turbolento dei
governi e dei popoli permetteva di godere i benefizi
della pace, si formò a quell'epoca un ordine[52]
di uomini ignoti nel nostro secolo, e mal dipinti
nella storia di quello. Fra i soldati licenziati alla
fine di ciascuna guerra, un piccolissimo numero
soltanto tornava alle arti poco lucrative della pace
e del riposo. Gli altri, talvolta passavano al servizio
de' potentati in guerra; tal altra formavansi in
bande di briganti, e padroni di qualche forte, il
loro carattere disperato, la debolezza dei governi,
e la certezza che al primo segnale sarebbero corsi
sotto le bandiere, li metteva al coperto da ogni persecuzione
civile. Si attaccavano spesso alla fortuna
d'un capo popolare, che li conduceva al servizio di
qualche Stato, e trafficava il prezzo del loro coraggio.
Quest'uso fe' dar loro l'epiteto di condottieri,
nome formidabile in Italia per un periodo assai
lungo. Ne vien fissato il fine al principio del
secolo decimosettimo; ma sarebbe quasi impossibile
indicarne con precisione l'origine.
Quando non erano assoldati, il capo d'ordinario
risiedeva nel suo castello; e là, o ne' luoghi circonvicini,
godevano tutti dell'ozio e del riposo.
Talvolta soddisfavano i bisogni a spese dei villaggi,
ma tal altra la loro prodigalità, allorchè dividevano
il bottino, ricompensava ad usura delle loro sevizie,
ed i loro ospiti prendevano alla lunga qualche
tinta del carattere bellicoso. Montoni, spinto dalle
grosse perdite al giuoco, aveva finito col farsi anch'egli
capo d'una di queste bande; Orsino ed altri
si riunirono a lui, e l'avanzo de' loro averi avea
servito a formare un fondo per l'impresa.
Appena fu notte, Emilia tornò alla finestra, decisa
di osservare più esattamente la figura, caso
mai ricomparisse. Intanto perdevasi in mille congetture.
Sentivasi spinta quasi irresistibilmente a
cercar di favellarle; ma ne la tratteneva il terrore.
« Se fosse una persona, » pensava, « che avesse progetti
su questo castello, la mia curiosità potrebbe
forse divenirmi fatale; eppure que' lamenti, quella[53]
musica da me intesi son certo suoi, nè posson venire
da un nemico. »
La luna tramontò, l'oscurità divenne profonda;
ella intese suonare la mezzanotte senza vedere nè
sentir nulla, e cominciò a formar qualche dubbio
sulla realtà della precedente visione, per cui, stanca
di aspettare invano, se ne andò a letto.
Montoni non pensò neppure il giorno seguente a
farla chiamare pel richiesto abboccamento. Più interessata
che mai di vederlo, gli fece domandare,
per mezzo di Annetta, a qual ora potesse riceverla;
egli le assegnò le undici ore. Emilia fu puntuale,
si armò di coraggio per sopportar la vista dell'assassino
di sua zia, e lo trovò nel salotto di cedro
circondato da tutti i suoi ospiti, alcuni dei quali si
volsero appena l'ebbero veduta, facendo un'esclamazione
di sorpresa. Emilia, vedendo che Montoni
non le badava, voleva ritirarsi, allorchè esso la richiamò
indietro.
« Vorrei parlarvi da sola, signore, se ne aveste
il tempo.
— Sono in compagnia di buoni amici pei quali
non ho segreti; parlate dunque liberamente, » rispose
Montoni.
Emilia senza aprir bocca, s'incamminò verso la
porta, ed allora Montoni si alzò e la condusse in un
gabinetto, chiudendone l'uscio dispettosamente. Essa
sollevò gli occhi sulla di lui fisonomia barbara, e
pensando che contemplava l'assassino della zia, compresa
d'orrore, perdette la memoria dello scopo
della sua visita, e non osò più nominare la signora
Montoni. Questi finalmente le domandò con impazienza
ciò che volesse da lui, « Non posso perder
tempo in bagattelle, » diss'egli, « avendo affari di molta
importanza. » Emilia gli disse allora che, desiderando
tornarsene in Francia, veniva a domandargliene
il permesso. La guardò con sorpresa, chiedendole
il motivo di tale richiesta. Emilia esitò, tremò, impallidì,[54]
e sentì scemarsi d'animo. Egli vide la sua
commozione con indifferenza, e ruppe il silenzio
per dirle che gli premeva di tornare nel salotto;
Emilia facendosi forza, ripetè allora la domanda, e
Montoni le diede un'assoluta negativa. Resa allora
ardita: « Non posso più, signore, » diss'ella, « restar
qui convenientemente, e potrei chiedervi con
qual diritto volete impedirmi di partire.
— Per volontà mia, » rispose egli incamminandosi
verso la porta, « ciò vi basti. »
Emilia, vedendo che simile decisione non ammetteva
appello, non tentò di sostenere i suoi diritti,
e fe' solo un debole sforzo per dimostrarne la giustizia.
« Fin quando viveva mia zia, » diss'ella con
voce tremante « la mia residenza qui potea esser
decente, ma or ch'essa non è più, mi si deve concedere
di partire. La mia presenza, o signore non
può tornarvi gradita, e un più lungo soggiorno qui
non servirebbe che ad affliggermi.
— Chi vi ha detto che la signora Montoni sia
morta? » diss'egli fissandola con occhio indagatore.
Ella esitò; nessuno aveaglielo detto, ed essa non
ardiva confessargli come avesse veduto nella stanza
del portone l'orribile spettacolo che glielo aveva
fatto credere.
— Chi ve lo ha detto? » ripetè Montoni con impaziente
severità.
— Lo so pur troppo per mia sventura; per pietà,
non parlatemene più. » E sentivasi venir meno.
— Se volete vederla, » disse Montoni, « lo potete;
essa è nella torre d'oriente. » E la lasciò senza
aspettare risposta. Parecchi dei cavalieri, che non
avevano mai veduta Emilia, cominciarono a motteggiarlo
su tale scoperta, ma Montoni avendo accolte
siffatte celie con serio contegno, e' cambiarono discorso.
Emilia, intanto, confusa dell'ultime di lui parole,
non pensò che a rivedere l'infelice zia, a ciò spronata[55]
dall'imperioso dovere. Appena vide Annetta,
la pregò di accompagnarla e l'ottenne con grande
difficoltà. Uscite dal corridoio, giunsero appiè della
scala insanguinata; Annetta non volle andare più
innanzi. Emilia salì sola; ma quando rivide le strisce
di sangue, si sentì mancare, e fermossi. Alcuni
minuti di pausa la rinfrancarono. Giunta sul pianerottolo,
temè di trovar la porta chiusa; ma s'ingannava:
la porta s'aprì facilmente, introducendola
in una camera oscura e deserta. La considerò paurosa:
si avanzò lentamente, ed udì una voce fioca.
Incapace di parlare o di fare alcun moto, ristette: la
voce si fece sentire nuovamente, e parendole allora
di riconoscere quella della zia, si fece coraggio, si
avvicinò ad un letto che scorse in fondo alla vastissima
camera, ne aprì le cortine, e vi trovò una
figura smunta e pallida; rabbrividì, e presale la
mano che somigliava a quella di uno scheletro, e
guardandola attenta, riconobbe madama Montoni,
ma sì sfigurata, che i suoi lineamenti attuali le rammentavano
appena ciò ch'era stata. Essa viveva ancora,
ed aprendo gli occhi, li volse alla nipote.
« Dove siete stata tanto tempo? » le chiese col
medesimo suono di voce; « credeva che mi aveste
abbandonata.
— Vivete voi, » parlò alfine Emilia, « o siete
un'ombra?
— Vivo, ma sento che sto per morire. »
Emilia procurò di consolarla, e le domandò chi
l'avesse ridotta in quello stato.
Facendola trasportare colà per l'inverosimile sospetto
ch'ella avesse attentato alla sua vita, Montoni
erasi fatto giurare dai suoi agenti il più profondo
segreto. Due erano i motivi di questo rigore:
privarla delle consolazioni di Emilia, e procacciarsi
l'occasione di farla morire senza strepito, se qualche
circostanza venisse a confermare i suoi sospetti.
La perfetta cognizione dell'odio che aveva meritato[56]
dalla moglie l'aveva indotto naturalmente ad accusarla
dell'attentato. Non aveva altre ragioni per
supporla rea, e lo credeva ancora. L'abbandonò in
quella torre alla più dura prigionia, ove, senza rimorsi
e senza pietà, la lasciò languire in preda ad
una febbre ardente, che l'aveva infine ridotta sull'orlo
del sepolcro.
Le striscie di sangue vedute da Emilia sulla scala,
provenivano da una ferita toccata, nella zuffa, da
uno dei satelliti che la trasportavano, e sfasciatasi
nel camminare. Per quella notte accontentaronsi coloro
di chiuder bene la prigioniera, non pensando
a farle la guardia. Ecco perchè, alla prima ricerca,
Emilia trovò la torre deserta e silenziosa. Allorchè
tentò d'aprire la porta della stanza, sua zia dormiva.
Se però il terrore non le avesse impedito di
chiamarla di nuovo, l'avrebbe alfine svegliata, e
sarebbesi così risparmiati tanti affanni. Il cadavere
osservato nella camera del portone, era quello del
ferito da lei veduto trasportare nella sala dove
aveva cercato un asilo, spirato sul tettuccio pochi
dì appresso, e che doveva esser sepolto la mattina
seguente nella fossa scavata sotto la cappella per
dov'era passata con Bernardino.
Emilia, dopo mille interrogazioni, lasciò la zia un
istante per andar in cerca di Montoni. Il vivo interesse
che sentiva per lei le fece obliare il risentimento
a cui l'esporrebbero le sue rimostranze, e
la poca apparenza di ottenere quanto voleva chiedergli.
« Vostra moglie è moribonda, signore, » gli diss'ella
appena lo vide; « il vostro corruccio non
vorrà perseguitarla certo fino agli ultimi momenti.
Permettete dunque che sia trasportata nelle sue
stanze, e se le apprestino i soccorsi necessari.
— A che gioverà questo, s'ella muore? » disse
Montoni con indifferenza.
— Gioverà, signore, a risparmiarvi qualcuno dei[57]
rimorsi che vi lacereranno allorchè sarete nella di
lei situazione. »
L'audace risposta non lo scosse guari; resistè
lunga pezza alle preghiere ed alle lagrime; al fine
la pietà, che aveva assunto le espressive forme di
Emilia, riuscì a commovere quel cuore di macigno.
Si volse vergognandosi di un buon sentimento, e
a volt'a volta inflessibile ed intenerito, acconsentì
a lasciarla riporre nel suo letto, e assistere la nipote
temendo insieme che il soccorso non fosse
troppo tardo, e che Montoni non si ritrattasse, Emilia
lo ringraziò appena, s'affrettò a preparare il
letto della zia, aiutata da Annetta e le portò un ristorativo,
che la ponesse in grado di reggere al trasporto.
Appena giunta nelle sue stanze, Montoni revocò
l'ordine; ma Emilia, lieta di avere agito con tanta
sollecitudine, corse a trovarlo, gli rappresentò che
un nuovo tragitto diverrebbe fatale, ed ottenne che
la lasciasse dov'era.
Per tutto il dì, essa non abbandonò la zia, se
non per prepararle il cibo necessario. La signora
Montoni lo prendeva per compiacenza, convinta di
dover morire fra poco. La fanciulla la curava con
tenera inquietudine: ormai non trattavasi più d'una
zia imperiosa, ma della sorella di un padre adorato,
la cui situazione faceva pietà. Giunta la notte, voleva
passarla presso di lei, ma ella vi si oppose assolutamente,
esigendo che andasse a riposarsi, e contentandosi
della compagnia di Annetta. Il riposo
per verità era necessario a Emilia, dopo le scosse
e il moto di quella giornata, ma non volle lasciar
la zia prima di mezzanotte, epoca riguardata dai
medici come critica. Allora, dopo aver ben raccomandato
ad Annetta di assisterla con cura e di andare
ad avvisarla al minimo sintomo di pericolo,
le augurò la buona notte e ritirossi. Aveva il cuore
straziato dallo stato orribile della zia, di cui ardiva[58]
appena sperare la guarigione. Vedeva sè stessa
chiusa in un antico castello isolato, lontana d'ogni
ausilio, e nelle mani di un uomo capace di tutto
che avrebbe potuto dettargli l'interesse e l'orgoglio.
Occupata da queste tristi riflessioni, Emilia non
andò a letto, e si appoggiò al davanzale della finestra
aperta. I boschi e le montagne, fiocamente illuminati
dall'astro notturno, formavano un contrasto
penoso collo stato del suo spirito; ma il lieve
stormir delle frondi ed il sonno della natura finirono
ad addolcire gradatamente il tumulto degli
affetti, e sollevarle il cuore al punto di farla piangere.
Restò così in quella posizione senza avere altra
idea che il sentimento vago delle disgrazie che
l'opprimevano; quando alfine scostò il fazzoletto
dagli occhi, vide sul bastione, in faccia a lei, immobile
e muta, la figura già osservata: l'esaminò
attentamente tremando, ma non potè parlarle com'eraselo
proposto. La luna rifulgeva, e l'agitazione
del suo spirito era forse l'unico ostacolo che le
impedisse di chiaramente distinguere quella figura,
la quale non facendo movimento alcuno, pareva inanimata.
Raccolse allora le idee smarrite e voleva
ritirarsi, quando la figura parve allungar una mano
come per salutarla, e mentre ella stava immobile
per la sorpresa e la paura, il gesto fu ripetuto.
Tentò parlare, ma le spirarono le parole sul labbro,
e nel ritirarsi dalla finestra per prender la lampada,
udì un sordo gemito; ascoltò senza osar di riaffacciarsi,
e ne udì un altro.
« Gran Dio! » sclamò essa; « che significa ciò? »
Ascoltò di nuovo, ma non intese più nulla. Dopo
un lungo intervallo, riavutasi, tornò alla finestra,
e rivide la figura. Ne ricevè un nuovo saluto, e intese
nuovi sospiri.
« Questo gemito è certamente umano! Voglio
parlare, » diss'ella. « Chi va là? » gridò poi sottovoce;
chi passeggia a quest'ora? La figura alzò[59]
la testa, e s'incamminò verso il parapetto. Emilia
la seguì cogli occhi, e la vide sparire al chiaro della
luna. La sentinella allora si avanzò a passi lenti
sotto la finestra, ove fermatasi, la chiamò per nome,
e le domandò rispettosamente se avesse veduto passar
qualche cosa. Essa rispose parerle aver veduto
un'ombra. La sentinella non disse altro; e tornò
indietro; ma siccome quell'uomo era di guardia,
Emilia sapeva che non poteva abbandonare il suo
posto, e ne aspettò il ritorno. Poco dopo lo sentì
gridare ad alta voce. Un'altra voce lontana rispose.
Uscirono soldati dal corpo di guardia, e tutto il
distaccamento traversò il bastione. Emilia domandò
cosa fosse; ma i soldati passarono senza darle retta.
Intanto essa si perdeva in mille congetture. Se
fosse stata più vana, avrebbe potuto supporre che
qualche abitante del castello passeggiasse sotto la
sua finestra colla speranza di rimirarla e dichiararle
i suoi sentimenti; ma tale idea non le venne, e
quando ciò fosse stato, l'avrebbe abbandonata come
improbabile, poichè quella persona, che avrebbe
potuto favellarle, era stata muta, e quando ella stessa
aveva detta una parola, la figura erasi allontanata
d'improvviso. Mentre riflettea così passarono due
soldati sul bastione, e parlando fra loro, fecero comprendere
ad Emilia, che un loro compagno era caduto
tramortito. Poco dopo vide avanzarsi tre altri
soldati lentamente, ed una voce fioca; quando furono
sotto la finestra, potè distinguere che chi parlava
era sostenuto da' compagni. Essa li chiamò per
domandar che cosa fosse accaduto; le fu risposto
che il camerata di guardia, Roberto, era caduto in
deliquio, e che il grido da lui fatto svenendo, aveva
dato un falso allarme.
« Va egli soggetto a questi deliqui? » chiese la
giovane.
— Sì, signorina, sì, » replicò Roberto: « ma
quand'anco nol fossi, ciò ch'io vidi avrebbe spaventato
anche il papa.[60]
— E che cosa vedeste?
— Non posso dire nè cosa fosse, nè che cosa
vidi, nè com'è scomparso, » rispose il soldato,
rabbrividendo ancora dallo spavento. « Quando vi
lasciai, signorina, poteste vedermi andar sul terrazzo;
ma non iscorsi nulla fin quando mi trovai
sul bastione orientale. Splendea la luna, e vidi
come un'ombra fuggire poco lungi a me dinanzi;
sostai all'angolo della torre dove avea vista quella
figura: era sparita; guardai sotto l'antico arco:
nulla. D'improvviso udii rumore, ma non era un
gemito, un grido, un accento, qualcosa insomma
che avessi inteso in vita mia. L'udii una sol volta,
ma bastò; non so più che mi avvenne sino all'istante
in cui mi trovai circondato da' compagni.
— Venite, amici, » disse Sebastiano, « torniamo
al nostro posto. Buona notte, signorina.
— Buona notte, » rispose Emilia, chiudendo la
finestra, e ritirandosi per riflettere su quella strana
circostanza che coincideva coi fatti delle altre notti;
essa cercò trarne qualche risultato più certo d'una
congettura; ma la sua immaginazione era tuttavia
troppo riscaldata, il criterio troppo offuscato, ed i
terrori della superstizione signoreggiavano ancora
le sue idee.
CAPITOLO XXIX
Emilia recossi di buonissima ora dalla zia, e la
trovò quasi nel medesimo stato: aveva dormito
pochissimo, e la febbre non era cessata. Sorrise alla
nipote, e parve rianimarsi alla di lei vista: parlò
poco, e non nominò mai Montoni. Poco dopo entrò
egli stesso; sua moglie ne fu molto agitata e
non disse verbo; ma allorchè Emilia si alzò dalla
sedia accanto al suo letto, la pregò con voce fioca
di non abbandonarla.
Montoni non veniva per consolar la moglie, cui[61]
sapeva esser moribonda, o per ottenerne il perdono;
veniva unicamente per tentare l'ultimo sforzo ad
estorcere la sua firma, affinchè dopo la di lei morte
potesse restar padrone di tutti i suoi beni, che toccavano
ad Emilia. Fu una scena atroce, nella quale
l'uno dimostrò un'impudente barbarie, l'altra una
pertinacia che sopravviveva per fino alle forze fisiche.
Emilia dichiarò mille volte che preferiva rinunziare
a tutti i suoi diritti, anzichè vedere gli
ultimi momenti della infelice zia amareggiati da
quel crudele diverbio. Montoni nondimeno non uscì
fin quando sua moglie, spossata dall'affannosa contesa,
perdè alfine l'uso dei sensi, Emilia credette
di vedersela spirar in braccio; pure ricuperò la
favella, e dopo aver preso un cordiale, intertenne
a lungo la nipote con precisione e chiarezza a proposito
dei suoi beni di Francia. Insegnolle dove
fossero alcune carte importanti sottratte alle ricerche
del marito, e le ordinò espressamente di non
privarsene mai.
Dopo questo colloquio, la Montoni si assopì, e
sonnecchiò fino a sera: destatasi, le parve di star
meglio, ma Emilia non la lasciò se non molto
tempo dopo mezzanotte, e quando le fu ordinato
assolutamente; essa obbedì volontieri, chè la malata
appariva alquanto sollevata. Era allora la seconda
guardia e l'ora in cui la figura era già comparsa.
La fanciulla udì cambiar le sentinelle, e quando
tutto tornò quieto, affacciossi alla finestra, e celò
la lampada per non essere scorta. La luna proiettava
una luce fioca ed incerta; folti vapori l'oscuravano,
immergendola talvolta nelle tenebre. In un
di questi intervalli, notò una fiammella aleggiar
sul terrazzo; mentre la fissava, essa svanì. Un bagliore
le fece alzare il capo; i lampi guizzavano
tra una negra nube, diffondendo una luce funesta
e fugace sui boschi della valle e sugli edifizi circostanti.[62]
Tornando a chinar gli occhi, rivide la fiammella:
essa parea in movimento. Poco stante udì rumor
di passi: la vampa mostravasi e spariva volt'a
volta. D'improvviso, al baglior d'un lampo, scorse
qualcuno sul terrazzo. Tutte le ansietà di prima
rinnovaronsi; la persona inoltrò, e la fiammella,
che parea scherzare, appariva e svaniva ad intervalli.
Emilia, desiderando finirla co' suoi dubbi, allorchè
vide la luce proprio sotto la finestra, chiese
con voce languente chi fosse.
« Amici: sono Antonio, il soldato di guardia, »
fu risposto.
— Che cos'è quella fiammella? vedete come splende
e poi scompare!
— Stanotte essa è comparsa sulla punta della
mia lancia, mentr'era in pattuglia; ma non so cosa
significhi.
— È strano, » disse Emilia.
— Il mio camerata, » proseguì il soldato, « anch'egli
ha una consimile fiammella sulla punta
della picca, e dice aver già osservato il medesimo
prodigio.
— E come lo spiega egli?
— Accerta essere un segno di cattivo augurio, e
null'altro. Ah! ma debbo recarmi al mio posto.
Buona notte, signorina. » E s'allontanò.
Ella rinchiuse la finestra, e buttossi sul letto.
La tempesta intanto, che minacciava all'orizzonte,
era scoppiata con indicibile violenza; il rimbombo
orrendo del tuono le impediva il sonno. Scorso
qualche tempo, le parve udire una voce in mezzo
al fracasso spaventoso degli elementi scatenati;
alzossi per accertarsene, ed accostatasi all'uscio,
riconobbe Annetta, la quale, quando le fu aperto,
gridò:
« Essa muore, signorina, la mia padrona muore. »
La fanciulla sussultò e corse dalla zia; quando
entrò, la signora Montoni pareva svenuta: era quieta[63]
e insensibile. Emilia, con un coraggio che non cedeva
al dolore allorchè il dovere richiedeva la sua
attività, non risparmiò alcun mezzo per richiamarla
alla vita, ma l'ultimo sforzo era già fatto, la misera
avea finito di patire.
Quando Emilia conobbe l'inutilità delle sue premure,
interrogò la tremante Annetta, e seppe che
la zia, caduta in una specie di sopore subito dopo
la partenza di lei, era rimasta in quello stato fino
all'istante dell'agonia. Dopo una breve riflessione
decise di non informar Montoni dell'infausto caso
se non alla mattina, pensando che colui sarebbe
prorotto in qualche disumana espressione, ch'ella
non avrebbe potuto soffrire. In compagnia della
sola Annetta, incoraggita dal suo esempio, vegliò
tutta notte presso alla defunta, recitando l'uffizio
dei morti.
CAPITOLO XXX
Allorchè Montoni fu informato della morte di
sua moglie, considerando ch'era spirata senza fargli
la cessione tanto necessaria al compimento dei
suoi desiderii, nulla valse ad arrestare l'espressione
del suo risentimento. Emilia evitò con cura la di
lui presenza, e pel corso di trentasei ore non abbandonò
mai il cadavere della zia. Profondamente
angosciata dal triste di lei destino, ne obliava tutti
i difetti, le ingiustizie e la durezza, sol rammentandosene
i patimenti.
Montoni non disturbò le di lei preghiere: egli
scansava la camera dov'era il cadavere della moglie,
e perfino quella parte del castello, come se avesse
temuto il contagio della morte. Pareva non avesse
dato alcun ordine relativo ai funerali; cosicchè
Emilia temette che fosse un insulto alla memoria
di sua zia; ma uscì dall'incertezza, quando, la sera
del secondo giorno, Annetta venne ad informarla[64]
che la defunta verrebbe sepolta la notte stessa. Figurandosi
che Montoni non vi avrebbe assistito,
era lacerata dall'idea che il cadavere della povera
zia andrebbe alla sepoltura senza che un parente
od un amico le rendesse gli ultimi doveri: decise
perciò di andarvi in persona; senza questo motivo,
avrebbe tremato di accompagnare il corteo, composto
di gente che avevano tutto il contegno e la
figura di assassini, sotto l'orrida vôlta della cappella,
ed a mezzanotte, all'ora cioè del silenzio e del
mistero, scelta da Montoni per abbandonare all'oblìo
le ceneri di una sposa, della quale la sua barbara
condotta aveva per lo meno accelerato la fine.
Secondata da Annetta, ella dispose la salma per
la sepoltura. A mezzanotte, comparvero gli uomini
che dovevano trasportarla alla tomba. Emilia potè
contenere a stento l'agitazione vedendo quelle orride
figure: due di essi, senza proferir parola, presero
il cadavere sulle spalle, ed il terzo precedendoli
con una fiaccola, discesero tutti uniti nel sotterraneo
della cappella. Dovevano traversare i due
cortili della parte orientale del castello, ch'era quasi
tutta rovinata. Il silenzio e l'oscurità de' luoghi
poco poterono sullo spirito di Emilia, occupata
d'idee assai più lugubri. Giunti al limitare del
sotterraneo, essa sostò, sovrappresa da una commozione
inesprimibile di dolore e di spavento, e si
volse per appoggiarsi ad Annetta, muta e tremante
al par di lei. Dopo qualche pausa, inoltrò, e scorse,
fra le arcate, gli uomini che deponevano la bara
sull'orlo d'una fossa. Ivi trovavansi un altro servo
di Montoni ed un sacerdote di cui non s'avvide se
non quando cominciò le preci. Allora alzò gli occhi,
e scorse la faccia venerabile d'un religioso, che con
voce bassa e solenne recitò l'uffizio dei morti. Nell'istante
in cui il cadavere venne calato nel sepolcro,
il quadro era tale, che il più abile pennello non
avrebbe sdegnato dipingere. I lineamenti feroci, le[65]
fogge bizzarre di quegli scherani, inclinati colle
faci sulla fossa, l'aspetto venerabile del frate, avvolto
in lunghe vesti di lana bianca, il cui cappuccio,
calato indietro, faceva risaltare un viso pallido,
adombrato di pochi capelli bianchi, onde la luce
delle torce lasciava vedere l'afflizione addolcita dalla
pietà; l'attitudine interessante di Emilia appoggiata
ad Annetta colla faccia semicoperta d'un velo nero,
la dolcezza e beltà della fisonomia, e il suo intenso
dolore, che non le permetteva di piangere, mentre
affidava alla terra l'ultima parente che avesse; i
riflessi tremolanti di luce sotto le vôlte, l'ineguaglianza
del terreno, ov'erano stati recentemente sepolti
altri corpi, la lugubre oscurità del luogo, tante
circostanze riunite, avrebbero trascinato l'immaginazione
dello spettatore a qualche caso forse più
orribile del funerale dell'insensata ed infelice signora
Montoni.
Terminata la funzione, il frate guardò Emilia con
attenzione e sorpresa; pareva volesse parlarle, ma
la presenza dei masnadieri lo trattenne. Nell'uscire
dalla cappella si permisero indegni motteggi sulla
cerimonia e sullo stato di lui con grand'orrore
d'Emilia. Li sofferse in silenzio, limitandosi a chiedere
di essere ricondotto sano e salvo al suo convento,
dal quale era venuto dietro richiesta espressa
del castellano, a ciò indotto dalle istanze della nipote.
Giunti nel secondo cortile, il frate impartì
alla fanciulla la sua benedizione, fissandola con occhio
pietoso, poi s'incamminò verso il portone. Le
due donne ritiraronsi alle proprie stanze.
Emilia passò parecchi giorni in assoluta solitudine,
nel terrore per sè e nel rammarico della perdita
di sua zia. Si determinò infine a tentare un
nuovo sforzo per ottener da Montoni che la lasciasse
andare in Francia. Non sapeva formare veruna
congettura sui motivi che potea avere d'impedirglielo;
era troppo persuasa ch'ei volea tenerla[66]
seco, ed il suo primo rifiuto le lasciava poca speranza.
L'orrore inspiratole dalla di lui presenza, le
faceva differire di giorno in giorno il colloquio.
Un messaggio però dello stesso Montoni la tolse
da tale incertezza; egli desiderava vederla all'ora
che indicava. Fu quasi per lusingarsi, che, essendo
morta la zia, egli acconsentirebbe a rinunziar alla
sua usurpata autorità; ma rammentandosi poi che
i beni tanto contrastati erano divenuti attualmente
suoi, temè che Montoni volesse usare qualche stratagemma
per farseli cedere, e non la tenesse fin
allora prigioniera. Quest'idea, invece di abbatterla,
rianimò tutte le potenze dell'anima sua, e le infuse
nuovo coraggio. Avrebbe rinunziato a tutto per assicurare
il riposo della zia, ma risolse che veruna
persecuzione personale avrebbe il potere di farla
recedere da' suoi diritti. Era interessatissima a
conservare l'eredità a riguardo specialmente di Valancourt,
col quale lusingavasi così di passare una
vita felice. A questa idea sentì quant'ei le fosse
caro, e si figurava anticipatamente il momento in
cui la di lei generosa amicizia avrebbe potuto dirgli
che gli recava in dote tutti quei beni; si figurava
vedere il sorriso che animerebbe i suoi lineamenti,
e gli sguardi affettuosi che esprimerebbero tutta la
sua gioia e riconoscenza. Credette in quel momento
di poter affrontare tutti i mali che l'infernale malizia
di Montoni le avrebbe preparato. Si ricordò
allora, per la prima volta dopo la morte della zia,
ch'essa aveva carte relative a questi beni, e risolse
di farne ricerca appena avesse parlato con Montoni.
Con questa idea andò a trovarlo all'ora prescritta:
era in compagnia di Orsino e d'un altro uffiziale,
e pareva esaminare con diligenza molte carte deposte
sur un tavolino.
« Vi ho fatta chiamare, » diss'egli alzando la
testa, « perchè desidero siate testimone di un affare
che debbo ultimare col mio amico Orsino. Tutto[67]
ciò che si vuol da voi, è che firmiate questa, carta. »
La prese, ne lesse borbottando alcune righe, la depose
sul tavolo, e le diede una penna. Stava per
firmare, quando le venne d'improvviso in mente il
disegno di lui; le cadde la penna di mano, e negò
di firmare senza leggere il contenuto: Montoni affettò
sorridere, e ripresa la carta, finse rileggere
un'altra volta come aveva già fatto. Emilia, fremendo
del pericolo e dell'eccesso di credulità che l'avea
quasi tradita, ricusò positivamente di firmare. Montoni
continuò alcun poco i motteggi; ma quando,
dalla perseveranza di lei, comprese che aveva indovinato
il suo progetto, cambiò linguaggio e le
ordinò di seguirlo. Appena furono soli, le disse che
aveva voluto, per lei e per sè medesimo, prevenire
un diverbio inutile in un affare, in cui la sua volontà
formava la giustizia, e sarebbe diventata una
legge; che preferiva persuaderla anzichè costringerla,
e che in conseguenza adempisse al suo dovere.
« Io, come marito della defunta signora Cheron, »
soggiunse egli, « divento l'erede di tutto ciò che
ella possedeva; i beni, che non ha voluto donarmi
mentre viveva, non devono ora passare in altre
mani. Vorrei, pel vostro interesse, disingannarvi
dell'idea ridicola ch'essa vi diede alla mia presenza,
che i suoi beni cioè sarebbero vostri, se moriva
senza cedermeli. Penso che voi siate troppo ragionevole
per provocare il mio giusto risentimento;
non soglio adulare, e voi potete riguardare i miei
elogi come sinceri. Voi possedete un criterio superiore
al vostro sesso; e non avete veruna di quelle
debolezze che distinguono in generale il carattere
delle donne, l'avarizia cioè e il desiderio di dominare. »
Montoni si fermò; Emilia non rispose.
« Giudicando come faccio, » ripigliò egli, « io
non posso credere vorrete mettere in campo una[68]
contesa inutile. Non credo neppure che pensiate
acquistare o possedere una proprietà, sulla quale
la giustizia non vi accorda nessun diritto. Scegliete
dunque l'alternativa che vi propongo. Se vi formerete
un'esatta opinione del soggetto che trattiamo,
sarete in breve ricondotta in Francia. Se poi foste
tanto sciagurata da persistere nell'errore, in cui
v'indusse vostra zia, resterete mia prigioniera, finchè
apriate gli occhi. »
Emilia rispose con calma: « Io non sono così
poco istruita delle leggi relative a tale soggetto,
per lasciarmi ingannare da un'asserzione qualunque;
la legge mi accorda il possesso dei beni in questione,
e la mia mano non tradirà i miei diritti.
— Mi sono ingannato, a quanto pare, nell'opinione
che m'era concepita di voi, » disse Montoni
severamente; « voi parlate con arditezza e presunzione
su d'un argomento che non intendete. Voglio
bene, per una volta, perdonare l'ostinazione dell'ignoranza;
la debolezza del vostro sesso, dalla
quale non sembrate esente, esige anche questa indulgenza.
Ma se persistete, avrete a temer tutto
dalla mia giustizia.
— Dalla vostra giustizia, signore, » rispose Emilia,
« non ho nulla da temere, bensì tutto da sperare. »
Montoni guardolla con impazienza, e parve meditare
su ciò che doveva dirle.
« Vedo che siete debole tanto da credere ad una
ridicola asserzione. Me ne spiace per voi; quanto
a me, poco me n'importa; la vostra credulità troverà
il suo castigo nelle conseguenze, ed io compiango
la debolezza di spirito che vi espone alle
pene che mi costringete di prepararvi.
— Voi troverete, signore, » rispose Emilia con
dolcezza e dignità, « la forza del mio spirito eguale
alla giustizia della mia causa; e posso soffrire con
coraggio quando resisto alla tirannia.[69]
— Parlate come una eroina, » disse Montoni
con disprezzo; « vedremo se saprete soffrire egualmente. »
Emilia non rispose, e partì. Rammentandosi che
resisteva così per l'interesse di Valancourt, sorrise
compiacendosi di pensare ai minacciati maltrattamenti.
Andò a cercare il posto indicatole dalla zia,
come deposito delle carte relative ai suoi beni, e
ve le trovò; ma non conoscendo un luogo più sicuro
per conservarle, ve le ripose senza esame, temendo
di essere sorpresa.
Mentre, ritornata nella solitudine, rifletteva alle
parole di Montoni e ai pericoli nei quali incorreva,
opponendosi alla sua volontà, udì scrosci di risa
sul bastione; andò alla finestra, e vide con sorpresa
tre donne, vestite alla Veneziana, che passeggiavano
con alcuni signori. Allorchè passarono sotto la finestra,
una delle forestiere alzò la testa. Emilia riconobbe
in lei quella signora Livona, le cui affabili
maniere l'avevano tanto sedotta il giorno dopo il
suo arrivo a Venezia, e che in quel giorno istesso
era stata ammessa alla tavola di Montoni: tale scoperta
le cagionò una gioia mista a qualche incertezza;
era per lei un soggetto di soddisfazione il
vedere una persona tanto amabile quanto sembrava
la signora Livona, nel luogo istesso da essa abitato.
Nondimeno, il di lei arrivo al castello in simile
circostanza, il suo abbigliamento, che indicava non
esservi stata costretta, glie ne fece sospettare i
principii ed il carattere; ma l'idea spiaceva tanto
ad Emilia, già vinta dalle maniere seducenti della
bella Veneziana, che preferì non pensare che alle
sue grazie, e bandì quasi intieramente qualunque
altra riflessione.
Quando Annetta entrò, le fece diverse interrogazioni
sull'arrivo delle forastiere, e trovò avere
colei più premura di rispondere, ch'essa d'interrogare.[70]
« Son venute da Venezia, » disse la cameriera,
« con due signori, ed io fui contentissima di vedere
qualche altra faccia cristiana in quest'orrido
soggiorno. Ma che pretendono esse venendo qui? Bisogna
esser pazzi davvero per venire in questo
luogo, oppure ci sono venute liberamente, giacchè
sono allegre.
— Saranno forse state fatte prigioniere, » soggiunse
Emilia.
— Prigioniere! oh! no, signorina: no, nol sono.
Mi ricordo bene di averne veduta una a Venezia;
è venuta due o tre volte in casa nostra. Si diceva
perfino, sebbene io non l'abbia mai creduto, che il
padrone l'amasse perdutamente. »
Emilia pregò Annetta d'informarsi dettagliatamente
di tutto ciò che concerneva quelle signore,
e, cambiando quindi discorso, parlò della Francia,
facendole travedere la speranza di tornarvi in breve.
La ragazza uscì per raccogliere informazioni, ed
Emilia cercò obliare le sue inquietudini, pascendosi
delle fantastiche immaginazioni create da' poeti.
Verso sera, non volendo esporsi, sulle mura, agli
avidi sguardi dei soci di Montoni, andò a passeggiare
nella galleria contigua alla sua camera. Giugnendo
in fondo ad essa udì ripetuti scrosci di risa. Erano
i trasporti dello stravizio, e non gli slanci moderati
d'una dolce ed onesta letizia. Parevan venire
dalla porta del quartiere di Montoni. Un tal baccano
in quel momento in cui l'infelice zia era appena
spirata, l'indispettì al sommo, e vi riconobbe
la conseguenza della mala condotta di Montoni.
Ascoltando, credette riconoscere alcune voci donnesche;
tale scoperta la confermò nei sospetti concepiti
sulla signora Livona e le sue compagne: era
evidente ch'elleno non trovavansi per forza nel castello.
Emilia si vedeva così negli alpestri recessi
degli Appennini, circondata da uomini che riguardava
come briganti, ed in mezzo ad un teatro di[71]
vizi, che la faceva inorridire. L'immagine di Valancourt
perdè ogni influenza, ed il timore le fece
cambiare i suoi progetti, riflettendo a tutti gli orrori
che Montoni preparava contro di lei; tremando
della vendetta, alla quale esso avrebbe potuto abbandonarsi
senza rimorsi, si decise quasi a cedergli
i beni contrastati, se vi persisteva ancora, e riscattare
così la sicurezza e la libertà; ma, poco di poi,
la memoria dell'amante tornava a lacerarle l'anima
e ripiombarla nelle angosce del dubbio. Continuò a
passeggiare finchè l'ombre della sera ebbero invase
le arcate. La fanciulla nonpertanto, non volendo
tornar alla sua camera isolata prima del ritorno
d'Annetta, passeggiava tuttora per la galleria. Passando
dinanzi all'appartamento dove avea una volta
osato alzar il velo del quadro, le tornò in mente
quell'orrido spettacolo, e sentendosi raccapricciare,
sollecitossi, di andarsene dalla galleria mentre aveane
ancor la forza. D'improvviso sentì rumor di passi
dietro lei. Poteva essere Annetta, ma, voltando gli
occhi con timore, scorse tra l'oscurità una gran
figura che la seguiva, e poco dopo si trovò stretta
tra le braccia d'una persona ed udì una voce bisbigliare
all'orecchio. Quando si fu alquanto riavuta
dalla sorpresa, domandò chi mai si facesse lecito
di trattenerla così?
« Son io, » rispose la voce; « non temete. »
Emilia osservò la figura che parlava, ma la fioca
luce della finestra gotica non le permise di distinguere
chi fosse.
« Chiunque voi siate, » diss'ella con voce tremula,
« per amor di Dio, lasciatemi.
— Vezzosa Emilia, » soggiunse colui, « perchè
sequestrarvi così in questo luogo tetro, mentre giù
dabbasso regna tanta allegria? Seguitemi nel salotto
di cedro: voi ne formerete il migliore ornamento,
e non vi spiacerà il cambio. »
Emilia sdegnò rispondere, ma procurò di sciogliersi.[72]
« Promettetemi che verrete, ed io vi lascerò subito;
ma accordatemene prima la ricompensa.
— Chi siete voi? » domandò Emilia con isdegno
e spavento, e cercando fuggire; « chi siete voi che
avete la crudeltà d'insultarmi così?
— Perchè chiamarmi crudele? » rispose colui.
« Vorrei togliervi da questa orribile solitudine, e
condurvi in una brillante società. Non mi conoscete? »
Emilia si ricordò allora confusamente ch'era uno
dei forestieri che circondavano Montoni la mattina
in cui andò a trovarlo. « Vi ringrazio della buona
intenzione, » replicò essa senza mostrar d'intenderlo,
« ma tutto ciò che desidero per ora è che
mi lasciate andare.
— Vezzosa Emilia, » soggiunse egli, « abbandonate
questo gusto per la solitudine. Seguitemi alla
conversazione, e venite ad eclissare tutte le bellezze
che la compongono; voi sola meritate l'amor mio. »
E volle baciarle la mano; ma la forza dello sdegno
le somministrò quella di sciogliersi, e fuggendo
nella sua camera, ne chiuse l'uscio prima che vi
giungesse colui, e si abbandonò spossata sur una
sedia. Sentiva la di lui voce e i tentativi che faceva
per aprire, senza aver la forza di chieder soccorso.
Alfine si avvide che erasi allontanato, ma pensò
alla porta della scala segreta, d'onde avrebbe potuto
facilmente penetrare, e si occupò subito ad assicurarla
alla meglio. Le pareva che Montoni eseguisse
già i suoi progetti di vendetta, privandola della sua
protezione, e si pentiva quasi di averlo temerariamente
provocato. Credeva oramai impossibile di ritenere
i suoi beni. Per conservare la vita e forse
l'onore, fece il proponimento che, se fosse sfuggita
agli orrori della prossima notte, farebbe la cessione
la mattina seguente, purchè Montoni le permettesse
di partire da Udolfo.
Preso questo partito, si tranquillò: rimase così[73]
per qualche ora in assoluta oscurità; Annetta non
giungeva, ed essa principiò a temere per lei; ma
non osando arrischiarsi ad uscire, dovè restare nell'incertezza
sul motivo di questa assenza. Si avvicinava
spesso alla scala per ascoltare se saliva qualcuno,
e non sentendo verun rumore, determinata
però a vegliare tutta la notte, si gettò vestita sul
tristo giaciglio e lo bagnò delle sue innocenti lacrime.
Pensava alla perdita de' parenti, pensava a
Valancourt lontano da lei. Li chiamava per nome, e
la calma profonda, interrotta soltanto dai suoi lamenti,
ne aumentava le tetre meditazioni.
In tale stato, udì d'improvviso gli accordi di una
musica lontana; ascoltò, e riconoscendo tosto l'istrumento
già inteso a mezzanotte, andò ad aprire
pian piano la finestra. Il suono pareva venir dalle
stanze sottoposte. Poco dopo l'interessante melodia
fu accompagnata da una voce, ma così espressiva,
da non poter supporre che cantasse mali immaginari.
Credette conoscere già quegli accenti si teneri
e straordinari; ma rammentavasene appena come di
cosa molto lontana. Quella musica le penetrò il cuore,
nella sua angoscia attuale, come armonia celeste che
consola e incoraggisce. Ma chi potrebbe descrivere
la sua commozione allorchè udì cantare, col gusto
e la semplicità del vero sentimento, un'arietta popolare
del paese natio; una di quelle ariette imparate
nell'infanzia, e tanto spesso fattele ripetere dal
padre? A quel canto ben noto, fin allora non mai
inteso fuori della sua cara patria, il cuore le si dilatò
alla rimembranza del passato. Le vaghe e placide
solitudini della Guascogna, la tenerezza e la
bontà de' genitori, la semplicità e felicità de' primi
anni, tutto affacciossele all'imaginazione, formando
un quadro così grazioso, brillante e fortemente opposto
alle scene, ai caratteri ed ai pericoli ond'era
circondata attualmente, che il suo spirito non ebbe
più forza di riandare il passato e non sentì più che
il peso degli affanni.[74]
D'improvviso, la musica cambiò, e la fanciulla,
attonita, riconobbe l'istessa aria già intesa alla sua
peschiera. Allora le si presentò un'idea colla rapidità
del lampo, e secolei una catena di speranze la
elettrizzò; poteva appena respirare, e vacillava tra
la speranza e il timore: pronunziò dolcemente il
nome di Valancourt. Era possibile che il giovane
fosse vicino a lei, e ricordandosi d'avergli udito
dire più volte che la peschiera, ove aveva sentito
quella canzone, e trovato i versi scritti per lei, era
la sua passeggiata favorita anche prima che si conoscessero,
fu persuasa che fosse la di lui voce.
A misura che le sue riflessioni si consolidavano,
la gioia, il timore e la tenerezza lottavano in lei:
affacciossi alla finestra per ascoltar meglio quegli
accenti, che valessero a confermare o distruggere la
sua speranza, non avendo Valancourt mai cantato
alla di lei presenza; la voce e l'istrumento tacquero
di li a poco, ed essa ponderò un momento se doveva
arrischiarsi a parlare. Non volendo, se era Valancourt,
commettere l'imprudenza di nominarlo, e
troppo interessata al tempo istesso per trascurar
l'occasione di chiarirsi, gridò dalla finestra: « E' una
canzone di Guascogna? » Inquieta, attenta, aspettò
una risposta, ma indarno. Ripetè la domanda, ma
non udì altro strepito tranne i fischi del vento traverso
i merli delle mura. Cercò consolarsi persuadendosi
che l'incognito si fosse allontanato prima
ch'ella gli parlasse.
Se Valancourt avesse sentita e riconosciuta la sua
voce, avrebbe per certo risposto. Riflettè quindi che
forse la prudenza l'aveva obbligato a tacere. « Se
egli è nel castello, » diceva essa, « dev'esservi come
prigioniero; per cui avrà temuto di rispondermi in
tanta vicinanza delle sentinelle. »
Perplessa, inquieta, rimase alla finestra sino all'alba,
poi se ne tornò a letto, ma non potè chiuder
occhio; la gioia, la, tenerezza, il dubbio, il timore[75]
occuparono tutte le ore del sonno, ore che non le
parvero tanto lunghe come quella volta. Sperava
veder tornare Annetta, e ricever da lei una certezza
qualunque, che ponesse fine ai suoi tormenti attuali.
CAPITOLO XXXI
Annetta venne a trovarla di buon'ora.
« Sono stata molto inquieta non vedendoti tornar
più ieri sera, » le disse Emilia. « Che cosa ti
è mai accaduto?
— Ah! signorina, chi avrebbe mai osato ier sera
traversare i lunghi corridoi della casa in mezzo a
tutta quella gente ubbriaca? Immaginatevi che hanno
gozzovigliato tutta notte insieme alle signore venute
recentemente. Che baccano, Dio Signore!... che
chiasso!... Lodovico, temendo per me, mi ha chiusa
in camera con Caterina.
— Oh che orrore!... » sclamò Emilia; « ma
dimmi: sapresti tu, per caso, se vi sono prigionieri
nel castello, e se son rinchiusi in queste vicinanze?
— Io non era dabbasso, quando tornò la prima
truppa dalla scorreria, e l'ultima non è ancora tornata:
laonde ignoro se vi siano prigionieri; ma l'aspettano
stasera o domani, ed allora saprò qualcosa
di certo. »
Emilia le domandò se i servi avessero parlato di
prigionieri.
« Ah! signorina, » disse Annetta ridendo, « ora
mi accorgo che pensate al signor Valancourt. Voi
lo credete sicuramente venuto colle truppe che si
dicono arrivate di Francia per far la guerra in queste
contrade. Credete che, incontratosi ne' nostri,
sia stato fatto prigioniero. O Signore! come ne sarei
contentissima se ciò fosse.[76]
— Ne saresti contenta? » disse Emilia con accento
di doloroso rimprovero.
— Sì, signorina, e perchè no? Non sareste voi
contenta di rivedere il signor Valancourt? Non conosco
un cavaliere più stimabile; ho proprio per
lui una gran considerazione.
— Ed in prova, » rispose Emilia, « tu desideri
vederlo prigioniero. »
— Non già di vederlo prigioniero, ma sarei lietissima
di rivederlo. Anche l'altra notte me ne sognai...
Ma a proposito, mi scordava di raccontarvi
ciò che mi fu detto relativamente a quelle pretese
dame, arrivate ad Udolfo. Una di esse è la signora
Livona, che il padrone presentò a vostra zia a Venezia:
adesso ella è la sua amante, ed allora, ardisco
dirlo, era press'a poco la medesima cosa. Lodovico
mi disse (ma per carità, signorina, non ne
parlate) che sua eccellenza non l'aveva presentata
se non per salvar le apparenze. Si cominciava già
a mormorarne; ma quando videro che la padrona
la riceveva in casa, tutte quelle dicerie si credettero
calunnie. Le altre due sono le amanti de' signori
Bertolini e Verrezzi. Il signor Montoni le ha
invitate tutte, e ieri ha dato un magnifico pranzo:
vi erano vini d'ogni sorta; le risa, i canti ed i
brindisi echeggiavano. Quando furono briachi, si
sparsero pel castello; fu allora che Lodovico m'impedì
di venir qui. La è stata una vera indecenza!
così poco tempo dopo la morte della povera padrona!
che cosa avrebbe mai ella detto, se avesse
potuto intendere quello schiamazzo? »
Emilia volse la testa per nascondere l'emozione,
e pregò Annetta di fare esatte ricerche a proposito
dei prigionieri che potessero trovarsi nel castello,
scongiurandola di usar prudenza, e non proferir mai
nè il suo nome, nè quello di Valancourt.
« Ora che ci penso, signorina, » disse Annetta,
« credo che prigionieri ve ne siano. Ho sentito ieri[77]
in anticamera un soldato che parlava di riscatto:
diceva che sua eccellenza facea benissimo a prender
la gente, e ch'era quello il miglior bottino a
motivo dei riscatti. Il suo camerata mormorava,
dicendo ciò essere vantaggioso pel capitano, ma
non pei soldati. — Noi altri, diceva quel brutto
ceffo, non guadagniamo nulla nei riscatti. »
Questa notizia accrebbe l'impazienza di Emilia,
la quale mandò Annetta alla scoperta.
La risoluzione presa dalla fanciulla di cedere ogni
cosa a Montoni, soggiacque in quel momento a
nuove riflessioni. La possibilità che Valancourt fosse
vicino a lei, rianimò il suo coraggio, e risolse d'affrontare
oltraggi e minacce, almeno fin quando potesse
assicurarsi se il giovane fosse realmente nel
castello. Stava appunto pensandovi, allorchè Montoni
mandò a cercarla.
Egli era solo. « Vi ho fatta chiamare, » le disse,
« per sentire se vi decideste infine a smettere le
vostre ridicole pretese sui beni di Linguadoca. Mi
limiterò per ora a darvi un consiglio, benchè potessi
imporre ordini. Se realmente siete stata in
errore, se realmente avete creduto che quei beni
vi appartenessero, non persistete almeno in questo
errore che potrebbe diventarvi fatale. Non provocate
la mia collera, e firmate questa carta.
— Se non ho nessun diritto, signore, » rispose
Emilia, « qual bisogno avete voi della mia rinuncia?
Se i beni son vostri, potete possederli in tutta sicurezza
senza mia intervenzione e senza il mio consenso.
— Non argomenterò più, » disse Montoni vibrandole
un'occhiata, che la fece tremare. « Avrei
dovuto vedere che è inutile ragionare coi ragazzi.
La memoria di quanto sofferse vostra zia in conseguenza
della sua folle ostinazione, vi serva ormai
di lezione... Firmate questa carta. »
Emilia restò alquanto indecisa; fremette alla rimembranza[78]
e alle minacce che le si ponevano sott'occhio;
ma l'immagine di Valancourt, che l'aveva
animata per tanto tempo, ch'era forse vicino a lei,
unita alla forte indignazione fino da' primi anni concepita
per l'ingiustizia, le somministrò in quel momento
un imprudente, ma nobile coraggio.
« Firmate questa carta, » ripetè Montoni con
maggiore impazienza.
— No, mai, » rispose Emilia; « il vostro procedere
mi proverebbe l'ingiustizia delle vostre pretese,
s'io avessi ignorati i miei diritti. »
Montoni impallidì dal furore; gli tremavano le
labbra, ed i suoi occhi fiammeggianti fecero quasi
pentire Emilia dell'ardita sua risposta.
« Tremate della mia prossima vendetta, » sclamò
egli, con un'orrenda bestemmia; « voi non avrete
nè i beni di Linguadoca, nè quelli di Guascogna.
Osaste mettere in dubbio i miei diritti; ora osate
dubitare del mio potere. Ho pronto un gastigo cui
non vi aspettate; esso è terribile. Stanotte, sì, stanotte
istessa...
— Stanotte! » ripetè una voce.
Montoni restò interdetto e si volse, poi, sembrando
raccogliersi, disse piano: « Avete veduto
ultimamente un esempio terribile d'ostinazione e di
follìa; ma parmi non sia bastato a spaventarvi. Potrei
citarvene altri, e farvi tremare solo nel raccontarveli. »
Fu interrotto da un gemito che pareva venire di
sotto la stanza. Guardossi intorno: i di lui sguardi
sfavillavano di rabbia e d'impazienza; un'ombra di
timore parve nulladimeno alterarne la fisonomia.
Emilia sedette vicino alla porta, perchè i diversi
movimenti provati avevano, per così dire, annichilate
le sue forze; Montoni fece una breve pausa,
poi ripigliò con voce più bassa, ma più severa:
« Vi ho detto che potrei citarvi altri esempi del
mio potere e del mio carattere. Se voi lo concepiste,[79]
non ardireste sfidarlo. Potrei provarvi che
allorquando ho preso una risoluzione... Ma parlo ad
una bambina; ve lo ripeto, gli esempi terribili che
potrei citarvi non vi servirebbero a nulla; e quand'anco
il pentimento finisse la vostra opposizione, non
mi placherebbe. Sarò vendicato; mi farò giustizia. »
Un altro gemito succedè al discorso di Montoni.
« Uscite, » diss'egli, senza parer di badare allo
strano incidente.
Fuori di stato d'implorar la sua pietà, Emilia
alzossi per uscire, ma non potendo reggersi in piedi,
e soccombendo al terrore, ricadde sulla sedia.
« Toglietevi dalla mia presenza, » continuò Montoni;
« questa finzione di timore convien male ad
un'eroina che osò affrontare tutto il mio sdegno.
— Non avete udito nulla, signore? » disse Emilia
tremando.
— Odo la mia voce soltanto, » rispose Montoni
severamente.
— Null'altro? » soggiunse la fanciulla, esprimendosi
con difficoltà. « Ancora... non sentite nulla
adesso?
— Obbedite, » ripetè Montoni. « Io poi saprò
scoprire l'autore di questi scherzi indecenti. »
Emilia si alzò a stento, ed uscì. Montoni la seguì,
ma invece di chiamare, come l'altra volta, i
servi per far ricerche nel salotto, andò sulle mura.
La fanciulla da una finestra del corridoio vide
scendere dai monti un distaccamento delle truppe
di Montoni. Non vi badò se non per riflettere agli
infelici prigionieri che conducevano forse al castello.
Giunta alfine in camera, si abbandonò sopra una
sedia, oppressa da' nuovi affanni che peggioravano
la di lei situazione. Non potea nè pentirsi, nè lodarsi
della sua condotta: sol ricordavasi d'essere
in potere d'un uomo il quale non conosceva altra
regola se non la propria volontà. Fu scossa da tristi
pensieri udendo un misto di voci e di nitriti[80]
nei cortili. Le si offerse un'improvvisa speranza
di qualche fortunato cambiamento; ma, pensando
alle truppe vedute dalla finestra, credè fossero le
stesse, di cui Annetta le aveva detto che si aspettava
il ritorno.
Poco dopo udì molte voci nelle sale. Il rumore
dei cavalli cessò, e fu seguito da perfetto silenzio.
Emilia ascoltò attenta, cercando di conoscere i passi
d'Annetta nel corridoio; tutto era quiete. D'improvviso,
il castello parve immerso nella massima
confusione. Era un camminare a precipizio, un andare
e venire nelle sale, nelle gallerie e nei cortili,
e discorsi veementi sul bastione. Corsa alla finestra,
vide Montoni e gli altri officiali appoggiati al
parapetto, od occupati ne' trinceramenti, mentre i
soldati disponevano i cannoni. Il nuovo spettacolo
la sbalordì.
Finalmente giunse Annetta, ma non sapea nulla
di Valancourt. « Mi danno ad intendere tutti, »
diss'ella, « di non saper nulla dei prigionieri; ma
qui ci sono di belle novità! La truppa è tornata
ai galoppo, ed a rischio di restare schiacciati, e' facevano
a gara per entrare sotto la vôlta. Hanno
portato la notizia che un partito di nemici, com'ei
dicono, tengon loro dietro per attaccare il castello.
Cielo! che spavento!
— Dio buono, vi ringrazio, » disse Emilia con
fervore. « Ora mi resta qualche speranza.
— Che dite mai, signorina? vorreste voi cadere
nelle mani dei nemici?
— Non possiamo star peggio di qui, » rispose
Emilia.
— Ascoltate, ascoltate, tutto il castello è sossopra.
Si caricano i cannoni, si esaminano le porte
e le mura, battono, picchiano, turano, vanno e vengono
come se il nemico fosse sul punto di dare
la scalata. Ma che cosa sarà di me, di voi, di Lodovico?
Oh! se io sento sparare il cannone, morrò[81]
di paura. Se potessi trovare aperto il portone per
mezzo minuto, farei presto a fuggirmene via di
qua, nè mi rivedrebbero più.
— Se lo potessi trovare aperto anch'io un solo
istante, sarei salva. » E in brevi parole narrò alla
cameriera la sostanza del suo colloquio con Montoni,
quindi soggiunse: « Corri subito da Lodovico;
digli ciò che ho da temere, e ciò che ho sofferto:
pregalo di trovare un mezzo di fuggire senza dilazione,
e di ciò mi fido intieramente nella sua prudenza.
Se vuole incaricarsi della nostra liberazione,
sarà ben ricompensato. Non posso parlargli io stessa:
saremmo osservati e s'impedirebbe la nostra fuga.
Ma fa presto, Annetta, e procura di agire con circospezione.
Ti aspetterò qui. »
La buona ragazza, la cui anima sensibile era stata
penetrata da quel racconto, era allora tanto premurosa
di obbedire, quanto la padroncina di adoprarla,
ed uscì immediatamente.
Riflettendo Emilia ai motivi dell'assalto inaspettato,
ne concluse che Montoni avesse devastato il
paese, e che gli abitanti venissero ad attaccarlo per
vendicarsi.
Montoni, senza essere precisamente, come Emilia
lo supponeva, un capo di ladri, aveva impiegato le
sue truppe a spedizioni audaci e atroci a un tempo.
Non solo avevano esse spogliato all'occorrenza tutti
i viaggiatori inermi, ma saccheggiate ben anco tutte
le abitazioni situate in mezzo ai monti. In queste
spedizioni, i capi non si facevano mai vedere: i
soldati, in parte travestiti, erano presi talvolta per
malandrini ordinari, altre volte per bande forastiere,
che a quell'epoca innondavano l'Italia. Avevano
dunque saccheggiate case, e portati via tesori immensi;
ma avendo assalito un castello con ausiliari
della loro specie, n'erano stati respinti, inseguiti
dagli alleati degli avversari. Le truppe di Montoni
si ritirarono precipitosamente verso Udolfo, ma furono[82]
incalzate così da vicino nelle gole, che giunte
appena sulle alture circostanti al forte, videro il
nemico nella valle, distante poco più d'una lega.
Allora affrettarono il passo per avvertir Montoni di
prepararsi alla difesa; ed era il loro repentino arrivo
che aveva piombato il castello in tanta confusione.
Mentre Emilia aspettava ansiosa il ritorno della
fida ancella, vide dalla finestra un corpo di milizie
scendere dalle alture. Annetta era uscita da poco;
doveva eseguire una missione delicata e pericolosa,
eppure era già tormentata dall'impazienza. Stava in
orecchio, apriva la porta, e le movea incontro sino
in fondo al corridoio. Finalmente udì camminare,
e vide, non Annetta, ma il vecchio Carlo. Fu assalita
da nuovi timori. Egli le disse che il padrone
lo mandava per avvertirla di prepararsi a partire
immediatamente, chè il castello stava per essere
assediato, aggiungendo che si preparavano le mule,
per condurla, sotto buona scorta, in luogo di sicurezza.
« Di sicurezza! » sclamò Emilia senza riflettere.
« Il signor Montoni ha dunque tanta considerazione
per me? » Carlo non rispose. La fanciulla fu alternativamente
combattuta da mille contrari affetti:
sembravale impossibile che Montoni prendesse misure
per la di lei sicurezza. Era tanto strano il
farla uscire dal castello, ch'essa non attribuiva questa
condotta se non al disegno di eseguir qualche
nuovo progetto di vendetta, come ne l'avea minacciata;
poco dopo rallegravasi all'idea di partire da
que' tristi luoghi; ma poscia, pensando alla probabilità
che Valancourt fosse ivi prigioniero, se ne
accorava vivamente.
Carlo le rammentò che non c'era tempo da perdere,
il nemico essendo in vista. Emilia lo pregò
di dirle in qual luogo dovessero condurla. Egli
esitò, ma essa ripetè la domanda, ed allora rispose:
« Credo che dobbiate andare in Toscana. »[83]
— In Toscana! » sclamò la fanciulla; « e perchè
in quel paese? »
Carlo disse di non saper altro, se non che sarebbe
stata condotta sui confini toscani, in una casuccia
alle falde degli Appennini, distante qualche
giornata di cammino.
Emilia lo congedò. Preparava tremante una piccola
valigia, quando comparve Annetta.
« Oh! signorina, non c'è più scampo; Lodovico
assicura che il nuovo portinaio è ancor più vigilante
di Bernardino. Il povero giovane è disperato
per me, e dice che morirò di spavento alla prima
cannonata. »
Si mise a piangere, e sentendo che Emilia partiva,
la pregò di condurla seco.
« Ben volentieri, » rispose questa, « se il signor
Montoni vi acconsente. »
Annetta non le rispose, e corse a cercar il castellano,
ch'era sulle mura circondato dagli uffiziali.
Pregò, pianse e si strappò i capegli, ma tutto fu
inutile, e Montoni la scacciò duramente con una
ripulsa.
Nella sua disperazione, tornò presso Emilia, la
quale augurò male da quel rifiuto. Vennero tosto
ad avvertirla di scendere nel gran cortile, ove le
guide e le mule l'attendevano. Essa tentò indarno
di consolare Annetta, che, struggendosi in pianto,
ripeteva ognora, che non avrebbe più riveduta la
sua cara padroncina. Questa pensava fra sè, che i
suoi timori potevano esser pur troppo fondati, pure
cercò di calmarla, e le disse addio con apparente
tranquillità. Annetta l'accompagnò nel cortile, la
vide montare su d'una mula, e partire colle guide,
poi rientrò nella sua stanza per piangere liberamente.
Emilia intanto, nell'uscire, osservava il castello,
il quale non era più immerso in tetro silenzio,
come quando eravi entrata; dappertutto era uno[84]
strepito d'armi, un affaccendarsi ai preparativi di
difesa. Quando fu uscita dal portone, quando s'ebbe
lasciato indietro quella formidabile saracinesca, que'
tetri bastioni, sentì una gioia improvvisa, come di
schiavo che ricuperi la sua libertà. Questo sentimento
non le permetteva di riflettere ai nuovi pericoli
che potevano minacciarla: i monti infestati
da saccomani, un viaggio cominciato con guide, la
cui sola fisonomia valeva ad incuterle spavento.
Sulle prime però gioì, trovandosi fuori di quelle
mura, dov'era entrata con sì tristi presagi. Rammentavasi
di quali presentimenti superstiziosi fosse
stata côlta allora, e sorrideva dell'impressione ricevutane
dal suo cuore.
Osservava con tai sentimenti le torri del castello,
e pensando che lo straniero, cui credea ivi detenuto
poteva essere Valancourt, la sua gioia fu di lieve
durata. Riunì tutte le circostanze relative all'incognito,
fin dalla notte in cui avevagli sentito cantare
una canzone del suo paese. Se le era rammentate
spesso, senza trarne alcuna convinzione, e credeva
soltanto che Valancourt potesse esser prigioniero in
Udolfo. Era probabile che, cammin facendo, raccogliesse
da' suoi conduttori notizie più dettagliate;
ma temendo d'interrogarli troppo presto, per paura
che una diffidenza reciproca non li impedisse di
spiegarsi in presenza l'uno dell'altro, aspettò l'occasione
favorevole per intertenerli separatamente.
Poco dopo, udirono in lontananza il suono di una
tromba. Le due guide si fermarono guardando indietro.
Il bosco foltissimo, ond'eran circondati, non
lasciava veder nulla. Uno di essi salì sopra un poggio
per osservare se il nemico si avanzasse, giacchè
la tromba senza dubbio apparteneva alla sua vanguardia.
Mentre l'altro intanto restava solo con Emilia,
ella si arrischiò d'interrogarlo a proposito del
supposto Valancourt. Ugo, tale era il nome di colui,
rispose che il castello racchiudeva parecchi prigionieri,[85]
ma che non rammentandosene nè la figura,
nè il tempo dell'arrivo, non poteva darle informazioni
precise. Gli domandò quali prigionieri fossero
stati fatti dall'epoca che indicò cioè da quando aveva
intesa la musica per la prima volta. « Sono stato
fuori colla truppa per tutta la settimana, » rispose
Ugo, « e non so nulla di quel che è accaduto nel
castello. »
Bertrando, l'altra guida, tornò ad informar il compagno
di quanto avea veduto, ed Emilia non domandò
più nulla. I viaggiatori uscirono dal bosco,
e scesero in una valle per una direzione contraria
a quella che doveva prendere il nemico. Emilia vide
intieramente il castello, e contemplò colle lacrime
agli occhi quelle mura ov'era forse chiuso Valancourt.
Cominciarono a sentire le cannonate; desse
elettrizzavano Ugo, il quale ardeva d'impazienza di
trovarsi a combattere, maledicendo Montoni che lo
mandava così lontano. I sentimenti del suo compagno
parevano molto diversi, e più adattati alla crudeltà,
che ai piaceri della guerra.
Emilia faceva frequenti interrogazioni sul luogo
del suo destino; ma non potè saper altro, se non
che andava in Toscana; e tutte le volte che ne parlava,
parevale scoprire nella faccia di quei due uomini
un'espressione di malizia e fierezza che la faceva
tremare.
Viaggiarono alcune ore in profonda solitudine;
verso sera s'ingolfarono fra precipizi ombreggiati da
cipressi, pini ed abeti; era un deserto così aspro e
selvaggio, che se la malinconia avesse dovuto scegliersi
un asilo, quello sarebbe stato il suo favorito
soggiorno. Le guide decisero di riposar quivi. « La
sera si avanza, » disse Ugo, « e andando più oltre
saremmo esposti ad esser divorati dai lupi. » Questo
fu un cattivo annunzio per Emilia, trovandosi
ad ora così tarda in quei luoghi selvaggi, alla discrezione
di coloro. Gli orribili sospetti concepiti[86]
sui disegni di Montoni se le presentarono con maggior
forza; fece di tutto per impedir la sosta, e
domandò con inquietudine quanto cammino restasse
da fare.
« Molte miglia ancora, » disse Bertrando; « se
non volete mangiare, buona padrona, ma noi vogliamo
cenare, chè ne abbiamo bisogno. Il sole è già tramontato:
fermiamoci sotto questa rupe. » Il suo camerata
acconsentì, fecero scendere Emilia dalla mula,
e sedutisi tutti sull'erba, si misero a mangiare alcuni
cibi tratti da una valigia.
L'incertezza aveva talmente aumentata l'ansietà
di Emilia a proposito del prigioniero, che non potendo
discorrere col solo Bertrando, lo interrogò
alla presenza di Ugo; indarno: ei disse non saperne
nulla affatto. Ciarlando di varie cose, vennero a discorrere
di Orsino e del motivo per cui era fuggito
da Venezia. Qual non fu il raccapriccio d'Emilia
allorchè Bertrando narrò la storia d'un altro assassinio
fatto commettere per conto del cavaliere, ed
in cui il bravo avea sostenuta una parte principale!
A tale scoperta, mille terribili supposizioni l'assalsero:
essa credeva restar vittima della cupidigia di
Montoni, il quale avesse deciso di disfarsi di lei in
silenzio, e per mezzo di quegli scherani, per appropriarsi
in pace i di lei beni.
Il sole era tramontato tra folte nubi, ed Emilia
arrischiò tremando di rammentare alle guide che
cominciava a farsi tardi, ma essi erano troppo occupati
dei loro discorsi per badare a lei. Dopo aver
finito di cenare, ripresero la strada della valle in
silenzio. Emilia continuava a pensare alla propria
situazione, ed alle ragioni che poteva aver Montoni
per trattarla così. Era indubitato ch'egli aveva cattive
mire su di lei. Se non la faceva perire per appropriarsi
istantaneamente i di lei beni, non facevala
nascondere per un certo tempo, se non per
riservarla a progetti più tristi, degni della sua cupidigia,[87]
e meglio adatti alla sua vendetta. Rammentandosi
dell'insulto fattole nella galleria, la sua orribile
supposizione acquistò maggior forza. A qual fine
però l'allontanava dal castello, ove probabilmente
erano già stati commessi con segretezza tanti delitti?
Il di lei spavento divenne allora sì eccessivo, che
proruppe in dirotto pianto. Pensava nel tempo stesso
al diletto padre, ed a ciò che avrebbe sofferto se
avesse potuto prevedere le strane e penose di lei
avventure. Con qual cura si sarebbe guardato dall'affidare
la sua figlia orfana ad una donna tanto
debole come la signora Montoni! La sua posizione
attuale sembravale così romanzesca, che, rammentandosi
la calma e serenità de' primi anni, si credeva
quasi vittima di qualche sogno spaventoso, o
di un'immaginazione delirante. La riservatezza impostale
dalla presenza delle guide, cambiò il suo terrore
in cupa disperazione. La prospettiva spaventevole
di ciò che poteva accaderle in seguito la rendeva
quasi indifferente ai pericoli che la circondavano.
La notte era già tanto avanzata, che i viaggiatori
vedevano appena la strada.
Dopo molte ore di penoso cammino, interrotto
ben anco da una violenta burrasca, si trovarono
fuori di quei boschi. Ad Emilia parve d'esser rinata,
riflettendo che se quei due uomini avessero
avuto ordine d'ucciderla, l'avrebbero certo eseguito
nell'orrido deserto dond'erano usciti, e dove mai
se ne sarebbe potuto trovare la traccia. Rianimata
da questa riflessione, e dalla tranquillità delle sue
guide, discese tacendo per un sentiero fatto solo
per gli armenti, contemplando con interesse la sottoposta
valle coronata a levante e a settentrione
dagli Appennini; a ponente ed a mezzogiorno, la
vista si estendeva per le belle pianure della Toscana.
« Il mare è là, » disse Bertrando, quasi avesse
indovinato che Emilia esaminava quegli oggetti cui[88]
il chiaro di luna le permetteva di scorgere; « desso
sta ad occidente, benchè non possiamo distinguerlo. »
Emilia trovò subito una differenza di clima, molto
più temperato di quello de' luoghi alpestri, poco
prima attraversati. Il paese ora contrastava tanto
colla grandezza spaventosa di quelli, ov'era stata
confinata, e co' costumi di coloro che vi abitavano,
che Emilia si credè trasportata nella sua cara valle
di Guascogna. Stupiva come Montoni l'avesse mandata
in quel delizioso paese, e non potea credere
fosse stato scelto da lui per servir di teatro ad un
delitto.
La fanciulla si arrischiò a chiedere se il luogo
di loro destinazione fosse ancora molto distante.
Ugo le rispose che non n'erano lontani. « A quel
bosco di castagni in fondo alla valle, » diss'egli,
« vicino al ruscello, dove specchiasi la luna. Non
vedo l'ora di riposarmi là con un fiasco di vino
buono ed una fetta di prosciutto. » Emilia esultò
udendo che il suo viaggio stava per finire. In pochi
momenti giunsero all'ingresso del bosco. Videro da
lontano un lume: avanzaronsi costeggiando il ruscello,
ed arrivarono in breve ad una capanna. Bertrando
battè forte. Un uomo si affacciò ad una finestrella,
ed avendolo riconosciuto, scese immediatamente
ad aprir la porta. L'abitazione era rustica,
ma decente; costui ordinò alla moglie di portar
qualche rinfresco ai viaggiatori, ed intanto parlò in
disparte con Bertrando: Emilia l'osservò; era un
contadino grande, ma non robusto, pallido, e di
sguardi penetranti. Il di lui esteriore non annunziava
un carattere capace d'ispirar fiducia, e non
aveva modi che potessero conciliargli la benevolenza.
Ugo s'impazientiva, chiedeva da cena, e prendeva
anche un fare autorevole, che non sembrava
ammettere replica. « Vi aspettava un'ora fa, » disse
il contadino, « avendo già ricevuto una lettera del
signor Montoni.[89]
— Fate presto, per carità, abbiamo fame; e sopratutto
portate tanto vino. » Il contadino ammannì
loro immediatamente lardo, vino, fichi, pane ed
uva squisita. Dopo che Emilia si fu alquanto rifocillata,
la moglie del contadino le indicò la sua
camera. La fanciulla le fece alcune interrogazioni
intorno a Montoni: Dorina, così chiamavasi la donna,
rispose con molta riservatezza, pretendendo ignorare
le intenzioni di sua eccellenza. Convinta allora
che non avrebbe ricevuto alcuno schiarimento sul
nuovo suo destino, la licenziò, e coricossi; ma le
scene maravigliose accadute, tutte quelle che prevedeva,
si presentarono a un tempo alla di lei inquieta
immaginazione, e concorsero col sentimento
della nuova situazione a privarla d'ogni sonno.
CAPITOLO XXXII
Quando, allo spuntar del giorno, Emilia aprì la
finestra, restò sorpresa contemplando le bellezze
che la circondavano. La casa era ombreggiata da
castagni, misti a cipressi e larici. A settentrione e
a levante gli Appennini, coperti di boschi, formavano
un anfiteatro superbo e maestoso. Le loro
falde verdeggiavano di vigne e di oliveti. Le ville
elegantissime della nobiltà toscana, sparse qua e là
sui colli, formavano una vista sorprendente. L'uva
pendeva a festoni dai rami dei pioppi e dei gelsi.
Prati immensi costeggiavano il ruscello che scendeva
dalle montagne; a ponente ed a mezzogiorno,
si scorgeva il mare a gran distanza. La casa era
esposta a mezzogiorno, e circondata da fichi, gelsomini
e viti dai rubicondi grappoli, che pendevano
intorno alle finestre: il praticello innanzi alla casa
era smaltato di fiori e d'erbe odorifere. Quel luogo
era per Emilia un boschetto incantato, la cui vaghezza
comunicò successivamente al di lei spirito la
calma, che non aveva gustata da tanto tempo.[90]
Fu chiamata all'ora della colazione dalla figlia del
contadino, fanciulla di fisonomia interessante, dell'età
di circa diciassette anni. Emilia vide con piacere
che parea animata dalle più pure affezioni della
natura: tutti quelli che la circondavano, annunziavano
più o meno cattive disposizioni: crudeltà, malizia,
ferocia e doppiezza; quest'ultimo carattere distingueva
specialmente la fisonomia di Dorina e di
suo marito. Maddalena parlava poco, ma con voce
soave ed un'aria modesta e compiacente che interessarono
Emilia. Le donne fecero colazione in casa
mentre Ugo, Bertrando ed il loro ospite mangiavano
sul prato prosciutto e formaggio, inaffiati di vini toscani.
Appena ebbero finito, Ugo andò in fretta a
cercare la sua mula. Emilia seppe allora ch'egli doveva
tornare ad Udolfo, mentre Bertrando sarebbe
rimasto alla capanna.
Quando Ugo fu partito, Emilia propose una passeggiata
nel bosco; ma essendole stato detto che
non poteva uscire se non in compagnia di Bertrando
stimò meglio ritirarsi nella sua stanza.
Preferendo la solitudine alla società di quello
scellerato e de' suoi ospiti, Emilia pranzò in camera,
e Maddalena ebbe il permesso di servirla. La di
lei conversazione ingenua le fece conoscere che i
contadini abitavano da molto tempo in quella casa,
la quale era un regalo di Montoni in ricompensa
d'un servizio resogli da Marco, stretto parente del
vecchio Carlo. « Sono così tanti anni, signora, »
disse Maddalena, « ch'io ne so pochissimo; ma sicuramente
mio padre deve aver fatto del gran bene
a sua eccellenza, perchè la mamma ha detto spessissimo,
che questa casa era il menomo regalo che
potesse fargli. »
Emilia ascoltava con pena questo racconto, che
dava un colore poco favorevole al carattere di Marco.
Un servizio che Montoni ricompensava così, non
poteva essere che delittuoso; e si convinceva sempre[91]
più di non essere stata mandata in quel luogo se
non per un colpo disperato.
« Sapete voi quanto tempo sarà, » disse Emilia,
pensando all'epoca in cui la signora Laurentini era
sparita dal castello, « sapete voi quanto tempo sia
che vostro padre ha reso al signor Montoni il servizio
di cui mi parlate?
— Fu un po' prima che venisse ad abitare in
questa casa; saranno circa diciotto anni. »
Era l'epoca in cui si diceva presso a poco che
fosse sparita la signora Laurentini. Venne in mente
ad Emilia che Marco avesse potuto servir Montoni
in quell'affare misterioso, secondando forse un omicidio.
L'orribile pensiero la piombò in angosciose
riflessioni. Restò sola fino a sera, vide tramontare
il sole, ed al momento del crepuscolo le sue idee
furono tutte occupate di Valancourt. Riunì le circostanze
relative alla musica notturna, e tutto ciò
che appoggiava le sue congetture sulla di lui prigionia
nel castello, e si confermò nell'opinione di
averne udita la voce. Stanca d'affannarsi, si gettò
finalmente sul letto, e cedè al sonno. Un colpo battuto
all'uscio non tardò a svegliarla. L'immagine
di Bertrando con uno stile alla mano, si presentò
alla di lei immaginazione alterata. Domandò chi
fosse. « Son io, signorina, aprite, non abbiate timore,
sono la Lena.
— Che cosa vi adduce sì tardi? » disse Emilia facendola
entrare.
— Zitto, signora, per l'amor del cielo, non facciamo
rumore. Se ci sentissero, non me la perdonerebbero.
Mio padre, mia madre e Bertrando
dormono, » soggiuns'ella chiudendo la porta. « Siccome
voi non avete cenato, vi ho portato uva, fichi,
pane ed un bicchier di vino. » Emilia la ringraziò,
ma le fece conoscere che si esponeva al risentimento
di Dorina, quando si fosse accorta della mancanza
dei frutti. « Riprendeteli, Lena, » le disse, « io soffrirò[92]
meno a non mangiare, che se sapessi doveste
domani esserne sgridata da vostra madre.
— Oh! signora! non v'è pericolo, » soggiunse
la Lena; « mia madre non può accorgersi di nulla,
poichè è la mia parte di cena; mi fareste dispiacere
ricusando. » Emilia fu talmente intenerita
della generosità della buona fanciulla, che le vennero
le lagrime agli occhi. « Non v'affliggete, »
le disse la Lena; « mia madre è un po' viva, ma
le passa presto. Non vi accorate dunque. Ella mi
sgrida spesso, ma io ho imparato a soffrirla; e se
mi riesce di scappare nel bosco, quando ha finito,
mi scordo di tutto. »
Emilia sorrise, malgrado le sue lagrime, disse
a Lena che aveva un ottimo cuore, ed accettò il
dono. Desiderava molto sapere se Bertrando, Dorina
e Marco avessero parlato di Montoni e dei suoi
ordini in presenza di Maddalena; ma non volle sedurre
l'innocente fanciulla, facendole tradire i discorsi
de' suoi genitori. Quando se ne andò, Emilia
la pregò di venire a trovarla più spesso che
poteva, senza però mancare ai doveri di figlia; Lena
lo promise, ed augurolle la buona notte.
Emilia per alcuni giorni non uscì mai di camera,
e la Lena veniva a trovarla solo nel tempo de' pasti.
La sua dolce fisonomia e le sue maniere interessanti
consolavano la solitaria nostra eroina. In
quest'intervallo il di lei spirito, non avendo ricevuta
alcuna nuova scossa di dolore o di timore,
potè giovarsi del divertimento della lettura. Ritrovò
alcuni abbozzi, carta e matite, e si sentì disposta a
ricrearsi disegnando qualche parte della magnifica
prospettiva che aveva sott'occhio.
La sera d'un dì che faceva gran caldo, Emilia
volle provarsi a fare una passeggiata, benchè Bertrando
dovesse accompagnarla. Prese la Lena ed
uscì seguita dallo scherano, che la lasciò padrona
di scegliere la strada. Il tempo era sereno e fresco:[93]
Emilia ammirava con entusiasmo quella bella
contrada.
Il sole all'occaso dorava ancora la cima degli alberi
e le vette più alte. Emilia seguì il corso del
ruscello lungo gli alberi che lo costeggiavano. Sulla
riva opposta alcune bianche pecorelle spiccavano fra
il verde. D'improvviso, udì un coro di voci. Si
ferma, ascolta attenta, ma teme di farsi vedere. Fu
la prima volta che riguardò Bertrando come il suo
protettore; ei la seguiva davvicino discorrendo con
un pastore. Rassicurata da questa certezza, si avanza
dietro una collinetta; la musica cessò, e di lì a
poco sentì una voce di donna che cantava sola.
Emilia, raddoppiando il passo, girò dietro la collina,
e vide un praticello coronato da alberi altissimi.
Vi osservò due gruppi di contadini che stavano
intorno ad una giovinetta, la quale cantava,
tenendo in mano una ghirlanda di fiori.
Finita la canzone, alcune pastorelle si avvicinarono
ad Emilia ed alla Lena, le fecero sedere in
mezzo a loro, e le presentarono uva e fichi. Quella
placida scena campestre la commosse oltremodo, e
quando tornò a casa, si sentì lo spirito più calmato.
Dopo quella sera passeggiò spesso in compagnia
della Lena, ma sempre colla scorta di Bertrando.
La tranquillità in cui viveva, le faceva credere che
non si avessero cattivi disegni su di lei; e senza
l'idea probabile che Valancourt in quel momento
fosse prigioniero nel castello, avrebbe preferito di
restare colà fino all'epoca del suo ritorno in patria.
Riflettendo però ai motivi che potevano aver
deciso Montoni a farla passare in Toscana, la sua
inquietudine non diminuiva, non essendo persuasa
che il solo interesse della di lei sicurezza l'avesse
deciso a condursi in questa guisa.
Emilia passò qualche tempo nella capanna prima
di ricordarsi che, nella precipitosa partenza, aveva lasciato
ad Udolfo le carte della zia relative ai beni[94]
della Linguadoca. Ciò le fece pena, ma poi sperò
che il nascondiglio sarebbe sfuggito alle ricerche di
Montoni.
CAPITOLO XXXIII
Torniamo un momento a Venezia, dove il conte
Morano geme sotto il peso di nuove sciagure. Appena
giunto quivi, era stato arrestato per ordine
del Senato, e messo in una segreta così rigorosa,
che tutti gli sforzi degli amici non riuscirono
a saperne notizia. Egli non avea potuto indovinare
a qual nemico dovesse la sua prigionia, a
meno che non fosse Montoni, sul quale appunto fissavansi
i suoi sospetti.
Essi erano non solo probabili, ma anche fondati.
Nella faccenda della coppa avvelenata, Montoni avea
sospettato Morano; ma, non potendo acquistar il
grado di prova necessaria alla convinzione del delitto,
ebbe ricorso ad altri modi di vendetta. Da
una persona fidata fece gettare una lettera d'accusa
nella bocca del leone, destinata a ricevere le denunzie
segrete contro i cospiratori politici.
Il conte erasi attirato il rancore de' principali
senatori; i modi altieri, la smodata ambizione faceanlo
odiar dagli altri; non dovea dunque aspettarsi
alcuna pietà da parte de' suoi nemici.
Montoni intanto faceva fronte ad altri pericoli. Il
suo castello era assediato da gente risoluta a vincere.
La forza della piazza resistè al violento attacco,
la guarnigione si difese strenuamente e la mancanza
di viveri costrinse gli assalitori a sgomberare.
Quando Montoni si vide di nuovo pacifico possessore
d'Udolfo, impaziente di aver ancora Emilia in
mano, mandò a cercarla. Costretta a partire, la fanciulla,
diè un tenero addio alla dolce Lena. Risalendo
l'Appennino, fissò un luogo sguardo di rammarico
sulla deliziosa contrada che abbandonava;[95]
ma il dolore che risentiva a dover tornare al teatro
de' suoi patimenti, fu addolcito dalla probabile speranza
di ritrovarvi Valancourt, benchè prigioniero.
Giunti a sera inoltrata, e senza tristi incontri,
presso al castello, poterono scorgere al chiaro di
luna i danni patiti dalle mura durante l'assedio.
Anche i boschi avean sofferto: alberi atterrati,
schiantati, spogli di frondi, bruciati, indicavano i
furori della guerra.
Profondo silenzio era susseguito al tumulto delle
armi. Alla porta, un soldato munito di lampada
venne a riconoscere i viaggiatori, e li introdusse
nel cortile. Emilia fu colta quasi da disperazione
udendo rinchiudersi alle spalle quelle formidabili
imposte che parevano separarla per sempre dal
mondo.
Traversato il secondo cortile, trovaronsi alla porta
del vestibolo; il soldato augurò loro la buona notte
e tornò al suo posto. Intanto Emilia pensava al modo
di ritirarsi nella sua antica stanza senza esser veduta,
per paura d'incontrare sì tardi o Montoni o
qualcuno della sua compagnia. L'allegria che regnava
nel castello era allora talmente clamorosa,
che Ugo batteva alla porta senza poter farsi intendere
dalla servitù. Questa circostanza aumentò i
timori di Emilia, e le lasciò il tempo di riflettere.
Avrebbe forse potuto giugnere allo scalone, ma non
poteva andare alla sua camera senza lume. Bertrando
aveva appena una torcia, ed ella sapeva benissimo
che i servi accompagnavano col lume solo
fino alla porta, perchè il lampione sospeso alla
vôlta illuminava sufficentemente il vestibolo.
Carlo aprì alfine la porta: Emilia lo pregò di
mandar subito Annetta con un lume nella galleria
grande dove andava ad aspettarla, e, salita la scala,
sedette sull'ultimo gradino. Il buio della galleria
la dissuase dall'entrarvi. Mentre stava attenta per
sentire se venisse Annetta, sentì Montoni ed i suoi[96]
compagni, che, parlando tumultuosamente con gente
ebbra, si dirigevano a passi barcollanti verso la
scala. Obliando la paura, entrò colle braccia avanti
nella galleria, sempre attenta alle voci che udiva
dabbasso, e tra le quali distinse quelle di Bertolini
e Verrezzi. Dalle poche parole che potè intendere,
capì che si parlava di lei: ciascuno reclamava
qualche antica promessa di Montoni. Dopo aver
alcun poco altercato, sentì venir su gente, e si slanciò
nella galleria colla rapidità del lampo. Percorse
così alla ventura parecchi di que' vetusti anditi;
finalmente riescì in uno d'essi in fondo al quale le
parve vedere un filo di luce.
Mentre dirigevasi colà, scorse venirle incontro
Verrezzi barcollante. Per cansarlo, si gettò in una
porta che trovò a sinistra, sperando di non essere
stata veduta; poco dopo, socchiuse l'uscio per cercar
d'andarsene, quando un lume spuntò in fondo
a quel corridoio, e riconobbe Annetta; le corse incontro,
e questa, vedendola, le si buttò al collo con
un grido. Emilia potè farle comprendere il suo pericolo,
e recaronsi ambedue nella camera di Annetta
alquanto distante. Alcun timore però non valse a
farla tacere. « Oh! mia cara padrona, » diceva essa
camminando, « quanta paura ho avuto! Ah! ho
creduto di morire mille volte, e non sapeva se sarei
sopravvissuta al fragor dei cannoni per potervi
rivedere. Non ho mai provato in vita mia un contento
maggiore quanto adesso che vi ritrovo.
— Zitto! » diceva Emilia; « siamo inseguite! »
Ma era l'eco de' loro passi.
« No, » disse Annetta, « hanno chiusa una porta.
— Facciamo silenzio per carità, e non parliamo
più, finchè non siamo giunte alla tua camera. » Vi
arrivarono finalmente senza sinistri incontri. La
cameriera aprì, e Emilia si mise a sedere sul letto
per riposarsi alquanto. La sua prima domanda fa
se Valancourt era prigioniero. Annetta le rispose[97]
non poter dirglielo con precisione, ma esser certa
ch'eranvi molti prigionieri nel castello. Poscia cominciò
a sua guisa a fare la descrizione dell'assedio,
o piuttosto il dettaglio di tutte le paure sofferte
durante l'attacco. « Ma, » soggiuns'ella, « quando
intesi sulle mura i gridi di vittoria, credei che
noi fossimo stati presi, e mi tenni perduta; in vece
avevamo scacciati i nemici. Andai nella galleria settentrionale,
e vidi un gran numero di fuggitivi sulle
montagne. Del resto poi si può dire che i bastioni
sono in rovina. Facea spavento il vedere nel bosco
sottoposto tanti morti, ammucchiati l'un sopra l'altro!...
Durante l'assedio, il signor Montoni correa
qua, là, era da per tutto, a quanto mi disse Lodovico.
Per me, egli non mi lasciava veder nulla. Mi
chiudeva in una stanza nel centro del castello, mi
portava da mangiare, e veniva a trovarmi più spesso
che poteva. Debbo confessare che, senza Lodovico,
sarei morta, sicuramente.
— E come vanno le cose dopo l'assedio?
— V'è un fracasso terribile, » rispose Annetta;
« i signori non fanno altro che mangiare, bere e
giuocare. Stanno a tavola tutta notte e giuocano
tra loro le belle e ricche cose, che hanno preso
quando andavano al saccheggio od a qualcosa di
simile. Hanno alterchi vivissimi sulla perdita e
sul guadagno; il signor Verrezzi perde sempre, a
quanto si dice: Orsino guadagna, e sono sempre in
lite. Tutte quelle belle signore sono ancora qui, e
vi confesso che mi fanno ribrezzo quando le incontro.
— Sicuramente, » disse Emilia sussultando, « odo
rumore, ascolta.
— Oibò! è il vento. Lo sento spesso quando
soffia più forte del solito, e scuote le porte della
galleria. Ma perchè non volete coricarvi? credo non
vorrete restar così tutta notte. »
Emilia si stese sul letto pregandola di lasciare il
lume acceso. Annetta si coricò accanto a lei; ma[98]
la fanciulla non poteva dormire, e le pareva sempre
d'intendere qualche rumore. Mentre Annetta cercava
persuaderla ch'era il vento, udirono rumor
di passi vicino all'uscio. La cameriera voleva scendere
dal letto, ma Emilia la trattenne; si bussò
leggermente, e si chiamò Annetta sottovoce.
« Per l'amor del cielo, non rispondere, » disse
Emilia, « sta quieta. Faremmo bene a spegnere il lume,
che potrebbe tradirci.
— Madonna! » sclamò la cameriera; « non resterei
al buio adesso per tutto l'oro del mondo. » Mentre
parlava fu ripetuto più forte il nome di Annetta. « Ah!
è Lodovico, » gridò essa allora, e si alzava per
aprir la porta; ma Emilia ne la impedì volendo
prima assicurarsi se era solo. Annetta gli parlò
qualche tempo, ed egli le disse che, avendola lasciata
uscire per andare a trovar la padroncina, veniva
a rinchiuderla di nuovo. Questa temendo di
essere sorpresa se continuavano a parlare in quel
modo, acconsentì a lasciarlo entrare. La fisonomia
franca e buona del giovane rassicurò Emilia, la
quale implorò il di lui soccorso, se Verrezzi lo avesse
reso necessario. Lodovico promise di passar la
notte in una camera attigua per difenderla da qualunque
insulto, e, acceso un lume, se ne andò al
suo posto.
Emilia avrebbe desiderato riposare, ma troppi
interessi occupavano la sua mente: si vedeva in un
luogo divenuto soggiorno del vizio e della violenza,
fuori della protezione delle leggi, in potere d'un
uomo instancabile nella persecuzione e nella vendetta;
e riconobbe che resistere più a lungo alla di
lui prepotenza sarebbe stata follia. Abbandonò pertanto
la speranza di vivere agiatamente con Valancourt,
e decise di ceder tutto a Montoni la mattina
seguente, purchè le permettesse di tornarsene tosto
in Francia. Queste riflessioni la tennero svegliata
tutta notte.[99]
Appena fu giorno, Emilia ebbe un lungo colloquio
con Lodovico, il quale le raccontò varie circostanze
relative al castello, e le diè alcune notizie sui progetti
di Montoni, che accrebbero i suoi fondati timori.
Gli dimostrò gran sorpresa perchè, sembrando
così commosso dalla di lei trista situazione in quel
castello non pensasse d'andarsene. Ei l'assicurò non
essere sua intenzione di restarvi, ed allora essa rischiò
a domandargli se volesse assecondare la sua
fuga. Lodovico l'accertò ch'era dispostissimo a tentarla,
ma le rappresentò tutte le difficoltà dell'impresa,
giacchè la di lui perdita sarebbe stata certa,
se Montoni li raggiungesse prima d'esser fuori de'
monti. Promise nulladimeno di cercarne con premura
l'occasione, e di occuparsi d'un piano di fuga.
Emilia gli confidò allora il nome di Valancourt,
pregandolo d'informarsi se fosse nel numero dei
prigionieri. La debole speranza che le rinacque da
questo colloquio, dissuase Emilia dal trattare immediatamente
con Montoni; risolse, s'era possibile,
di ritardare a parlargli fin quando avesse saputo
qualcosa da Lodovico, e di non far la cessione se
non quando le fosse riuscito impossibile ogni mezzo
di fuggire. Mentre fantasticava così, Montoni rinvenuto
dall'ubbriachezza, la mandò a chiamare; essa
obbedì, e lo trovò solo, « Ho saputo, » diss'egli,
« che non passaste la notte nella vostra camera;
dove siete stata? » Emilia gli dettagliò le circostanze
che ne l'aveano impedita, e le chiese la sua
protezione per l'avvenire. « Voi conoscete i patti
della mia protezione, » diss'egli; « se realmente
ne fate caso, procurate di meritarvela. »
Quella dichiarazione precisa, che non l'avrebbe
protetta se non condizionatamente, durante la sua
cattività nel castello, convinse Emilia della necessità
di arrendersi; ma prima gli domandò se le
avrebbe permesso di partire immediatamente dopo
aver firmata la cessione; egli le ne fece solenne[100]
promessa, e le presentò la carta, colla quale essa
gli trasferiva tutti i suoi diritti.
Fu per qualche tempo incapace di firmare, avendo
il cuore lacerato da opposti affetti; stava per rinunziare
alla felicità della sua vita, e alla speranza
che l'avea sostenuta in un sì lungo corso di avversità.
Montoni le ripetè i patti della sua obbedienza,
osservandole che tutti i momenti erano preziosi.
Essa prese la penna e firmò la cessione. Appena
ebbe finito, lo pregò di ordinare la sua partenza e
di lasciarle condur seco Annetta. Montoni allora si
mise a ridere. « Era necessario ingannarvi, » diss'egli;
« era l'unico mezzo per farvi agire ragionevolmente:
voi partirete ma non adesso. Bisogna
prima ch'io prenda possesso di quei beni; quando
ciò sarà fatto, potrete tornarvene in Francia. »
La fredda scelleratezza colla quale ei violava il
solenne impegno da lui preso, ridusse Emilia alla
disperazione, conoscendo che il suo sacrifizio non
le avrebbe giovato a nulla, e sarebbe rimasta prigioniera:
non sapeva trovar parole per esprimere i
suoi sentimenti, e capiva bene che ogni osservazione
sarebbe stata infruttuosa; guardò Montoni con aria
supplichevole, ma egli volse il capo, e la pregò di
ritirarsi. Incapace di fare neppure un passo, ella si
abbandonò sopra una sedia, sospirando affannosamente
senza poter piangere, nè parlare.
« Perchè abbandonarvi a questo inopportuno dolore? »
le disse Montoni; « sforzatevi di sopportare
coraggiosamente ciò che ora non potete evitare.
Non avete da lagnarvi di verun affanno reale; abbiate
pazienza, e sarete rimandata in Francia. Intanto
tornate alla vostra stanza.
— Non oso, signore, » rispose Emilia, « andare
in un luogo ove può introdursi il signor Verrezzi. — Non
vi ho io promesso di proteggervi? » disse
Montoni. — Promesso! » ribattè Emilia titubando. — La[101]
mia promessa dunque non basta? » riprese
egli severamente. — Rammentatevi della vostra
prima promessa, » disse Emilia tremando, « e giudicherete
voi stesso qual caso io debba fare delle
altre. — Guardatevi dal farmi ritrattare le mie parole.
Ritiratevi, voi non avete nulla da temere nel
vostro appartamento. »
Emilia ritirossi a passi lenti, e quando fu giunta
nella sua camera, esaminò attentamente se vi fosse
nascosto qualcuno, chiuse la porta, e si mise a sedere
vicino alla finestra. La misera avrebbe forse
perduta la ragione, se non avesse lottato fortemente
contro il peso delle sue sciagure. Invano sforzavasi
di credere che Montoni l'avrebbe realmente rimandata
in Francia, tostochè si fosse assicurato de' suoi
beni, e che intanto l'avrebbe guarentita dagl'insulti.
La sua speranza principale però era riposta in Lodovico;
nè dubitava del suo zelo, malgrado la poca
fiducia di lui stesso nella progettata evasione.
Questa trista giornata la trascorse come tante altre
nella propria camera. Calò la notte, ed Emilia
sarebbesi ritirata nella stanza di Annetta se un interesse
più forte non l'avesse trattenuta: voleva attendere
all'ora consueta il ritorno della musica, la
quale, se non potea assicurarla positivamente della
presenza di Valancourt nel castello, valea a confermarla
nella sua idea e procurarle una consolazione
sì necessaria nel suo attuale abbattimento.
La notte era burrascosa: il vento soffiava veemente;
le ore passarono: Emilia udì appostar le
sentinelle. Di lì a poco, una fioca melodia traversò
l'aere; riconobbe il suono di un liuto accompagnato
da' queruli accenti d'un uomo. Essa ascoltava sperando
e temendo; ritrovò la dolcezza armoniosa
della voce e del liuto, che già conosceva. Convinta
che la musica partiva da una delle stanze sottoposte,
si sporse in fuori per iscoprire alcun lume, ma
indarno. Chiamò anche sottovoce, ma il vento impedì[102]
senza dubbio di udirla; la musica continuava.
D'improvviso, udì battere all'uscio della camera,
ed avendo riconosciuto la voce di Annetta, le aprì,
invitandola ad avvicinarsi pian piano alla finestra
per ascoltare.
« Gran Dio! » sclamò Annetta; « io conosco
questa canzone: essa è francese, ed una delle ariette
favorite del mio caro paese... È un nostro compatriota
che canta e dev'essere il signor Valancourt. — Piano,
Annetta, » disse Emilia, « non parlar sì
forte; potremmo essere intese. — Da chi? dal cavaliere? — No,
ma qualcuno potrebbe tradirci. Perchè
credi tu sia Valancourt quello che canta? Ma
zitto: la voce diventa più forte. La riconosci? — Signorina, »
rispose Annetta, « io non ho mai udito
cantare il cavaliere. » Ad Emilia spiacque assai che
l'unico motivo di Annetta per credere ch'era Valancourt,
fosse che il cantore era Francese. Poco
dopo udì la romanza intesa alla peschiera, e il di
lei nome fu ripetuto così spesso, che Annetta gridò
ad alta voce: « Signor Valancourt! signor Valancourt! »
Emilia tentò trattenerla, ma essa gridava
sempre più forte; la musica cessò, e nessuno rispose.
« Non importa, signora Emilia, » disse la
ragazza; « è il cavaliere senz'altro, ed io voglio
parlargli. — No, no, Annetta; voglio parlargli io
stessa. Se è lui, riconoscerà la mia voce, e risponderà.
Chi è, » gridò ella, « che canta così tardi? »
Susseguì un lungo silenzio. Ripetè la domanda, ed
intese fievoli accenti, i quali parevano venir sì da
lontano, che non potè distinguer nessuna parola.
Allora credè che l'incognito fosse Valancourt senz'altro,
giacchè aveva risposto alla sua voce, e lusingandosi
che l'avesse riconosciuta, si abbandonò
a trasporti di gioia. Annetta intanto continuava a
chiamare. Emilia, temendo allora di esser tradita
nelle sue ricerche, la fece tacere, riservandosi ad
interrogare Lodovico la mattina seguente.[103]
Stettero ambedue qualche tempo alla finestra, ma
tutto rimase tranquillo. Emilia, giubilante, camminava
a gran passi per la camera, chiamando sottovoce
Valancourt, e tornava quindi alla finestra, dove
non udiva altro che il mormorio del vento tra le
frondi. Annetta mostravasi impaziente quanto lei;
ma la prudenza le decise infine a chiudere la finestra,
ed andarsene a letto.
CAPITOLO XXXIV
Passarono alcuni giorni nell'incertezza. Lodovico
aveva potuto sapere solamente che c'era un
prigioniero nel luogo indicato da Emilia, un Francese,
stato preso in una scaramuccia. Nell'intervallo,
Emilia sfuggì alle persecuzioni di Verrezzi
e Bertolini, confinandosi nella sua camera. Talvolta
passeggiava la sera nel corridoio. Montoni
pareva rispettar l'ultima sua promessa, sebbene
avesse violata la prima; ed ella non poteva attribuire
il suo riposo che al favore della di lui protezione.
Erane allora così persuasa, che non desiderava
partire dal castello se non dopo aver ottenuto
qualche certezza a proposito di Valancourt.
L'aspettava adunque, senza che ciò le costasse verun
sacrifizio, non essendosi presentata fin allora
nessuna occasione propizia di fuggire.
Finalmente, Lodovico venne ad avvertirla che
sperava di vedere il prigioniero, dovendo questi
avere per guardia la notte seguente un soldato di
cui erasi fatto amico. La di lui speranza non fu
vana, giacchè potè entrare nella prigione col pretesto
di portargli acqua. La prudenza però gl'impose
di non confidare alla sentinella il vero motivo
di quella visita, che fu molto breve.
Emilia stette impaziente ad aspettarne il risultato;
infine vide ricomparire il giovano con Annetta. « Il
prigioniero, signorina, » diss'egli, « non ha voluto[104]
confidarmi il suo nome. Quando pronunziai il vostro,
si mostrò meno sorpreso di quel ch'io m'immaginassi.
— Come sta egli? Dev'essere molto abbattuto
dopo una sì lunga prigionia... — Oh no! mi parve
che stesse bene, quantunque non glie l'abbia domandato. — Non
vi ha consegnato nulla per me? »
disse Emilia. — Mi ha dato questo, dicendo che
vi avrebbe scritto se avesse avuto l'occorrente. Prendete. »
E le consegnò una miniatura. Emilia riconobbe
il suo proprio ritratto, lo stesso che aveva
perduto sua madre in modo così singolare alla peschiera
della valle. Pianse allora di gioia e tenerezza,
e Lodovico continuò: « Mi ha scongiurato a
procurargli un abboccamento con voi. Gli rappresentai
quanto mi paresse difficile farvi acconsentire
il suo custode; mi rispose ciò esser più facile che
non immaginassi, e che se ne gli avessi portata la
vostra risposta, si sarebbe spiegato meglio. — Quando
potrete rivedere il cavaliere, ditegli che acconsento
a vederlo. — Ma quando, signora, in qual luogo? — Ciò
dipenderà dalle circostanze; desse fisseranno
l'ora ed il luogo. »
Il giovane le augurò la buona notte, e se ne
andò.
Passò una settimana prima che Lodovico potesse
rientrare nella prigione. Nell'intervallo, comunicò
ad Emilia rapporti spaventosi di quanto accadeva
nel castello: il di lei nome era spesso pronunziato
ne' discorsi di Bertolini e Verrezzi, e diveniva sempre
soggetto di alterchi. Montoni aveva perduto al
giuoco somme enormi con Verrezzi, e c'era tutta la
probabilità che gliela destinasse in isposa per isdebitarsi,
ad onta dell'opposizione di Bertolini. A tai
notizie, la meschina scongiurava Lodovico a riveder
tosto il prigioniero, ed a favorire la loro fuga.
Finalmente Lodovico le disse d'aver riveduto il
cavaliere, il quale avealo indotto a fidar nel carceriere,[105]
di cui aveva già esperimentata la condiscendenza,
e che avevagli promesso di uscire per
mezz'ora la notte seguente, quando Montoni ed i
suoi compagni stessero gozzovigliando. « È una
bella cosa per certo, » soggiunse il giovane; « ma
Sebastiano sa bene che non corre alcun rischio,
lasciando uscire il prigioniero, poichè se potrà scappare
dalle porte di ferro sarà molto destro. Il cavaliere
mi manda da voi, o signora, per supplicarvi
in nome suo di permettergli che vi veda stanotte,
quando pur fosse per un momento solo, non potendo
più vivere sotto il medesimo tetto senza vedervi;
circa all'ora, non può precisarla, giacchè
dipende dalle circostanze, come voi diceste, e vi
prega di scegliere il luogo che crederete il più
sicuro. »
Emilia era sì agitata dalla prossima speranza di
rivedere Valancourt, che passarono alcuni minuti
prima di poter rispondere. Finalmente, non seppe
indicare un luogo più sicuro del corridoio. Fu dunque
stabilito che il cavaliere sarebbe venuto quella
notte nel corridoio, e che Lodovico avrebbe pensato
a scegliere l'ora. Emilia, come può credersi,
passò quest'intervallo in un tumulto di speranza,
di gioia e d'ansiosa impazienza. Dopo il suo arrivo
al castello non aveva mai osservato con tanto piacere
il tramonto del sole. Contava le ore, e le parea
che il tempo non passasse mai.
Finalmente suonò mezzanotte. Aprì la porta del
corridoio per ascoltare se vi fosse rumore nel castello,
e udì solo l'eco delle risa smoderate che
partivano dalla sala grande. S'immaginò che Montoni
ed i suoi ospiti fossero a tavola. « Essi sono
occupati per tutta la notte, » disse fra sè, « e Valancourt
sarà presto qui. » Chiuse la porta, e passeggiò
per la camera coll'agitazione dell'impazienza.
Si affacciava alla finestra, lusingandosi di sentir
suonare il liuto; ma tutto era silenzio, e la sua[106]
emozione cresceva. Annetta, che aveva fatto restare
in sua compagnia, ciarlava secondo il solito; ma
Emilia non intendeva sillaba de' suoi discorsi. Tornando
alla finestra, sentì alfine la solita voce cantare
accompagnata dal liuto. Non potè astenersi dal
piangere per la tenerezza. Finita la romanza, Emilia
la considerò come un segnale che le indicasse
l'uscita di Valancourt. Poco dopo udì camminare
nel corridoio, aprì la porta, corse incontro all'amante,
e si trovò fra le braccia d'un uomo che non
aveva mai veduto. La faccia ed il suono della
voce dell'incognito la disingannarono sul momento,
e svenne.
Allorchè risensò, trovossi sostenuta da quest'uomo,
il quale la considerava con viva espressione di
tenerezza e d'inquietudine. Non ebbe la forza per
interrogare, nè per rispondere: proruppe in dirotto
pianto, e si sciolse dalle di lui braccia. L'incognito
impallidì. Sorpreso, guardava Lodovico come per
domandargli qualche schiarimento; ma Annetta gli
spiegò il mistero che non intendeva neppur Lodovico.
« Signore, » gridò ella singhiozzando, « voi
non siete l'altro cavaliere. Noi aspettavamo il signor
Valancourt, e non siete voi quello. Ah! Lodovico,
come avete potuto ingannarci così? la mia
povera padrona se ne risentirà per molto tempo. »
L'incognito, il quale pareva agitatissimo, voleva
parlare, ma gli spirarono le parole sul labbro, e
battendosi colla mano la fronte, come preso da improvvisa
disperazione, si ritirò dalla parte opposta
del corridoio.
Annetta si terse le lagrime, e disse a Lodovico:
« Può darsi che l'altro cavaliere, cioè il signor
Valancourt, sia tuttora dabbasso. » Emilia alzò
la testa. « No, » replicò Lodovico, « il signor Valancourt
non c'è stato mai, se questo cavaliere non
è lui. Se aveste avuta la bontà di confidarmi il vostro
nome, signore, » diss'egli all'incognito, « quest'equivoco[107]
non avrebbe avuto luogo. — È verissimo, »
rispos'egli in cattivo italiano; « ma m'importava
molto che Montoni lo ignorasse. Signora, »
soggiunse quindi, volgendosi in francese a Emilia,
« permettetemi due parole. Soffrite che spieghi a
voi sola il mio nome e le circostanze che m'indussero
nell'errore. Io sono vostro compatriotta, e ci
troviamo ambidue in una terra straniera. »
Emilia procurò di calmarsi, ed esitava ad accordargli
la sua domanda; in fine, pregò Lodovico di
andar ad aspettarla in fondo al corridoio, trattenne
Annetta, e disse all'incognito che quella fanciulla
intendendo pochissimo l'italiano, ei poteva favellarle
in questa lingua. Si ritirarono in un angolo, e l'incognito
le disse, dopo un lungo sospiro: « Signora,
la mia famiglia non dev'esservi ignota. Io mi chiamo
Dupont; i miei parenti vivevano a qualche distanza
dal vostro castello della valle, ed io ebbi la
fortuna d'incontrarvi qualche volta, visitando il vicinato.
Non vi offenderò certo ripetendovi quanto
sapeste interessarmi, quanto mi compiaceva di errare
nei luoghi che voi frequentavate, quante volte ho
visitato la vostra peschiera favorita, e quanto gemeva
allora delle circostanze che m'impedivano di
dichiararvi la mia passione! Non vi spiegherò come
potei cedere alla tentazione, ed in qual modo divenni
possessore d'un tesoro inestimabile per me,
che affidai, pochi giorni sono, al vostro messaggero,
con una speranza ben diversa da quella che or mi
resta. Non mi estenderò di più. Lasciate ch'io implori
il vostro perdono, e circa a quel ritratto che
restituii così male a proposito, la vostra generosità
ne scuserà il furto, e vorrà rendermelo. Il mio delitto
stesso è divenuto il mio castigo; e quel ritratto
che involai alimentò una passione che dev'essere
sempre il mio tormento. »
Emilia, interrompendolo, disse: « Lascio alla vostra
coscienza, o signore, il decidere se, dopo tutto[108]
quant'è accaduto a proposito del signor Valancourt,
io debba rendervi il ritratto. Non sarebbe un'azione
generosa: dovete convenirne voi stesso, e mi permetterete
di aggiungere che mi fareste un'ingiuria
insistendo per ottenerlo. Mi trovo onorata della favorevole
opinione che concepiste di me; ma... l'equivoco
di questa sera mi dispensa dal dirvi di più.
— Sì, signora, oimè! sì, » replicò Dupont; « accordatemi
almeno di farvi conoscere il mio disinteresse,
se non il mio amore. Accettate i servigi
d'un amico, il quale, benchè prigioniero, giura di
fare ogni tentativo per togliervi da quest'orribile
soggiorno, e non mi negate la ricompensa d'aver
tentato almeno di meritare la vostra gratitudine.
— Voi la meritate già, signore, » disse Emilia,
« ed il voto che esprimete merita tutti i miei ringraziamenti.
Scusatemi se vi rammento il pericolo
a cui siamo esposti, prolungando questo abboccamento.
Sarà per me una gran consolazione, sia che
i vostri tentativi vadano a vuoto, od abbiano un
esito felice, di avere un generoso compatriotta disposto
a proteggermi. »
Dupont prese la mano di Emilia, che voleva ritirarla,
e se l'appressò rispettosamente alle labbra.
« Permettetemi, » le disse, « di sospirare vivamente
per la vostra felicità, e lodarmi d'una passione
che m'è impossibile di vincere. » In quel
punto Emilia udì rumore nella sua camera, e voltandosi
da quella parte, vide un uomo il quale, precipitandosi
nel corridoio brandendo uno stile, gridò:
« v'insegnerò io a vincere questa passione! » E
corse incontro a Dupont ch'era inerme. Questi
scansò il colpo, si gettò su colui, nel quale Emilia
riconobbe Verrezzi e lo disarmò. Durante la lotta,
Emilia e Annetta corsero a chiamar Lodovico, ma
era sparito. Tornando indietro, il rumore della lotta
le fece sovvenire del pericolo. Annetta andò a cercar
Lodovico; la fanciulla s'affrettò dove Dupont[109]
e Verrezzi erano sempre alle prese, e li scongiurò a
separarsi. Il primo finalmente gettò in terra l'avversario
e ve lo lasciò sbalordito dalla caduta. Emilia
lo pregò di fuggire, prima che comparisse Montoni,
o qualcun altro: ei ricusò di lasciarla così
senza difesa, e mentr'ella, più spaventata per lui
che per sè medesima, raddoppiava le sue premurose
istanze, udirono salire la scala segreta.
« Siete perduto, » diss'ella; « è la gente di Montoni. »
Dupont non rispose, e sostenendo Emilia,
che stentava a reggersi, aspettò di piè fermo gli
avversari. Poco dopo entrò Lodovico solo, e gettando
un'occhiata dappertutto: « Seguitemi, » disse loro,
« se vi è cara la vita; non abbiamo un momento
da perdere. »
Emilia domandò cosa fosse accaduto, e dove convenisse
andare.
« Non ho tempo di dirvelo, » rispose Lodovico.
« Fuggite, fuggite. »
Essa lo seguì all'istante, sostenuta da Dupont.
Scesero la scala, e mentre traversavano un andito
segreto, si ricordò di Annetta, e chiese dove fosse,
« Ci aspetta, » le rispose Lodovico sottovoce. « Poco
fa furono aperte le porte per un distaccamento che
arriva, e temo che vengano chiuse nuovamente, prima
che noi vi giungiamo. » Emilia tremava sempre
più dopo aver saputo che la sua fuga dipendeva da
un solo istante. Dupont le dava braccio, e procurava,
camminando, di rianimare il suo coraggio.
Lodovico aprì un'altra porta, dietro la quale
trovarono Annetta, e scesero alcuni gradini. Il giovane
disse che quel passaggio conduceva al secondo
cortile, e comunicava col primo. A misura che si
avanzavano, un tumulto confuso, che pareva venire
dal secondo cortile, spaventò Emilia.
« Non temete, signora, » disse Lodovico, « la
nostra sola speranza è riposta in questo tumulto:
mentre la gente del castello è occupata di quelli[110]
che giungono, potremo forse uscir dalle porte inosservati.
Ma zitto, » soggiunse avvicinandosi ad una
porticella che metteva sul primo cortile; « restate
qui un momento: io vado a vedere se le porte sono
aperte, e se c'è qualcuno per via. Vi prego, signore,
di spegnere il lume se mi sentirete parlare, » aggiunse
consegnando la lampada a Dupont, « ed in
tal caso restate in silenzio. »
Uscì, e chiuse la porta. « Noi saremo in breve
fuori di queste mura, » disse Dupont a Emilia;
« fatevi coraggio, e tutto andrà bene. »
Poco dopo udirono Lodovico parlar forte, e distinsero
anche un'altra voce. Dupont spense subito
il lume. « Gran Dio! È troppo tardi, » esclamò
Emilia; « che sarà di noi? » Ascoltarono attenti,
e si accorsero che Lodovico parlava colla sentinella.
Il cane di Emilia, che l'aveva seguita, cominciò a
latrare. Dupont lo prese in braccio per farlo tacere,
e sentirono che il giovane diceva alla sentinella:
« Intanto farò io la guardia per voi. — Aspettiamo
un momento, » replicò la sentinella, « e non avrete
questo incomodo. I cavalli devono esser mandati
alle stalle vicine, si chiuderanno le porte, e potrò
assentarmi per un minuto — Oibò! Per me non è
un incomodo, caro camerata, » disse Lodovico;
« farete a me lo stesso servizio un'altra volta. Andate,
andate ad assaggiare quel vino, altrimenti la
truppa arrivata lo berrà tutto, e non ve ne rimarrà
più. »
Il soldato esitò, e chiamò nel secondo cortile, per
sapere se i cavalli dovevano esser condotti fuori,
e se potevano chiudersi le porte. Erano tutti troppo
occupati per rispondergli, quand'anco l'avessero
inteso.
« Sì, sì, » disse Lodovico, « non son così gonzi,
si dividono tutto fra loro. Se aspettate quando
partono i cavalli, troverete il vino bevuto tutto. Io
ne ebbi la mia parte, ma giacchè non ne volete, andrò
io in vece vostra.[111]
— Alto là, camerata, » soggiunse la sentinella,
« prendete il mio posto per pochi minuti, che torno
subito. »
E andossene correndo.
Lodovico, vedendosi in libertà, si affrettò di
aprire la porta dell'andito. Emilia soccombea quasi
all'ansietà cagionatagli dal lungo colloquio. Egli
disse loro che il cortile era libero: lo seguirono
senza perder tempo, e menarono seco due cavalli
che trovarono isolati.
Usciti senza ostacolo dalle formidabili porte, corsero
ai boschi. Emilia, Dupont e Annetta erano a
piedi; Lodovico sopra un cavallo, conduceva l'altro.
Giunti nella selva, le due fanciulle salirono in
groppa coi loro protettori. Lodovico serviva di guida,
e fuggirono tanto presto quanto lo permetteva
una strada rovinata, ed il fioco chiaror di luna
traverso gli alberi.
Emilia era così stordita dall'inattesa partenza,
che osava credere appena di essere sveglia: dubitava
però molto che l'avventura potesse andar a
finir bene, ed il dubbio era pur troppo ragionevole.
Prima di uscire dal bosco udirono alte grida, e
videro molti lumi nelle vicinanze del castello. Dupont
spronò il cavallo, e con molta pena lo costrinse
a correr più presto.
« Povera bestia, » disse Lodovico, « dev'essere
ben stanca, essendo stata fuori tutto il giorno.
Ma signore, andiamo da questa parte, perchè i lumi
vengono per di qua. » E spronati i cavalli, si
misero a galoppare. Dopo una lunga corsa, guardarono
indietro: i lumi erano tanto lontani, che a
mala pena potevano distinguersi; le grida avean
fatto luogo a profondo silenzio. I viaggiatori allora
moderarono il passo, e tennero consiglio sulla direzione
da prendere. Decisero di andare in Toscana
per guadagnare il Mediterraneo, e cercar d'imbarcarsi
prontamente per la Francia. Dupont aveva[112]
progettato di accompagnarvi Emilia, se avesse potuto
sapere che il suo reggimento vi fosse tornato.
Erano allora sulla strada già percorsa da Emilia
con Ugo e Bertrando. Lodovico, il solo di essi che
conoscesse i tortuosi sentieri di que' monti, assicurò
che a poca distanza ne avrebbero trovato uno pel
quale sarebbesi potuto scender facilmente in Toscana,
e che alle falde degli Appennini c'era una piccola
città, dove avrebbero potuto procacciarsi le
cose necessarie pel viaggio.
Emilia pensava a Valancourt ed alla Francia con
gioia; ma intanto essa sola era l'oggetto delle riflessioni
malinconiche di Dupont. L'affanno però
ch'ei provava pel suo equivoco, veniva addolcito
dal piacere di vederla, Annetta pensava alla lor fuga
sorprendente, e al susurro che avrebber fatto Montoni
ed i suoi. Tornata in patria, voleva sposare il
suo liberatore per gratitudine e per inclinazione.
Lodovico, per parte sua, si compiaceva di avere
strappato Annetta ed Emilia al pericolo che le minacciava,
lieto di fuggire egli stesso da quella gente
che gli faceva orrore. Aveva resa la libertà a Dupont,
e sperava di viver felice coll'oggetto del suo
amore.
Occupati dai loro pensieri, i viaggiatori restarono
in silenzio per più di un'ora, meno qualche domanda
che faceva tratto tratto Dupont sulla direzione
della strada, o qualche esclamazione di Annetta
sugli oggetti che il crepuscolo lasciava vedere
imperfettamente. Infine scorsero lumi alle falde di
un monte, e Lodovico non dubitò più non fosse
la desiata città. Soddisfatti di questa certezza, i suoi
compagni si abbandonarono di nuovo ai loro pensieri;
Annetta fu quindi la prima a parlare.
« Dio buono, » diss'ella, « dove troveremo noi
denaro? So che nè la mia padrona, nè io non abbiamo
un soldo. Il signor Montoni ci provvedeva
egli! » L'osservazione produsse un esame che terminò[113]
in un imbarazzo seriissimo. Dupont era stato
spogliato di quasi tutti i suoi denari allorchè cadde
prigioniero; il resto l'aveva regalato alla sentinella,
che avevagli permesso di uscire dal carcere. Lodovico,
che da molto tempo non poteva ottenere il
pagamento del suo salario, aveva appena di che
supplire al primo rinfresco nella città in cui dovean
giungere.
La loro povertà li affliggeva tanto più, perchè
poteva trattenerli in cammino, e, sebbene in una
città, temevano sempre il potere di Montoni. I viaggiatori
adunque non ebbero altro partito che quello
di andare avanti a tentar la fortuna. Passarono per
luoghi deserti; finalmente udirono da lontano i
campanelli di un armento, e poco dopo il belato
delle pecore, e riconobbero le tracce di qualche
abitazione umana. I lumi veduti da Lodovico erano
spariti da molto tempo, nascosti dagli alti monti.
Rianimati da questa speranza, accelerarono il passo,
e scopersero alfine una delle valli pastorali degli
Appennini, fatta per dare l'idea della felice Arcadia.
La sua freschezza e bella semplicità contrastavano
maestosamente colle nevose montagne circostanti.
L'alba faceva biancheggiare l'orizzonte. A poca
distanza, e sul fianco di un colle, i viaggiatori distinsero
la città che cercavano, e vi giunsero in
breve. Con molta difficoltà poterono trovarvi un
asilo momentaneo. Emilia domandò di non fermarsi
più del tempo strettamente necessario per rinfrescare
i cavalli; la di lei vista eccitava sorpresa, essendo
senza cappello, ed avendo appena avuto il tempo di
prendere un velo. Le rincresceva perciò la mancanza
di denaro, che non permettevale di procacciarsi
quest'articolo essenziale.
Lodovico esaminò la sua borsa, e trovò che non
bastava neppur a pagare il rinfresco. Dupont si arrischiò
di confidarsi all'oste, che gli pareva umano
ed onesto; gli narrò la loro posizione, pregandolo[114]
d'aiutarli a continuare il viaggio. Colui promise di
far tutto il possibile, tanto più essendo essi prigionieri
fuggiti dalle mani di Montoni, cui egli aveva
ragioni personali per odiare: acconsentì a somministrar
loro i cavalli freschi per partire immediatamente,
ma non era ricco abbastanza per fornirli
anche di denaro. Stavano lamentandosi, lorchè Lodovico,
dopo aver condotto i cavalli in istalla, ritornò
tutto allegro, e le mise tosto a parte della
sua gioia: nel levare la sella ad un cavallo, vi avea
trovata una borsa piena di monete d'oro, porzione
senza dubbio del bottino fatto dai condottieri. Tornavano
essi dal saccheggio allorchè Lodovico era
fuggito, ed il cavallo essendo uscito dal secondo
cortile, ove stava a bere il suo padrone, aveva portato
via il tesoro, sul quale per certo contava quel
birbante.
Dupont trovò questa somma sufficientissima per
ricondurli tutti in Francia, e risolse allora di accompagnarvi
Emilia. Si fidava di Lodovico quanto
poteva permetterglielo una conoscenza sì breve, eppure
non reggeva all'idea di confidargli Emilia per
un sì lungo viaggio. D'altronde, non aveva forse
il coraggio di privarsi del pericoloso piacere di
vederla.
Tennero consiglio sulla direzione da prendere.
Lodovico avendo assicurato che Livorno era il
porto più vicino ed accreditato, decisero d'incamminarvisi.
Emilia comprò un cappello e qualche altro piccolo
oggetto indispensabile. I viaggiatori cambiarono
i cavalli stanchi con altri migliori, e si rimisero
lietamente in cammino al sorger del sole. Dopo
qualche ora di viaggio attraverso un paese pittoresco,
cominciarono a scendere nella valle dell'Arno.
Emilia contemplò tutte le bellezze di quei luoghi
pastorali e montuosi, unite al lusso delle ville dei
nobili fiorentini, e alle ricchezze di una svariata[115]
coltura. Verso mezzogiorno scoprirono Firenze, le
cui torri s'innalzavano superbe sullo splendido
orizzonte.
Il caldo era eccessivo, e la comitiva cercò riposo all'ombra.
Fermatisi sotto alcuni alberi, i cui folti
rami li difendevano dai raggi del sole, fecero una
refezione frugale, contemplando il magnifico paese
con entusiasmo.
Emilia e Dupont ridiventarono a poco a poco taciturni
e pensierosi, Annetta era giuliva, e non si
stancava mai di ciarlare, Lodovico era molto allegro,
senza obliare però i riguardi dovuti ai suoi
compagni di viaggio. Finito il pasto, Dupont persuase
Emilia a procurare di gustar un'ora di sonno,
mentre Lodovico avrebbe vegliato. Le due fanciulle,
stanche dal viaggio, si addormentarono.
Quando Emilia svegliossi, trovò la sentinella addormentata
al suo posto, e Dupont desto, ma immerso
ne' suoi tristi pensieri. Il sole era ancora
troppo alto per continuare il viaggio, e giustizia
volea che Lodovico, stanco dalle tante fatiche, potesse
finire in pace il suo sonno. Emilia profittò di
questo momento onde sapere per qual caso Dupont
fosse caduto prigioniero di Montoni. Lusingato dall'interesse
che dimostravagli questa domanda, e
dell'occasione che gli somministrava di parlare
di sè medesimo, Dupont la soddisfece immediatamente.
« Io venni in Italia, signora, al servizio del mio
paese. Una mischia ne' monti colle bande di Montoni
mise in rotta il mio distaccamento, e fui preso
con alcuni altri. Quando seppi d'essere prigioniero
di Montoni, questo nome mi colpì. Mi rammentai
che vostra zia aveva sposato un Italiano di tal nome,
e che voi li avevate seguiti in Italia. Non potei
però sapere con certezza, se non molto dopo,
che costui era quello stesso, e che voi abitavate
sotto il medesimo tetto con me. Non vi stancherò[116]
dipingendovi la mia emozione allorchè seppi questa
nuova, la quale mi fu data da una sentinella che
potei sedurre fino al punto di accordarmi qualche
ricreazione, una delle quali m'interessava assai, ed
era pericolosissima per lui. Ma non fu possibile
indurlo ad incaricarsi d'una lettera, e di farmi conoscere
a voi. Temeva di essere scoperto, e provare
tutta la vendetta di Montoni. Mi somministrò però
l'occasione di vedervi parecchie volte. Ciò vi sorprende,
ma vi spiegherò meglio. La mia salute
soffriva molto per mancanza d'aria e d'esercizio,
e potei finalmente ottenere, dalla pietà o dall'avarizia
sua, di passeggiare la notte sul bastione. »
Emilia divenne attenta, e Dupont continuò:
« Accordandomi questo permesso, la mia guardia
sapeva bene ch'io non poteva fuggire. Il castello
era custodito con vigilanza, ed il bastione sorgea
sopra una rupe perpendicolare. M'insegnò egualmente
una porta nascosta nella parete della stanza,
ov'io era detenuto, ed imparai ad aprirla. Questa
porta metteva in un andito stretto praticato nella
grossezza del muro, che girava per tutto il castello,
e veniva a riuscire all'angolo del bastione orientale.
Ho saputo in seguito che ve ne sono altri consimili
nelle muraglie enormi di quel prodigioso
edifizio, destinati senza dubbio a facilitare la fuga
in tempo di guerra. Per tal mezzo adunque io andava
la notte sul bastione, e vi passeggiava con
cautela onde non essere scoperto. Le sentinelle
erano molto lontane, perchè le alte mura da quella
parte supplivano ai soldati. In una di queste passeggiate
notturne, osservai un lume alla finestra
d'una stanza superiore alla mia prigione: mi venne
in idea che quella fosse la vostra camera, e, sperando
di vedervi, mi fermai in faccia alla finestra. »
Emilia, rammentandosi allora la figura veduta sul
bastione, che l'aveva tenuta in tanta perplessità,
esclamò: « Eravate dunque voi, signor Dupont,[117]
che mi cagionaste un terrore così ridicolo? La
mia fantasia era tanto indebolita dai lunghi patimenti,
che il più lieve incidente bastava a farmi
tremare. »
Dupont le manifestò il suo rammarico d'averla
spaventata, poi soggiunse: « Appoggiato al parapetto
in faccia alla vostra finestra, il pensiero della
vostra situazione malinconica e della mia mi strappò
alcuni gemiti involontari che vi attrassero alla finestra,
almeno così supposi. Vidi una persona, e credetti
foste voi. Non vi dirò nulla della mia emozione
in quel momento. Voleva parlare ma la prudenza
mi trattenne, e l'avanzarsi della sentinella mi
obbligò a fuggire.
« Passarono alcuni giorni prima ch'io potessi
tentare una seconda passeggiata, poichè non poteva
uscire se non quando era di guardia il milite da
me guadagnato coi doni. Intanto mi persuasi della
realtà delle mie congetture sulla situazione della
vostra camera. Appena potei uscire, tornai sotto la
vostra finestra, e vi vidi senza ardir di parlarvi. Vi
salutai colla mano, e voi spariste. Obliando la mia
prudenza, esalai un lungo sospiro. Voi tornaste e
diceste qualcosa. Intesi la vostra voce, e stava per
abbandonare ogni riguardo, quando udii venire una
sentinella, e mi ritirai prontamente; ma quel soldato
mi aveva veduto. Egli mi seguì, e mi avrebbe
raggiunto, senza un ridicolo stratagemma che formò
in quel momento la mia salvezza. Conoscendo la
superstizione di quella gente, gettai un grido lugubre,
sperando che avrebbe cessato d'inseguirmi, e
fortunatamente riuscii. Quell'uomo pativa di mal
caduco: il timore ch'io gl'incussi lo fece cadere a
terra tramortito, ed io m'involai prontamente. Il
sentimento del pericolo incorso, e che il raddoppiamento
delle guardie, per questo motivo, rendeva
maggiore, mi dissuase dal tornar a passeggiare sul
bastione. Nel silenzio delle notti però mi divertiva[118]
con un vecchio liuto procuratomi dal mio custode,
e talvolta cantava, ve lo confesso, sperando d'essere
inteso da voi. Infatti poche sere fa, parvemi udire
una voce che mi chiamasse, ma non volli rispondere
per timore della sentinella. Ditemi, in grazia,
signora, eravate voi?
— Sì, » rispose Emilia, con un sospiro involontario,
« avevate ragione. »
Dupont, osservando la penosa sensazione che tal
soggetto le cagionava, cambiò discorso.
« In una delle mie gite nell'andito di cui vi ho
parlato, intesi, » diss'egli, « un colloquio singolare
che veniva da una stanza contigua al medesimo. Il
muro era in quel luogo così sottile, che potei udire
distintamente tutti i discorsi che si facevano. Montoni
stava colà coi compagni. Egli cominciò il racconto
dell'istoria straordinaria dell'antica padrona
del castello. Descrisse circostanze strane; la sua
coscienza però deve sapere fino a qual punto fossero
credibili. Ma voi dovete conoscere, signorina,
le notizie vaghe che si fanno circolare sul destino
misterioso di quella dama.
— Le conosco, signore, » diss'Emilia, « e mi
accorgo che voi non ci credete.
— Io ne dubitava, » replicò Dupont, « prima
dell'epoca di cui vi parlo; ma il racconto di Montoni
aggravò i miei sospetti, e restai quasi persuaso
ch'ei fosse un assassino. Tremai per voi. Aveva
udito pronunziare il vostro nome dai convitati in
modo inquietante, e sapendo che gli uomini i più
empi sogliono essere i più superstiziosi, mi decisi
a spaventarli, per distoglierli dal nuovo delitto ch'io
temeva. Ascoltai attentamente Montoni, e nel luogo
più interessante del racconto, ripetei più volte le
sue ultime parole.
— Non avevate timore di essere scoperto? »
chiese Emilia.
— No, » rispose Dupont, « sapendo, che se Montoni[119]
avesse conosciuto il segreto dell'andito non
mi avrebbe rinchiuso in quella stanza. La compagnia,
per qualche momento, non badò alla mia
voce, ma finalmente l'allarme fu sì grande, che
fuggirono tutti. Montoni ordinò ai servi di fare attive
ricerche, ed io tornai alla mia prigione. »
Dupont ed Emilia continuarono a discorrere di
Montoni, della Francia, e del piano del loro viaggio.
Ella gli disse che aveva intenzione di ritirarsi in
un convento della Linguadoca; pensava di scrivere
a Quesnel, per informarlo della sua condotta, ed
aspettare la scadenza dell'affitto del suo castello
della valle, per andare a stabilirvisi. Dupont la
persuase che i beni, dei quali Montoni aveva voluto
spogliarla, non erano perduti per sempre, e si rallegrò
che fosse fuggita dalle mani di quel barbaro,
il quale senza dubbio l'avrebbe tenuta prigioniera
per tutta la vita. La probabilità di rivendicare i
beni della zia, non tanto per sè medesima quanto
per Valancourt, le fecero provare un senso di gioia
ond'era stata priva per molto tempo.
Verso il declinar del sole, Dupont svegliò Lodovico
per continuare il loro viaggio. Giunsero in Firenze
a notte avanzata, ed avrebbero voluto rimanervi
qualche giorno per rimirare le bellezze di
quella famosa metropoli, ma l'impazienza di ritornare
in patria li fece rinunziare a tal idea; ed il
giorno seguente, di buonissim'ora, avviaronsi alla
volta di Pisa, cui traversarono fermandosi appena
il tempo necessario per rinfrescare i cavalli, e giunsero
a Livorno verso la sera del giorno dipoi.
La vista di quella florida città piena di persone
di tante diverse nazioni, ed i loro svariati abbigliamenti,
rammentarono ad Emilia le mascherate di
Venezia in tempo del carnevale; ma non vi regnava
il brio e l'allegria dei Veneziani, essendo tutta gente
occupata nel commercio.
Dupont corse al porto, e seppe che un bastimento[120]
doveva far vela in breve per Marsiglia, dove
avrebbero potuto trovare facilmente un imbarco per
traversare il golfo di Lione e giungere a Narbona.
Il convento, nel quale Emilia voleva ritirarsi era
situato a poca distanza da questa città. La fanciulla
fu dunque lietissima nel sentire che il suo viaggio
per la Francia non avrebbe sofferto verun ostacolo.
Non temendo più d'essere inseguita, e sperando
rivedere in breve la sua cara patria ed il paese
abitato da Valancourt, si trovò talmente sollevata,
che, dopo la morte di suo padre, non aveva passati
mai momenti così tranquilli. Dupont fu informato
a Livorno che il suo reggimento era tornato
in Francia: questa notizia lo colmò di gioia, giacchè
in caso diverso non avrebbe potuto accompagnarvi
Emilia senza esporsi ai rimproveri, e fors'anco
al castigo del suo colonnello. Seppe reprimere
la sua passione fino al punto di non parlarne
più alla fanciulla, obbligandola così a stimarlo ed a
compiangerlo, se non poteva amarlo.
CAPITOLO XXXV
Torniamo ora in Linguadoca, ed occupiamoci del
Conte di Villefort, lo stesso che aveva ereditato i
beni del marchese di Villeroy, in vicinanza del monastero
di Santa Chiara. Rammentiamoci che quel
castello era disabitato, allorquando Emilia si trovò
in quelle vicinanze con suo padre, e che Sant'Aubert
parve assai commosso, allorchè seppe di trovarsi
così vicino al castello di Blangy. Il buon Voisin
aveva fatti discorsi molto allarmanti per la curiosità
d'Emilia a proposito di quel luogo.
Nel 1584, anno in cui Sant'Aubert morì, Francesco
di Beauveau, conte di Villefort, prese possesso
dell'immensa tenuta chiamata Blangy, situata
in Linguadoca, sulle sponde del mare. Queste terre
per parecchi secoli avevano appartenuto alla sua[121]
famiglia, e gli ritornavano per la morte del marchese
di Villeroy suo parente, uomo di carattere
austero e di maniere riservatissime. Questa circostanza,
unita ai doveri della sua professione, che
lo chiamavano spesso alla guerra, aveva impedita
ogni specie d'intrinsichezza tra lui ed il conte di
Villefort. Si conoscevano poco, ed il conte non seppe
la sua morte se non quando ricevè il testamento
che lo faceva padrone di Blangy. Non andò a visitare
i suoi nuovi possessi se non un anno dopo, e
vi passò tutto l'autunno. Si rammentava spesso
Blangy co' vivi colori che presta l'immaginazione
alla rimembranza dei diletti giovanili. Ne' suoi primi
anni, aveva conosciuta la marchesa, e visitato quel
soggiorno nell'età in cui i piaceri restano sensibilmente
impressi. L'intervallo scorso in appresso
fra il tumulto degli affari, che troppo spesso corrompono
il cuore e guastano la fantasia, non aveva
però mai cancellato dalla sua memoria i giorni felici
passati in Linguadoca.
Il defunto marchese aveva abbandonato il castello
da molti anni, ed il suo vecchio agente l'aveva
lasciato cadere in rovina. Il conte prese dunque
il partito di passarvi l'autunno per farlo restaurare.
Le preghiere e le lagrime ben anco della
contessa, che sapeva piangere all'ocorrenza, non
ebbero il potere di fargli cambiar risoluzione. Essa
dovette dunque acconciarsi a permettere ciò che
non poteva impedire, e a partir da Parigi. La sua
bellezza la facea ammirare, ma il di lei spirito era
poco adatto ad ispirare stima. L'ombra misteriosa
dei boschi, la grandezza selvaggia dei monti, e la
solitudine imponente delle sale gotiche, delle lunghe
gallerie, non le offrivano che una trista prospettiva.
Procurava di farsi coraggio pensando ai racconti
statile fatti sulla bella vendemmia di Linguadoca,
ma ivi non si conoscevano le contraddanze di Parigi,
e le feste campestri dei contadini non potevano[122]
lusingare un cuore, dal quale il lusso e la
vanità avean bandito da tanto tempo il gusto della
semplicità e le buone inclinazioni.
Il conte aveva due figli del primo letto, e volle
che venissero con lui. Enrico, in età di venti anni,
era già al servizio militare; Bianca, che non ne
aveva ancora diciotto, era sempre nel convento, dove
l'avean messa all'epoca delle seconde nozze del
padre. La contessa non aveva talenti bastanti per
dare una buona educazione alla figliastra, nè il coraggio
per intraprenderla, e perciò aveva consigliato
il marito ad allontanarla; temendo quindi che una
bellezza nascente venisse ad eclissare la sua, aveva
impiegato in seguito tutta l'arte per prolungare la
reclusione della fanciulla. La notizia ch'essa usciva
di monastero fu per lei di gran mortificazione, la
quale però mitigossi considerando che, se Bianca
usciva dal chiostro, l'oscurità della provincia avrebbe
sepolte le sue grazie per qualche tempo.
Il giorno della partenza, la carrozza del conte si
fermò al convento. Il cuore della giovinetta palpitava
di piacere alle idee di novità e libertà che le
s'offrivano. A misura che si avvicinava l'epoca del
viaggio, la sua impazienza crebbe al punto di contar
perfino i minuti che le mancavano a finir quella
notte. Appena spuntata l'alba, Bianca era balzata
dal letto per salutare quel bel giorno, in cui sarebbe
stata liberata dai vincoli del chiostro, per
andar a godere la libertà in un mondo, ove il piacere
sorride sempre, la bontà non si altera mai, e
regna col piacere senza verun ostacolo. Quando intese
suonare il campanello, corse al parlatorio, udì
il rumore delle ruote e vide fermarsi nel cortile la
carrozza di suo padre: ebbra di gioia, correva pei
corridoi annunziando alle amiche la sua imminente
partenza. Una monaca venne a cercarla per ordine
della superiora, che scese alla porta onde ricevere
la contessa, la quale parve a Bianca un angelo sceso[123]
per condurla al tempio della felicità. La contessa
però, nel vederla, non fu animata dagl'istessi sentimenti.
Bianca non era mai parsa tanto amabile,
ed il sorriso dell'allegrezza dava a tutta la sua fisonomia
la beltà dell'innocenza felice.
Dopo un breve colloquio, la contessa si congedò:
era il momento che Bianca attendeva con impazienza,
come l'istante in cui stava per cominciare la sua
felicità; ma non potè astenersi dal versar lacrime,
abbracciando le sue compagne che piangevano egualmente
nel dirle addio. La badessa, così grave, così
imponente, la vide partire con un dispiacere, di cui
non si sarebbe creduta capace un'ora prima. Bianca
uscì dunque piangendo da quel soggiorno, ch'erasi
immaginata di abbandonar ridendo.
La presenza del padre, le distrazioni del viaggio
assorbirono presto le sue idee, e dispersero quell'ombra
di sensibilità. Poco attenta ai discorsi della
contessa e di madamigella Bearn sua amica che
l'accompagnava; ella perdeasi in soavi meditazioni;
vedeva le nubi tacite solcar l'azzurro firmamento
velando il sole, ed oscurando così tratti di paese
con bella alternativa di ombre e di luce. Quel
viaggio fu per Bianca un seguito di piaceri; la natura,
ai suoi occhi, variava ogni momento, mostrandole
le più belle ed incantevoli vedute.
Verso la sera del settimo giorno, i viaggiatori
scorsero in lontananza il castello di Blangy. La sua
pittoresca situazione impressionò molto la fanciulla.
A misura che si avvicinavano, ammirava la gotica
struttura, le superbe torri, la porta immensa dell'antico
edificio; essa credeva quasi d'avvicinarsi
ad uno di que' castelli celebrati nell'istorie antiche,
dove i cavalieri vedevano dai merli un campione
col suo seguito, vestito di negra armatura, venire
a strappar la dama de' suoi pensieri dall'oppressione
d'un orgoglioso rivale. Essa aveva letto questa
novella nella libreria del monastero, ripiena di
cronache antiche.[124]
Le carrozze si fermarono ad una porta che metteva
nel recinto del castello, e che allora era chiusa.
La grossa campana che serviva ad annunziar gli
stranieri era da lunga pezza caduta; un servo salì
sur un muro rovinato, per avvertire l'agente dell'arrivo
del padrone. Bianca, appoggiata allo sportello,
considerava con emozione i luoghi circostanti.
Il sole era tramontato, il crepuscolo avvolgeva i
monti; il mare lontano ripercotea ancora all'orizzonte
una striscia di luce. Udivasi il fragor monotono
dell'onde che venivano a frangersi sul lido.
Ciascuno della compagnia pensava ai diversi oggetti
che più l'interessavano. La contessa sospirava
i piaceri di Parigi, vedendo con pena ciò ch'ella
chiamava orridi boschi e selvaggia solitudine; penetrata
dall'unica idea di dover essere sequestrata
in quell'antico castello, si doleva di tutto. I sentimenti
d'Enrico erano eguali; pensava sospirando
alle delizie della capitale e ad una vaghissima dama
ch'egli amava; ma il paese, ed un genere di vita
diverso, avevano per lui l'incantesimo della novità
ed il suo rincrescimento era mitigato dalle ridenti
illusioni della gioventù.
Le porte s'apersero alfine; la carrozza penetrò
lentamente tra folti castagni che impedivan la vista.
Era il viale di cui già s'erano internati Sant'Aubert
ed Emilia nella speranza di trovare un
asilo vicino.
« Che brutti luoghi! » sclamò la contessa; « certo,
voi non contate, signore, restare tutto l'autunno in
questa barbara solitudine. Bisognerebbe aver portata
una bottiglia d'acqua di Lete, affinchè almeno
la rimembranza d'un paese meno sgradevole non
aumentasse la tristezza di questo.
— Io mi regolerò secondo le circostanze, » rispose
il conte; « questa barbara solitudine era l'abitazione
de' miei antenati. »
Il custode del castello insieme ai servi stati mandati[125]
anticipatamente da Parigi, ricevettero il padrone
all'ingresso del portico. Bianca riconobbe che
l'edifizio non era intieramente di stile gotico. La
sala immensa in cui entrarono non era però di gusto
moderno. Un finestrone lasciava vedere un piano
inclinato di verzura, formato dalla cima degli alberi
sul pendìo del colle, ove sorgea il castello. Si
scorgevano al di là le onde del Mediterraneo perdersi,
a mezzogiorno od a levante, nell'orizzonte.
Bianca, nel traversar la sala, si fermò ad osservare
un sì bel colpo d'occhio, ma ne fu presto riscossa
dalla contessa la quale, malcontenta di tutto,
impaziente di rifocillarsi e di riposare, si affrettò
di giungere ad un salotto, adorno di mobili antichissimi,
ma riccamente guarniti di velluto e di
frange d'oro.
Mentre la contessa aspettava qualche rinfresco, il
conte, in compagnia d'Enrico, visitavano l'interno
del castello. Bianca rimase testimone, suo malgrado,
del cattivo umore e del malcontento della matrigna.
« Quanto tempo passaste voi in questo tristo soggiorno? »
chiese la contessa alla moglie del custode,
quando venne ad offrirle il suo omaggio.
— Saranno trent'anni, signora, al dì di san Lorenzo.
— Come avete fatto a starvi così tanto e quasi
sola? Mi fu detto però che il castello è rimasto
chiuso per qualche tempo.
— Sì, signora, qualche mese dopo che il defunto
signor marchese mio padrone fu partito per la
guerra; sono più di venti anni che mio marito ed
io siamo al di lui servizio. Questa casa è così grande
e deserta, che in capo a qualche tempo andammo
ad abitare vicino al villaggio, e venivamo solo tratto
tratto a visitare il castello. Allorchè il mio padrone
finì le sue campagne, avendo preso in avversione
questo soggiorno, non ci tornò più, e non volle che
abbandonassimo la nostra dimora. Ma ohimè! Quanto[126]
è cambiato il castello da quell'epoca! La mia povera
padrona vi abitava col massimo piacere, e mi
ricorderò sempre di quel giorno che arrivò qui dopo
essersi sposata! Com'era bella! Da allora il castello
venne sempre negletto, ed io non passerò più giorni
così felici. »
La contessa parve quasi offesa dai discorsi ingenui
di quella buona donna sui tempi passati, e Dorotea
soggiunse: « Il castello però sarà nuovamente
abitato; ma io non vi starei sola per tutto l'oro
del mondo. »
L'arrivo del conte fece cessare le ciarle della
vecchia. Egli le disse che aveva visitato buona parte
del castello, il quale aveva bisogno di molti risarcimenti
prima di essere abitabile.
« Me ne spiace, » disse la contessa.
— E perchè, signora?
— Perchè questo luogo corrisponderà male a tante
premure. »
Il conte non replicò, e voltossi bruscamente verso
una finestra.
La cameriera della contessa entrò; questa chiese
di essere accompagnata nel suo appartamento, e si
ritirò unitamente alla signora Bearn.
Bianca, profittando della poca luce diurna che restava
ancora, andò a far nuove scoperte. Dopo aver
percorso vari appartamenti, si trovò in una vasta
galleria adorna d'antichissimi quadri e di statue
rappresentanti, a quanto le parve, i suoi antenati.
Cominciava ad annottare, e si affacciò ad una finestra,
ove contemplò con interesse la vista imponente
di quei luoghi meravigliosi, udendo il sordo e lontano
mormorio del mare, ed abbandonandosi così
all'entusiasmo di quella scena affatto nuova per lei.
— Ho io dunque vissuto tanto tempo in questo
mondo, diceva fra sè medesima, senza aver veduto
questo stupendo spettacolo, senza aver gustate queste
delizie! La più umile villana dei beni di mio padre,[127]
avrà veduto fin dall'infanzia il bel colpo d'occhio
della natura, e percorse liberamente queste posizioni
pittoresche, ed io, nel fondo d'un chiostro, rimasi
priva di queste meraviglie, che devono incantare
la vista e rapire tutti i cuori! Com'è mai possibile
che quelle povere monache, quei poveri frati
possano provare un violento fervore, se non vedono
nè sorgere, nè tramontare il sole? Io non ho mai
conosciuto ciò ch'è veramente la devozione fino a stasera.
Fino a questa sera io non aveva mai veduto
il sole lasciare il nostro emisfero. Domani io lo
vedrò sorgere per la prima volta. Com'è possibile
di vivere a Parigi, non vedendo che case oscure e
vie fangose, quando alla campagna si può vedere la
vôlta azzurra del cielo e il verde smalto della
terra? —
Questo soliloquio venne interrotto da un lieve
rumor di passi, ed avendo Bianca domandato chi
fosse, udì rispondersi: « Son io, Dorotea, che vengo
a chiudere le finestre. » Il tuono di voce però col
quale pronunziò queste parole sorprese alquanto
Bianca. « Mi sembrate spaventata; » le disse; « chi
vi ha fatto paura?
— No, no, non sono spaventata, signorina, » rispose
Dorotea titubando. « Io son vecchia e poco
ci vuole per turbarmi. Son lieta però che il signor
conte sia venuto ad abitare in questo castello,
il quale è stato deserto per tanti anni; ora somiglierà
un poco al tempo in cui viveva la mia povera
padrona. » Bianca le domandò da quanto tempo
fosse morta la marchesa. « Ne è già passato tanto ch'io
mi sono stancata di contar gli anni. Il castello da
quell'epoca mi è sempre parso in lutto, e son certa
che i vassalli l'hanno sempre in cuore. Ma voi vi
siete smarrita, signorina. Volete tornare nell'altra
parte della casa? »
La fanciulla domandò da quanto tempo fosse fabbricato
il quartiere in cui si ritrovavano. « Poco[128]
dopo il matrimonio del mio padrone, » rispose Dorotea.
« Il castello era bastantemente grande senza
questo accrescimento. Vi sono nell'antico edifizio
molti appartamenti, di cui si è mai servito. È un'abitazione
principesca; ma il mio padrone la trovava
trista, come lo è infatti. » Bianca le disse di condurla
nel quartiere abitato; Dorotea la fece passare
per un cortile, aprì la gran sala, e vi trovò la signora
Bearn. « Dove siete stata fino ad ora? » le
disse questa. « Cominciava a credere che vi fosse accaduta
qualche avventura sorprendente, e che il gigante
di questo castello incantato, o lo spirito che
vi comparisce, vi avessero gettata da un trabocchetto
in qualche sotterraneo per non lasciarvi uscire
mai più.
— No, » rispose Bianca ridendo; « voi sembrate
tanto amante delle avventure, che io ve le regalo
tutte.
— Ebbene! v'acconsento, purchè un giorno possa
raccontarle.
— Mia cara signora Bearn, » disse Enrico entrando
nella sala, « gli spiriti odierni non sarebbero
tanto scortesi per cercar di farvi tacere. I nostri
spettri son troppo inciviliti per condannare una
signora ad un purgatorio più crudele del loro, qualunque
esso sia. »
La Bearn si mise a ridere; entrò Villefort, e fu
servita la cena. Il conte parlò pochissimo, parve
astratto e fece spesso l'osservazione che dall'epoca
in cui non l'aveva veduto, il castello era molto
cambiato. « Sono scorsi molti anni, » diss'egli, « i
siti sono i medesimi, ma mi fanno un'impressione
ben diversa da quella ch'io provava altre volte.
— Questo luogo vi è parso forse per l'addietro
più piacevole che adesso? » disse Bianca; « mi
pare impossibile. »
Il conte la guardò con sorriso malinconico.
« Era per l'addietro tanto delizioso a' miei occhi,[129]
quanto lo è ora ai vostri. Il paese non è cambiato,
ma ho cambiato io col tempo. L'illusione del mio
spirito godeva alla vista della natura; ora essa è
perduta! Se nel corso della vostra vita, cara Bianca,
voi tornerete in questi luoghi, dopo esserne stata
assente per molti anni, vi rammenterete forse i
sentimenti di vostro padre, ed allora li comprenderete. »
Bianca tacque, afflitta da tali parole, e rivolse le
sue idee all'epoca di cui parlava il conte. Considerando
che chi le parlava allora probabilmente non
esisterebbe più, chinò gli occhi, e sentendoli pregni
di lagrime, prese la mano del padre, gli sorrise con
tenerezza, e andò alla finestra per nascondere l'emozione.
La stanchezza del viaggio obbligò la compagnia
a separarsi di buon' ora. Bianca, traversando una
lunga galleria, si ritirò nel suo appartamento, luogo
spazioso, colle finestre alte, il cui aspetto lugubre
non era acconcio ad indennizzare della posizione quasi
isolata in cui si trovava. I mobili n'erano antichi,
il letto di damasco turchino, guarnito di frange
d'argento. Tutto era per la giovine Bianca oggetto
di curiosità. Prese il lume della donna che l'accompagnava
per esaminare le pitture del soffitto, e
riconobbe un fatto dell'assedio di Troia. Si divertì
un poco a rilevare le assurdità della composizione,
ma quando riflettè che l'artista che l'aveva eseguita,
ed il poeta d'onde aveva ricavato il soggetto
non erano più che fredda cenere, fu colta dalla malinconia.
Diede ordine di essere svegliata prima del sorger
del sole, rimandò la cameriera e volendo dissipare
quell'ombra di tristezza, aprì una finestra, e
si rianimò alla vista della natura. La terra, l'aria
ed il mare, tutto era tranquillo. Il cielo era sereno:
qualche leggero vapore ondeggiava lentamente
nelle più alte regioni, aumentando lo splendore delle[130]
stelle, che scintillavano come tanti soli. I pensieri
di Bianca s'innalzarono involontariamente al grande
Autore di quegli oggetti sublimi. Fece una preghiera
più fervida di quelle non avesse mai fatto sotto le
tristi vôlte del chiostro; poi a mezzanotte si coricò,
e non ebbe che sogni felici. Dolce sonno, conosciuto
soltanto dalla salute, dall'animo contento e
dall'innocenza!
CAPITOLO XXXVI
Bianca dormì assai più dell'ora indicata con tanta
impazienza: la sua cameriera, stanca dal viaggio,
la destò solo per l'ora della colazione. Questo dispiacere
fu tosto dimenticato, quando, aprendo la
finestra, vide da una parte l'ampio mare colorito
dai raggi del mattino, le candide vele delle barche
ed i remi che fendevano le onde; dall'altra, i boschi,
la loro freschezza, le vaste pianure, e le azzurre
montagne che tingevansi dello splendore del
giorno.
Respirando quell'aria pura, le sue guance si colorirono
di porpora, e facendo la sua preghiera:
« Chi ha mai potuto inventare i conventi? » diss'ella;
« chi ha potuto pel primo persuadere ai
mortali di recarvisi, e col pretesto della religione,
allontanarli da tutti gli oggetti che l'ispirano? L'omaggio
d'un cuore riconoscente è quello che ci
chiede Iddio; e quando veggonsi le sue opere, non
si è grati? Non ho mai sentita tanta divozione, in
tutte le ore noiose, trascorse in convento, come nei
pochi minuti che ho passati qui. Io guardo intorno
e adoro Iddio dal fondo del cuore. »
Sì dicendo si ritrasse dalla finestra, e traversando
la galleria, entrò nella sala da pranzo, ove trovò il
padre. Il fulgido sole aveva dissipato la sua tristezza;
il riso ne sfiorava le labbra: parlò alla figlia con
serenità, ed il cuore di lei corrispose a quella dolce[131]
disposizione. Comparvero poco dopo Enrico, la contessa
e madamigella Bearn, e tutta la compagnia
parve risentir l'influenza dell'ora e del luogo.
Si separarono dopo colazione. Il conte si ritirò
nel suo gabinetto coll'intendente. Enrico corse alla
riva per esaminare un battello, di cui dovevano
servirsi l'istessa sera, e vi fece adattare una piccola
tenda. La contessa e madamigella Bearn andarono
a vedere un appartamento moderno costruito
con eleganza. Le finestre guardavano sopra un terrazzo
in faccia al mare, evitando così la vista de'
selvaggi Pirenei.
Bianca intanto si divertiva a vedere le parti dell'edifizio
che non conosceva ancora. La più antica
attirò tosto la di lei curiosità. Salì lo scalone, e
traversando un'immensa galleria, entrò in una fila
di stanze, dalle pareti ornate d'arazzi, o coperte di
cedro intarsiato a colori; i mobili sembravano della
medesima data del castello; gli ampi camini offrivano
la fredda immagine dell'abbandono: tutte quelle
stanze portavano tanto bene l'impronta della solitudine
e della desolazione, che coloro, i cui ritratti
vi erano appesi, ne parevano stati gli ultimi abitatori.
Uscendo di là, si trovò in un'altra galleria, una
delle cui estremità riusciva ad una scala, e l'altra
ad una porta chiusa. Scesa la scala, si ritrovò in
una stanzetta della torre di ponente. Tre finestre
presentavano tre punti di vista diversi e sublimi: al
nord la Linguadoca; a ponente i Pirenei, le cui cime
coronavano il paese; al mezzogiorno, il Mediterraneo
e parte della costa del Rossiglione. Uscì dalla
torre, e scendendo per una scala strettissima, si ritrovò
in un andito oscuro, ove si smarrì. Non potendo
ritrovare il suo cammino, e l'impazienza facendo
luogo al timore, gridò aiuto. Udì camminare
all'estremità dell'andito e vide brillare un lume tenuto
da una persona la quale aprì una porticina con[132]
cautela. Non osando inoltrarsi, Bianca l'osservava
tacendo, ma allorchè vide che la porta si rinchiudeva,
chiamò nuovamente, corse a quella volta, e riconobbe
la vecchia Dorotea.
« Ah! siete voi, cara padroncina? » diss'ella « come
mai poteste venire in questo luogo? » Se Bianca
fosse stata meno occupata dalla sua paura, avrebbe
probabilmente osservato la forte espressione di terrore
e sorpresa che alterava la fisonomia di Dorotea,
la quale la fece passare per un numero infinito
di stanze, che, parevano disabitate da un secolo. Giunte
finalmente alla residenza della custode, Dorotea la
pregò di sedere e rinfrescarsi. Bianca, accettando
l'invito, parlò della bella torre scoperta, e mostrò
il desiderio di appropriarsela. Sia che Dorotea fosse
meno sensibile alle grandi bellezze della natura, o
che l'abitudine glie le avesse reso meno interessanti,
non incoraggì l'entusiasmo di Bianca, la quale, domandò
ove conducesse la porta chiusa in fondo alla
galleria. L'altra rispose che comunicava con una fila
di stanze nelle quali nessuno era entrato da molti
anni.
« La nostra defunta padrona è morta colà, ed io
non ho più avuto il coraggio di penetrarvi. »
Bianca, curiosa di veder quel luogo, si astenne
dal farne domanda a Dorotea, vedendole gli occhi
molli di pianto: poco dopo andò ad abbigliarsi per
il pranzo. Tutta la società si riunì di buon umore,
tranne la contessa, il cui spirito, assolutamente vuoto,
oppresso dall'ozio, non poteva nè renderla felice, nè
contribuire all'altrui contentezza.
L'allegria provata da Bianca nel riunirsi alla sua
famiglia, si moderò allorquando fu sulla riva del
mare, e guardò con paura quella gran distesa di
acque. Da lontano l'avea osservata con entusiasmo;
ma stentò a vincere il timore e seguire il padre in
battello.
Contemplava tacendo il vasto orizzonte, che circoscriveva[133]
solo la vista del mare, una sublime emozione
lottava in lei contro il sentimento del pericolo.
Un lieve zeffiro increspava la superficie dell'acque,
sfiorando le vele ed agitando le frondi delle
foreste che coronavano la costa per molte miglia.
A qualche distanza esisteva in que' boschi un casino
stato in altri tempi l'asilo dei piaceri, e per la
sua posizione sempre interessante e pittoresco. Il
conte vi aveva fatto portare il caffè ed i rinfreschi.
I rematori si diressero a quella parte, costeggiando
le sinuosità della riva, oltre il vasto selvoso promontorio
e la circonferenza di una baia, mentre in
un secondo battello alcuni suonatori facevano echeggiar
i circostanti dirupi di belle melodie. Bianca
non temeva più; una deliziosa tranquillità si era
impossessata di lei, e la faceva tacere. Era troppo
felice per rammentarsi il monastero, e la noia ivi
provata per tanto tempo.
Dopo un'ora di navigazione, presero terra e salirono
per uno stretto sentiero sparso di fiorite zolle.
A poca distanza, e sulla punta di un'eminenza, si
vedova il casino ombreggiato dagli alberi. Benchè
preparato in tutta fretta, esso era bastantemente decente.
Mentre la compagnia prendeva i rinfreschi e
mangiava le frutta, i musicanti interrompevano la
quiete deliziosa di quel luogo isolato. Il casino giunse
perfino ad interessar la contessa, la quale, forse pel
piacere di parlare di cose appartenenti al lusso, si
diffuse a lungo sulla necessità di abbellirlo.
Dopo una passeggiata molto lunga, la famiglia tornò
ad imbarcarsi. La bellezza della sera l'indusse a
prolungare la gita ed avanzarsi nella baia. Una calma
perfetta era succeduta al vento, che fin allora aveva
spinto il battello, ed i marinai diedero mano ai remi.
Bianca si compiaceva nel veder remare; osservava
i cerchi concentrici formati nell'acqua dai colpi, ed
il tremolìo che imprimevano nel quadro del paese
senza sfigurarne l'armonia. Al disopra dell'oscurità[134]
del bosco distinse un gruppo di torricelle tuttavia
illuminate dai raggi del sole, ed in un intervallo di
silenzio della musica udì un coro di voci.
« Che voci son queste? » disse il conte, ascoltando
attentamente; ma il canto cessò, — È l'inno
del vespro, » disse Bianca, « io l'ho inteso in convento. — Noi
siamo dunque vicini ad un monastero? »
disse il conte; ed il battello avendo spuntato
un capo molto alto, videro il convento di Santa
Chiara in fondo ad una piccola baia: il bosco che
lo circondava, lasciava vedere parte dell'edificio, la
porta maggiore, la finestra gotica dell'atrio, il chiostro
ed un lato della cappella; un arco maestoso
che univa anticamente la casa ad un'altra porzione
degli edifizi, allora demolita, restava come una rovina
venerabile staccata da tutto l'edifizio.
Tutto era in profondo silenzio, e Bianca osservava
con ammirazione quell'arco maestoso, il cui effetto
cresceva colle masse di luce e d'ombra, che spandeva
il tramonto coperto di nubi. In quella l'imponente
inno de' vespri ricominciò, accompagnato
dal grave suono dell'organo; poi il coro andò affievolendosi
gradatamente, e si spense quindi affatto.
Mentre erano tutti intenti ad ascoltare con religioso
raccoglimento, videro uscire dal chiostro una processione
di monache vestite di nero con un velo
bianco in testa, passare pel bosco, e girare intorno
al monastero. La contessa fu la prima a rompere
il silenzio. « Quest'inno e queste religiose sono d'una
tristezza che mi opprime, » diss'ella; « comincia a
farsi tardi; ritorniamo al castello, e sarà già notte
prima che noi vi siamo arrivati. » Il conte alzò gli
occhi, e si accorse che una tempesta minacciosa anticipava
l'oscurità. Gli uccelli marini s'aggiravano
sull'onde, vi bagnavan le penne, e fuggivan verso
qualche asilo lontano; i marinai facevan forza di
remi, ma il tuono romoreggiante da lontano, e la
pioggia, che già principiava a cadere, determinarono[135]
il conte a cercar ricovero nel monastero. Il
battello cambiò direzione, ed a misura che la tempesta
si avvicinava a ponente, l'aria diveniva più
oscura, e i frequenti lampi infiammavano la sommità
degli alberi ed i comignoli del convento. L'apparenza
de' cieli allarmò la contessa e la Bearn, le
cui strida ed i pianti inquietarono il conte ed i rematori.
Bianca si teneva in silenzio, ora agitata dal
timore, ora dall'ammirazione: osservava la grandezza
delle nubi, il loro effetto sulla scena, ed ascoltava
gli scrosci della folgore che scuotevano l'aere.
Il battello si fermò in faccia al monastero. Il
conte mandò un servo ad annunziare il suo arrivo
alla superiora e chiederle asilo. Benchè l'ordine di
Santa Chiara fosse fino da quell'epoca poco austero,
le donne sole potevano essere ricevute nel santo
recinto. Il servitore riportò una risposta che spirava
al tempo stesso l'ospitalità e l'orgoglio, ma un orgoglio
nascosto sotto il velo della sommissione. Sbarcarono,
e traversato velocemente il prato a motivo
della pioggia dirotta, furono ricevuti dalla superiora
che prima stese la mano ed impartì la benedizione.
Passarono in una sala, ove trovavansi alcune religiose
tutte vestite di nero e velate di bianco. Il
velo della badessa però era semialzato, e lasciava
scorgere una dolce dignità temperata da cortese
sorriso. Ella condusse la contessa, la Bearn e Bianca
in un salotto, ed il conte con Enrico restarono nel
parlatorio.
La badessa domandò i rinfreschi, ed intanto discorse
colla contessa. Bianca, avvicinandosi ad una
finestra, potè considerare i progressi della burrasca;
le onde del mare, che pochi momenti prima parevano
ancora addormentate, si gonfiavano enormemente,
infrangendosi senza interruzione contro la
costa. Un colore sulfureo circondava le nubi, che
si addensavano a ponente, mentre i lampi illumiminavano
da lontano le rive della Linguadoca: tutto[136]
il resto era avvolto nelle tenebre. In qualche intervallo,
un lampo dorava le ali d'un uccello marino
che volava nelle più alte regioni, o si posava sulle
vele d'una nave in balìa dei marosi. Bianca osservò
per qualche tempo il pericolo di quel bastimento,
sospirando sul destino dell'equipaggio e dei passaggeri.
Infine, l'oscurità divenne completa. Il bastimento
si distingueva appena, e Bianca fu costretta a chiuder
la finestra per l'impeto del vento. La badessa,
avendo esauriti colla contessa tutti i complimenti
di civiltà, ebbe campo di rivolgersi a
Bianca. La loro conversazione venne presto interrotta
dal suono della campana che invitava le monache
alla preghiera, giacchè la burrasca andava
sempre crescendo. I servi del conte erano iti al castello
per far venire le carrozze, le quali giunsero
sul finir della preghiera. La tempesta essendo meno
violenta, il conte tornò al castello colla sua famiglia.
Bianca fu sorpresa di vedere quanto si fosse ingannata
sulla distanza del monastero per le sinuosità
della spiaggia.
La contessa, appena arrivata, si ritirò nel suo
appartamento. Il conte, Enrico e Bianca andarono
nel salotto, ma appena vi furono giunti, udirono,
un colpo di cannone. Il conte riconobbe il segnale
d'un bastimento in pericolo che chiedeva soccorso;
aprì una finestra, ma il mare avvolto nelle tenebre
ed il fracasso della tempesta non lasciavan distinguer
nulla. Bianca si ricordò della nave già veduta,
e ne avvertì tremando suo padre. Di lì a poco udirono
un'altra cannonata, e poterono scorgere al
chiarore d'un lampo una barca agitata dai flutti
spumosi, con una sola vela, e che, ora scomparendo
nell'abbisso, ora sollevandosi sino alle nubi, cercava
di guadagnar la costa. Bianca si attaccò al collo del
padre con uno sguardo doloroso in cui si dipingevano
lo spavento e la compassione. Non eravi bisogno[137]
di questo mezzo per intenerire il conte: egli
guardava il mare con espressione di pietà, ma vedendo
che i battelli non potrebbero resistere alla
burrasca, proibì di arrischiarsi a perdita sicura, e
fece portare molte torce accese sulle punte degli
scogli, a mo' di faro.
Enrico uscì per andar a dirigere i servi, e Bianca
col padre restò alla finestra, di dove si scorgeva
al lume dei baleni il misero bastimento. Ad ogni
cannonata rispondevano i servi alzando ed agitando
le torce, e al debole chiarore dei lampi Bianca credè
vedere nuovamente la nave molto vicino alla riva.
Allora si videro i domestici del conte correre da
tutte le parti avanzarsi sulla punta degli scogli,
chinarsi sporgendo le torce; altri, dei quali non si
distingueva la direzione che al movimento dei lumi,
scendevano per sentieri pericolosi fin sulla spiaggia,
chiamando ad alte grida i marinai, di cui sentivano
i fischi e le fioche voci, che per intervalli si confondevano
col fracasso della burrasca. Quei gridi
inaspettati che partivano dagli scogli, accrescevano
il terrore di Bianca ad un grado insopportabile;
ma il di lei tenero interesse fu in breve sollevato,
quando Enrico arrivò, correndo, a dar la notizia
che il bastimento aveva gettato l'àncora nel fondo
della baia, ma in sì miserando stato, che sarebbesi
forse sommerso prima che l'equipaggio fosse sbarcato.
Il conte fece tosto partire tulle le barche, annunziando
agli stranieri che li avrebbe ricevuti nel
castello. Tra essi eranvi Emilia Sant'Aubert, Dupont,
Lodovico ed Annetta, i quali imbarcatisi a Livorno,
e giunti a Marsiglia, traversavano il golfo
di Lione quando vennero assaliti dalla tempesta.
Furono tutti ricevuti dal conte con grande affabilità.
Emilia avrebbe voluto andare al convento di
Santa Chiara quell'istessa sera, ma egli non volle
permetterglielo.
Il conte ritrovò in Dupont un'antica conoscenza,[138]
e si fecero i più cordiali complimenti. Emilia fu ricevuta
colla più cortese ospitalità, e la cena fu
servita.
L'affabilità naturale di Bianca, e la gioia cui esprimeva
per la salvezza dei forestieri, che aveva sì
sinceramente compianti, rianimarono a poco a poco
gli spiriti di Emilia. Dupont, sciolto dal timore provato
per lei e per sè medesimo, sentiva la differenza
della propria situazione. Uscendo da un mare procelloso,
in procinto d'inghiottirli, si ritrovava in una
bella casa, ove regnavano l'abbondanza ed il gusto,
e nella quale riceveva cortesissima accoglienza.
Annetta intanto raccontava alla servitù i pericoli
sofferti, felicitandosi della propria salvezza e di
quella di Lodovico. In una parola, risvegliò il brio
e l'allegrezza in tutta quella gente. Lodovico era
lieto come lei, ma sapeva contenersi, e procurava
inutilmente di farla tacere. In fine, le risa smoderate
furono intese persino dall'appartamento della
contessa, che mandò a sentire cosa fosse quel chiasso,
raccomandando il silenzio.
Emilia si ritirò di buon'ora per cercare quel riposo,
onde avea tanto bisogno; ma stette un pezzo
senza poter dormire, perchè il di lei ritorno in patria
le ridestava interessanti memorie. I casi occorsi,
i patimenti sofferti dopo la sua partenza, le
si affacciarono con forza, non cedendo che all'immagine
di Valancourt. Sapere ch'essa abitava la
medesima terra, dopo sì lunga separazione, era per
lei una fonte di gioia. Passava quindi all'inquietudine
e all'ansietà, quando considerava lo spazio del
tempo scorso dall'ultima lettera ricevuta, e tutti gli
avvenimenti che, in cotesto intervallo, avrebber potuto
cospirare contro il suo riposo e la sua felicità;
ma l'idea che Valancourt non esistesse più, o che,
se viveva, l'avesse dimenticata, era sì terribile pel
suo cuore, che non potè sopportarla. Risolse d'informarlo
subito il giorno dopo del suo arrivo in[139]
Francia con una lettera. La speranza finalmente di
sapere in breve ch'egli stava bene, ch'era poco lontano
da lei, ed in ispecie che l'amava ancora, calmò
la di lei agitazione: il suo spirito si racchetò, chiuse
gli occhi, e addormentossi.
CAPITOLO XXXVII
Bianca aveva preso tanto interesse per Emilia,
che quando seppe ch'essa voleva andar ad abitare
il convento vicino, pregò il padre d'impegnarla a
prolungare il suo soggiorno nel castello « Voi comprendete
benissimo, » soggiunse, « quanto sarei
contenta di avere una tal compagna. Ora non ho
verun'amica, colla quale io possa leggere o passeggiare.
La signora Bearn è amica soltanto della
mamma. »
Il conte sorrise di quell'ingenua semplicità, che
faceva cedere la figlia alle prime impressioni. Si
propose di dimostrargliene il pericolo a suo tempo;
ma in quel punto applaudì, col suo silenzio, a quella
cordialità che la portava a fidarsi istantaneamente
d'una sconosciuta.
Aveva osservato Emilia con attenzione, e gli era
piaciuta, per quanto poteva comportarlo una sì breve
conoscenza. Il modo con cui Dupont aveagli parlato
di lei, l'aveva confermato nella sua idea; ma vigilantissimo
sulle relazioni della figlia, e intendendo
come Emilia fosse conosciuta al convento di Santa
Chiara, risolse di recarsi a visitare l'abbadessa, e
se le di lei informazioni avessero corrisposto ai suoi
desiderii, voleva invitare Emilia a passar qualche
giorno in casa sua. Aveva in vista, sotto questo
rapporto, più il piacere della figlia, che il desiderio
di far cosa grata all'orfana, ma nulladimeno prendeva
per lei un sincero interesse.
Il dì dopo, Emilia era troppo stanca, e non potè
scendere cogli altri a far colazione. Dupont fu pregato[140]
dal conte, come antico conoscente, di prolungare
il suo soggiorno nel castello. Egli vi acconsentì
volentieri, tanto più che questa circostanza lo
tratteneva presso Emilia. Non poteva in fondo al
cuore alimentare la speranza ch'ella corrispondesse
giammai alla sua passione ma non aveva coraggio
di procurar di vincerla.
Allorchè Emilia fu alquanto riposata, andò a passeggiare
colla novella amica, e fu sensibilissima alle
bellezze di quei punti di vista. Nel vedere il campanile
del monastero, annunziò a Bianca esser quello
il luogo in cui voleva andare a risiedere.
« Ahi » rispose questa sorpresa; « io sono appena
uscita di convento, e voi vi ci volete rinchiudere!
Se sapeste quanto piacere io provo nel passeggiar
qui con libertà, e nel vedere il cielo, i campi
ed i boschi intorno a me, credo che abbandonereste
quest'idea. » Emilia sorrise dell'eloquenza, colla
quale ella si esprimeva, dicendole come non avesse
l'intenzione di chiudersi in monastero per tutta
la vita.
Rientrando in casa, Bianca la condusse alla sua
torre favorita, e nelle antiche stanze già da lei visitate.
Emilia si divertì ad esaminare la distribuzione,
a considerare il genere e la magnificenza dei
mobili ed a paragonarli con quelli del castello di
Udolfo, ch'erano però più antichi e straordinari.
Considerò anche Dorotea che le accompagnava, e
parea quasi tanto antica, quanto gli oggetti che la
circondavano. Parve che la vecchia guardasse Emilia
con interesse, ed anzi l'osservava con tanta attenzione,
che appena intendeva quanto le dicevano.
Emilia, affacciatasi ad una finestra, volse gli sguardi
sulla campagna, e vide con sorpresa molti oggetti,
di cui conservava ancora la memoria: i campi, i
boschi ed il ruscello che aveva traversati con Voisin
una sera, dopo la morte di Sant'Aubert, nel tornare
dal convento alla casa di quel buon vecchio. Riconobbe[141]
Blangy essere il castello che aveva scansato
allora, e sul quale Voisin aveva tenuto discorsi così
strani.
Sorpresa di tale scoperta, ed intimorita senza saperne
il motivo, restò qualche tempo in silenzio, e
rammentossi l'emozione di suo padre al trovarsi
vicino a quella dimora. Anche la musica da lei sentita,
e sulla quale Voisin le aveva fatto un racconto
così ridicolo, le tornò allora in mente. Curiosa di
saperne davvantaggio, domandò a Dorotea se si
sentisse ancora musica a mezzanotte, e se ne conoscesse
l'autore.
« Sì, signorina, » rispose la vecchia, « si sente
tuttavia quella musica, ma non se ne conosce l'autore,
ed io credo che non si saprà mai. Avvi qualcuno
che indovina cos'è.
— Davvero! » sclamò Emilia; « e perchè non
seguitano a far ricerche?
— Ah! signorina, abbiamo cercato anche troppo;
ma chi può seguire uno spirito? »
Emilia sorrise, e rammentandosi quanto avesse
recentemente sofferto per la superstizione, risolse
di resistervi, benchè sentisse suo malgrado un certo
timore mescolarsi alla curiosità. Bianca, che fin allora
aveva ascoltato in silenzio, domandò cosa fosse
questa musica, e da quanto tempo la si sentisse.
« Sempre, dopo la morte della nostra padrona, »
rispose Dorotea. « Ma ciò non c'entra con quel che
voleva dirvi.
— Diteci, ve ne prego, diteci tutto, » rispose
Bianca. « Ho preso molto interesse a quel che mi
hanno raccontato suor Concetta e suor Teresa in
convento sulle apparizioni.
— Voi non avete mai saputo, o signorina, per
qual motivo fummo costretti di uscire dal castello
per andar ad abitare in quella casuccia? » continuò
Dorotea.
— No, al certo, » rispose Bianca impaziente.[142]
— Nè la ragione, per la quale il signor marchese... »
Qui titubò, e cambiò discorso; ma la curiosità
di Bianca era destata; ella sollecitò la vecchia
a continuar il suo racconto, ma non potè indurvela.
Era dunque evidente ch'essa s'allarmava
della sua imprudenza.
« So bene, » disse Emilia sorridendo, « che tutte
le case antiche sono frequentate dagli spiriti. Vengo
da un teatro di prodigi, ma disgraziatamente, dopo
che ne uscii, n'ebbi la spiegazione. »
Bianca taceva, e Dorotea stava seria e sospirava.
Emilia, rammentando lo spettacolo veduto in una
camera di Udolfo, e, per una bizzarra relazione,
le parole allarmanti lette accidentalmente in una
delle carte bruciate per cieca obbedienza agli ordini
paterni, fremeva al significato che sembrava
avessero, quasi quanto all'orribile oggetto da lei scoperto
sotto il velo funesto.
Bianca intanto, non potendo indurre Dorotea a
spiegarsi di più, la pregò, passando vicino alla porta
chiusa, di farle vedere tutti gli appartamenti.
« Cara signorina, » rispose la custode, « vi ho
già dette le mie ragioni per non aprire quella stanza.
Non vi sono più entrata dopo la morte della mia
cara padrona: quella camera mi affliggerebbe troppo:
per carità dispensatemene.
— Sì, certo, » rispose Bianca, « se tal è il vostro
vero motivo.
— Pur troppo è l'unico, » disse la vecchia. « Noi
l'amavamo tanto, ed io la piangerò sempre. Il tempo
vola sì rapido! Sono molti anni ch'è morta, eppur
mi ricordo, come se fosse oggi, di tutto quel che
accadde allora. Molte cose nuove mi sfuggirono dalla
memoria; ma le antiche le vedo come in uno specchio. »
Poi, avanzandosi nella galleria, e guardando
Emilia, soggiunse: « Questa signorina mi rammenta
la signora marchesa: mi ricordo ch'era fresca come
lei ed aveva il medesimo sorriso. Povera donna!
Com'era allegra quando fece il suo ingresso qui![143]
— Che! forse non lo fu anche in seguito? » disse
Bianca.
Dorotea scosse la testa. Emilia l'osservava, e sentivasi
penetrata da vivo interesse. « Se ciò non vi
affligge, » disse Bianca, « fateci la grazia di raccontare
qualcosa della marchesa.
— Signora, » rispose Dorotea, « se voi ne sapeste
quanto me, le trovereste troppo penose, e ve ne
pentireste. Vorrei cancellarne l'idea sulla mia memoria,
ma è impossibile... Io vedo sempre la mia
cara padrona al suo letto di morte, vedo i suoi
sguardi e mi rammento i suoi discorsi. Dio! che
scena terribile!
— Che le accade dunque di sì terribile?
— Ah! la morte non è dunque abbastanza terribile? »
La vecchia non rispose ad alcuna delle interrogazioni
di Bianca. Emilia, osservando che le spuntavano
le lacrime, cessò d'importunarla, e procurò
di attirare l'attenzione della sua giovine amica su
qualche punto del giardino. Il conte, la contessa e
Dupont vi stavano passeggiando, ed esse li raggiunsero.
Quando il conte vide Emilia, le andò incontro, e
la presentò alla contessa in un modo così gentile,
che le rammentò l'affabilità del proprio genitore.
Prima di aver finito i suoi ringraziamenti per
l'ospitalità ricevuta, ed espresso il desiderio di recarsi
tosto al convento, fu interrotta da un invito
pressantissimo di prolungare il di lei soggiorno nel
castello. Il conte e la contessa ne la pregarono con
tanta sincerità, che malgrado il desiderio che aveva
di rivedere le amiche del monastero, e sospirare
nuovamente sulla tomba dell'amato padre, acconsentì
di restare per qualche giorno. Scrisse intanto alla
badessa per informarla del suo arrivo, e pregarla
di riceverla nel convento come educanda. Scrisse
parimente a Quesnel ed a Valancourt, e siccome non[144]
sapeva ove indirizzare precisamente quest'ultima
lettera, la diresse in Guascogna al fratello del cavaliere.
Verso sera, Bianca e Dupont accompagnarono Emilia
alla casa di Voisin; nell'avvicinarsene, provò una
specie di piacere misto ad amarezza. Il tempo aveva
calmato il suo dolore, ma la perdita fatta non poteva
cessare di esserle sensibile; si abbandonò con
dolce tristezza alle memorie che le rammentava
quel luogo. Voisin viveva ancora, e sembrava godere,
come in passato, della placida sera di una vita
senza rimorso. Era seduto innanzi alla porta della
sua casa, compiacendosi della vista dei nipotini, che
scherzavano intorno a lui, e di cui ora il suo riso,
ora le sue parole eccitavano l'emulazione. Riconobbe
subito Emilia, e mostrò gran gioia nel rivederla,
annunciandole che, dopo la sua partenza, la di lui
famiglia non aveva sofferto affanni o perdite funeste.
Emilia non ebbe coraggio di entrare nella camera
ov'era morto Sant'Aubert, e dopo un'ora di conversazione,
tornò al castello.
Nei primi giorni che soggiornò a Blangy, osservò
con pena la malinconia profonda, che assorbiva
troppo spesso Dupont. Emilia compiangeva l'acciecamento
che lo tratteneva vicino a lei, e risolse di
ritirarsi al convento appena potesse farlo. L'abbattimento
dell'amico non tardò ad inquietare il conte,
e Dupont gli confidò finalmente il segreto del suo
amore senza speranza. Villefort si limitò a compiangerlo,
ma decise fra sè di non trascurare veruna
occasione per favorirlo. Allorchè conobbe la pericolosa
situazione di Dupont, si oppose debolmente al
desiderio da lui esternato di partire da Blangy l'indomani;
gli fece però promettere di venire a passarvi
qualche tempo, quando il suo cuore fosse stato
più tranquillo. Emilia, che pur non potendo incoraggiare
il suo amore, ne stimava le buone qualità,
ed era gratissima ai di lui servigi, provò grand'emozione[145]
quando lo vide partire per la Guascogna.
Si separò da lei con tal espressione di dolore, che
il conte s'interessò vie più per l'amico.
Pochi giorni dopo, anche Emilia partì dal castello,
avendo però dovuto promettere al conte ed
alla contessa di venire spesso a trovarli. La badessa
la ricevè colla materna bontà di cui le aveva già
data prova, e le monache con nuovi segni d'amicizia.
Quel convento, a lei sì noto, risvegliò le sue
tristi idee; ringraziava il Supremo Motore di averla
fatta sfuggire a tanti pericoli, sentiva il prezzo dei
beni che le restavano, e sebbene bagnasse sovente
la tomba di suo padre delle sue lacrime, non sentiva
più però la medesima amarezza.
Qualche tempo dopo il suo arrivo nel monastero,
Emilia ricevè una lettera dello zio Quesnel in risposta
alla sua, e alle domande su' suoi beni, che
egli aveva preteso amministrare nella di lei assenza.
Erasi specialmente informata sull'affitto del castello
della valle, che desiderava abitare, se le sue sostanze
glie lo permettevano. La risposta di Quesnel fu secca
e fredda come se l'aspettava; non esprimeva nè interesse
per i di lei patimenti, nè piacere perchè ne
fosse sfuggita. Quesnel non perdè l'occasione per
rimproverarle il suo rifiuto alle nozze del conte Morano,
cui cercava rappresentare come ricco e uomo
d'onore; declamava con veemenza con quell'istesso
Montoni, al quale fin allora, erasi riconosciuto tanto
inferiore; era laconico circa gl'interessi pecuniari
di Emilia, avvertendola però che l'affitto del castello
della valle spirava fra poco; non l'invitava ad
andare da lui, ed aggiungeva che, nello stato meschino
della sua sostanza, avrebbe fatto benissimo
a restare per qualche tempo a Santa Chiara. Non
rispondeva nulla alle di lei domande sulla sorte della
povera Teresa, la vecchia serva del padre suo. In
un poscritto, Quesnel, parlando di Motteville, nelle
cui mani Sant'Aubert aveva posto la maggior parte[146]
del suo patrimonio, le annunziava che i di lui affari
stavano per accomodarsi, e ch'essa ne ritirerebbe
più di quel che avrebbe potuto aspettarsi. La lettera
conteneva parimente una cambiale a vista per
riscuotere una modica somma da un mercante di
Narbona.
La tranquillità del monastero, la libertà statale
accordata di passeggiare sul lido e pei boschi circonvicini,
tranquillarono a poco a poco lo spirito
di Emilia, la quale però sentivasi inquieta a proposito
di Valancourt, ed impaziente di riceverne una
risposta.
FINE DEL TERZO VOLUME
Milano 1875 — Tip. Ditta Wilmant.
NOTA DEL TRASCRITTORE
La presente edizione del libro è una traduzione abbreviata e priva di quasi tutte le parti in poesia. La versione originale completa in inglese è disponibile su Project Gutenberg:
The mysteries of Udolpho.
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annnotazione minimi errori tipografici. In particolare, l'uso di
trattini e virgolette per introdurre il discorso diretto, molto
irregolare e incoerente, è stato per quanto possibile regolarizzato. Un indice è stato inserito all'inizio.
I seguenti refusi sono stati corretti [tra parentesi il testo originale]:
P. 9 - | vide uscire Cavignì, Verrezzi [Verezzi] e Bertolini |
20 - | spaventata al maggior [maggiar] segno. |
35 - | quanto voi state in [in in] pena |
38 - | mi ha dato questa chiave, incaricandomi [incarincandomi] |
48 - | violente [violenti] e diverse passioni |
50 - | se [se se] si fosse di nuovo mostrata |
113 - | quest'articolo essenziale [esenziale]. |
142 - | le parole allarmanti lette accidentalmente [accidentalmante] |
Grafie alternative mantenute:
- balia / balìa
- colta / côlta
- follia / follìa
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