The Project Gutenberg eBook of I misteri del castello d'Udolfo, vol. 1



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Title: I misteri del castello d'Udolfo, vol. 1



Author: Ann Ward Radcliffe



Release date: September 20, 2010 [eBook #33781]



Language: Italian



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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I MISTERI DEL CASTELLO D'UDOLFO, VOL. 1 ***

I MISTERI

DEL

CASTELLO D'UDOLFO


 
 


DI

ANNA RADCLIFFE


 
 


VOL. I


 
 


MILANO

Oreste Ferrario

Sotterranei Galleria Nuova, via Silvio Pellico, 6, scala n. 18

e Santa Margherita






... lacerò un fazzoletto per bendargli la piaga...
Cap. IV





SOMMARIO


Capitolo I


Capitolo II


Capitolo III


Capitolo IV


Capitolo V


Capitolo VI


Capitolo VII


Capitolo VIII


Capitolo IX


Capitolo X


Capitolo XI




[5]


CAPITOLO I


Sulle sponde della Garonna, nella provincia di
Guienna, esisteva nell'anno 1584 il castello di Sant'Aubert:
dalle sue finestre scoprivansi i ricchi e
fertili paesi della Guienna, che si estendevano lungo
il fiume, coronati da boschi, vigne ed oliveti. A
mezzodì, la prospettiva era circoscritta dalla massa
imponente dei Pirenei, le cui cime, or celate nelle
nubi, ora lasciando scorgere bizzarre forme, si mostravano
talvolta, nude e selvagge, in mezzo ai vapori
turchinicci dell'orizzonte, e talora scoprivano
le loro pendici, lungo le quali dondolavano grandi
abeti neri, agitati dai venti. Spaventosi precipizi
contrastavano colla ridente verzura de' prati e delle
selve circostanti, e lo sguardo affaticato dall'aspetto
di quelle voragini, si riposava alla vista degli armenti
e delle capanne dei pastori. Le pianure della
Linguadoca si estendevano a tiro di occhio a tramontana
ed a levante, e l'orizzonte confondevasi a
ponente colle acque del golfo di Guascogna.


Sant'Aubert, accompagnato dalla sposa e dalla figlia,
andava spesso a passeggiare sulle sponde della
[6]Garonna; egli si compiaceva di ascoltare il mormorio
armonioso delle sue acque. Aveva altre volte conosciuto
un altro genere di vivere ben diverso da
questa vita semplice e campestre; aveva a lungo
vissuto nel vortice del gran mondo, ed il quadro
lusinghiero della specie umana, formatosi dal suo
giovine cuore, aveva subìto le tristi alterazioni dell'esperienza.
Nondimeno, la perdita delle sue illusioni
non aveva nè scosso i suoi principii, nè raffreddata
la sua benevolenza: aveva abbandonata la
società piuttosto con pietà che con collera, e si era
limitato per sempre al dolce godimento della natura,
ai piaceri innocenti dello studio, ed in fine all'esercizio
delle domestiche virtù.


Discendeva da un cadetto d'illustre famiglia; ed
i suoi genitori avrebbero desiderato che, per riparare
alle ingiurie della fortuna, egli avesse ricorso a
qualche ricco partito, o tentato d'innalzarsi colle mene
dell'intrigo. Per questo ultimo progetto, Sant'Aubert
aveva troppo onore e troppa delicatezza; e, quanto
al primo, non aveva bastante ambizione per sacrificare
all'acquisto delle ricchezze ciò ch'esso chiamava
felicità. Dopo la morte del padre sposò una
fanciulla amabile, eguale a lui per nascita, non meno
che pei beni di fortuna. Il lusso e la generosità di
suo padre avevano talmente oberato il patrimonio
ricevuto in retaggio, che fu costretto di alienarne
porzione. Qualche anno dopo il suo matrimonio, lo
vendè a Quesnel, fratello di sua moglie, e si ritirò
in una piccola terra di Guascogna, dove la felicità
coniugale ed i doveri paterni dividevano il suo tempo
colle delizie dello studio e della meditazione.


Da lunga pezza questo luogo eragli caro; vi era
venuto spesso nella sua infanzia, e conservava ancora
l'impressione dei piaceri ivi gustati; non aveva
obliato nè il vecchio contadino incaricato allora d'invigilare
sopra di lui, nè i suoi frutti, nè la sua
crema, nè le di lui carezze. Que' verdi prati, ove,
pieno di salute, di gioia e di gioventù, aveva scherzato[7]
tanto in mezzo ai fiori; i boschi, la cui fresca
ombra aveva inteso i suoi primi sospiri, e mantenuta
la sua riflessiva malinconia, che divenne in
seguito il tratto dominante del suo carattere; le passeggiate
agresti pe' monti, i fiumi che aveva traversato,
le pianure vaste e immense come la speranza
dell'età giovanile! Sant'Aubert non si rammentava
se non con entusiasmo e con rincrescimento questi
luoghi abbelliti da tante rimembranze. Alla perfine,
sciolto dal mondo venne a fissarvi il suo soggiorno
ed a realizzare così i voti di tutta la sua vita.


Il castello, nello stato d'allora, era molto ristretto;
un forestiero ne avrebbe ammirato senza dubbio
l'elegante semplicità e la bellezza esteriore; ma vi
abbisognavano lavori considerevoli per farne l'abitazione
d'una famiglia. Sant'Aubert aveva una specie
di affezione per quella parte d'edificio che aveva
conosciuta il passato; e non volle mai che ne fosse
alterata una sol pietra, dimodochè la nuova costruzione,
adattata allo stile dell'antica, fece del tutto
una dimora più comoda che ricercata. L'interno,
abbandonato alle cure della signora Sant'Aubert, le
somministrò occasione di mostrare il suo gusto; ma
la modestia che caratterizzava i suoi costumi, le fu
sempre di guida negli abbellimenti da lei prescritti.


La biblioteca occupava la parte occidentale del
castello, ed era piena delle migliori opere antiche
e moderne. Questo appartamento guardava su di un
boschetto che, piantato lungo un dolce clivo, conduceva
al fiume, ed i cui alti e grossi alberi formavano
un'ombra folta e misteriosa. Dalle finestre
si scopriva, al disopra delle pergole, il ricco paese
che estendevasi all'occidente, e si scorgevano a sinistra
gli orribili precipizi dei Pirenei. Vicino alla
biblioteca eravi un terrazzo munito di piante rare
e preziose. Lo studio della botanica era uno dei
divertimenti di Sant'Aubert, ed i monti vicini, che
offrono tanti tesori ai naturalisti, lo trattenevano[8]
spesso giornate intiere. Nelle sue gite, veniva qualche
volta accompagnato da sua moglie, e talvolta
dalla figlia: un panierino di vimini per riporvi le
piante, un altro pieno di qualche alimento, che non
si sarebbe potuto trovare nelle capanne dei pastori,
formavano il loro equipaggio; scorrevano così i luoghi
più selvaggi, le vedute più pittoresche, e la loro
attenzione non era concentrata totalmente nello studio
delle menome opere della natura, che non permettesse
loro d'ammirarne egualmente le bellezze grandi
e sublimi. Stanchi di scavalcar rupi, ove pareano
essere stati condotti dal solo entusiasmo, e dove
non si scorgevano sul musco altre orme fuor quelle
del timido camoscio, cercavano essi un ricovero in
que' bei templi di verzura, nascosti in seno delle
montagne. All'ombra de' larici e degli alti pini, gustavano
di una refezione frugale, bevendo l'acque
di una sorgente vicina, e respiravano con delizia
gli effluvi delle varie piante smaltanti la terra, o
pendenti a festoni dagli alberi e dalle rupi.


A sinistra del terrazzo, e verso le pianure della
Linguadoca, eravi il gabinetto di Emilia, benissimo
assortito di libri, di disegni, di strumenti musicali,
di qualche garrullo uccelletto e di fiori i più ricercati;
quivi, occupata nello studio delle belle arti,
essa le coltivava con successo, giacchè molto convenivano
al gusto ed al carattere di lei. Le sue naturali
disposizioni secondate dalle istruzioni dei genitori,
avevano facilitato i suoi rapidi progressi. Le
finestre di questa stanza si aprivano fino al suolo
sul giardino che circondava la casa; e viali di mandorli
di fichi, di acacie e di mirti fioriti, conducevano
assai lungi la vista fino ai verdi margini irrigati
dalla Garonna.


I contadini di questo bel clima, finiti i lavori,
venivano spesso verso sera a ballare sulle sponde
del fiume. Il suono animato della musica, la vivacità
dei loro passi il brio delle movenze, il gusto[9]
ed il capriccioso abbigliamento delle villanelle, dava
a tutta questa scena un carattere interessantissimo.


La facciata del castello, dalla parte di mezzogiorno,
era situata di fronte alle montagne. Al pian terreno
eravi una gran sala e due comodi salotti. Il pian
superiore, chè eravene un solo, era distribuito in
camere da letto, meno una sola stanza, munita d'un
largo verone, ove si faceva ordinariamente la colazione.


Nell'aggiustamento esterno, l'affezione di Sant'Aubert
per il teatro della sua infanzia, aveva talvolta
sacrificato il gusto al sentimento. Due vecchi
larici ombreggiavano il castello, e ne impedivano
alquanto la vista; ma Sant'Aubert diceva qualche
volta, che se li vedesse seccare, avrebbe forse la
debolezza di piangerli. Piantò vicino a questi larici
un boschetto di faggi, di pini e di frassini alpini;
su di un alto terrazzo, al disopra del fiume, eranvi
parecchi aranci e limoni, i cui frutti, maturando tra
i fiori, esalavano nell'aere un ammirabile e soave
profumo.


Unì loro alcuni alberi d'un'altra specie, e colà,
sotto un folto platano le cui frondi stendevansi fino
sul fiume, amava sedere nelle belle sere estive tra
la consorte ed i figliuoli. Traverso il fogliame vedeva
il sole tramontar nel lontano orizzonte, ne
scorgeva gli ultimi raggi risplendere, venir meno e
confondere a poco a poco i purpurei riflessi colle
tinte grige del crepuscolo. Ivi pure amava egli leggere
e conversare colla moglie, a far giuocare i figliuoletti,
ad abbandonarsi ai dolci affetti, compagni
consueti della semplicità e della natura. Spesso pensava,
colle lagrime agli occhi, come que' momenti
fossero le cento volte più soavi de' piaceri rumorosi
e delle tumultuose agitazioni del mondo. Il suo
cuore era contento; chè avea il raro vantaggio di
non desiderar maggior felicità di quella onde fruiva.
La serenità della coscienza comunicavasi alle sue[10]
maniere, e, per uno spirito come il suo, dava incanto
alla stessa felicità.


La caduta totale del giorno non lo allontanava
dal suo platano favorito; amava quel momento in
cui gli ultimi chiarori si spengono, in cui le stelle
vengono a scintillare l'una dopo l'altra nello spazio,
e a riflettersi nello specchio delle acque; istante
patetico e dolce, in cui l'anima delicata schiudesi
ai più teneri sentimenti, alle contemplazioni più
sublimi. Quando la luna, cogli argentei raggi, traversava
il fronzuto fogliame, Sant'Aubert restava
ancora; e spesso si faceva portare, sotto quell'albero
a lui caro, i latticini ed i frutti che componevano
la sua cena. Allorchè la notte faceasi più cupa, l'usignuolo
cantava, ed i di lui armoniosi accenti risvegliavangli
nel fondo dell'anima una dolce malinconia.


La prima interruzione della felicità che aveva conosciuta
nel suo ritiro, fu cagionata dalla perdita
di due maschi: essi morirono in quell'età in cui
le grazie infantili hanno tanta vaghezza; e sebbene,
per non affliggere soverchiamente la sposa, egli
avesse moderata l'espressione del suo dolore, e si
fosse sforzato di sopportarlo con fermezza, non
aveva filosofia bastante da reggere alla prova di simile
sciagura. Una figlia era ormai la sua unica
prole. Invigilò attentamente sullo sviluppo del di
lei carattere, e si occupò del continuo a mantenerla
nelle disposizioni più adatte a formarne la felicità.
Ella aveva annunziato fin dall'infanzia una rara delicatezza
di spirito, affezioni vive ed una docile benevolenza;
ma lasciava travedere nondimeno troppa
suscettività per godere di una pace durevole: avanzandosi
alla pubertà, questa sensibilità diede un
tuono riflessivo ai suoi pensieri, e una dolcezza
alle maniere, che, aggiungendo grazia alla beltà, la
rendevano molto più interessante alle persone che
l'avvicinavano. Ma Sant'Aubert aveva troppo buon
senso per preferire le attrattive alla virtù; egli[11]
era troppo avveduto per non sapere quanto queste
siano pericolose a chi le possiede, e non poteva
esserne molto contento. Procurò dunque di fortificare
il di lei carattere, di suefarla a signoreggiare
le inclinazioni ed a sapersi dominare: le insegnò a
non cedere tanto facilmente alle prime impressioni,
e a sopportare con calma le infinite contrarietà della
vita. Ma per insegnarle a vincere sè medesima, ed
a prendere quel grado di dignità tranquilla, che sol
può domare le passioni, e innalzarci al disopra dei
casi e delle disgrazie, aveva bisogno egli stesso di
qualche coraggio, e non senza grande sforzo parea
vedere tranquillamente le lacrime ed i piccoli disgusti,
che la sua previdente sagacità cagionava talvolta
ad Emilia.


Questa interessante fanciulla somigliava alla madre;
ne aveva la statura elegante, i delicati lineamenti;
aveva al par di lei, gli occhi azzurri, languidi
ed espressivi; ma per quanto belle ne fossero
le fattezze, l'espressione però della sua fisonomia,
mobile come gli oggetti che la colpivano, dava soprattutto
al di lei volto un'attrattiva irresistibile.


Sant'Aubert coltivò il suo spirito con estrema
cura. Le comunicò una tintura delle scienze, ed una
esatta cognizione della più squisita letteratura. Le
insegnò il latino e l'italiano, desiderando che potesse
leggere i sublimi poemi scritti in queste due
lingue. Annunziò essa, fino dai primi anni, un gusto
deciso per le opere di genio, a questi principii
aumentavano il diletto e la soddisfazione di Sant'Aubert. — Uno
spirito coltivato, — diceva egli, — è
il miglior preservativo al contagio del vizio e
delle follie: uno spirito vuoto ha sempre bisogno
di divertimenti, e s'immerge nell'errore per evitare
la noia. Il movimento delle idee, forma, della riflessione,
una sorgente di piaceri, e le osservazioni
fornite dal mondo medesimo, compensano i pericoli
delle tentazioni ch'esso offre. La meditazione e lo
studio sono necessarie alla felicità, tanto in campagna[12]
quanto in città; in campagna esse prevengono
i languori di un'apatia indolente, e somministrano
nuovi godimenti pel gusto e l'osservazione delle
grandi cose; in città, esse rendono la distrazione
meno necessaria, e per conseguenza meno pericolosa. —


La di lei passeggiata favorita era una peschiera
situata in un boschetto vicino, sulla riva di un ruscello,
che, scendendo dai Pirenei, spumava a traverso
gli scogli, e fuggiva in silenzio sotto l'ombra
degli alberi; da questo sito si scuoprivano fra le
fronzute selve, i più bei siti dei paesi circonvicini;
l'occhio si smarriva in mezzo alle eccelse rupi, alle
umili capanne dei pastori, ed alle vedute ridenti
lungo il fiume: in questo luogo delizioso si recava
bene spesso anche Sant'Aubert e sua madre a godere
il rezzo ne' calori estivi, e verso sera, all'ora
del riposo, ci veniva a salutare il silenzio e l'oscurità,
ed a prestar ascolto ai queruli canti della tenera
Filomela; talvolta ancora portava la musica;
l'eco svegliavasi al suono dell'oboe, e la voce melodiosa
di Emilia addolciva i lievi zeffiri che ricevevan
e portavano lunge da lei la sua espressione
ed i suoi accenti.


Un giorno, Emilia lesse in un canto del tavolato
i versi seguenti scritti col lapis:



Ingenui figli del sentir più puro

Che sì poco spiegate il mio dolore,

Versi miei, se avverrà che in questo oscuro

Sacro alla pace taciturno orrore

Un oggetto gentil mai si presenti,

L'amor mio gli narrate e i miei tormenti.

Quel dì che nel mio core il suo sembiante

Le amorose destò prime scintille,

Ah! fatal giorno! ahi sventurato amante!

Contro il vivo fulgor di sue pupille

Indifeso mi stava e senza tema

Della vaga di lor possanza estrema.

E ripiena d'angelico diletto

Già sentia palpitar l'alma nel seno:

Ma l'inganno svanì; l'amato oggetto

Da me volse le piante in un baleno,

E lasciommi in partir tutti i più forti

D'invincibile amor crudi trasporti.

[13]

Questi versi non erano indirizzati ad alcuno:
Emilia non poteva applicarli a sè medesima, sebbene
fosse, senza alcun dubbio, la ninfa di quelle
boscaglie: ella scorse rapidamente il circolo ristretto
delle sue conoscenze, senza poterne fare l'applicazione,
e restò nell'incertezza: incertezza molto meno
penosa per lei, di quello sarebbe stata per uno spirito
più ozioso, non avendo occasione di occuparsi
a lungo d'una bagattella, e d'esagerarne l'importanza
pensandovi del continuo. L'incertezza, che
non le permetteva di supporre che quei versi le
fossero indirizzati, non l'obbligava neppure di adottare
l'idea contraria; ma il piccolo moto di vanità
da lei sentito non durò molto, e ben presto lo dimenticò
per i suoi libri, i suoi studi e le sue buone
opere.


Poco tempo dopo, la sua inquietudine fu eccitata
da un'indisposizione del padre; esso fu colto dalla
febbre, che, senza essere molto pericolosa, non
mancò di dare una scossa sensibile al di lui temperamento.
La signora Sant'Aubert e sua figlia lo
assistettero con molta premura, ma la sua convalescenza
fu lenta, e mentre egli ricuperava la salute,
la di lui sposa perdeva la sua. Appena fu ristabilito,
la prima visita fu alla peschiera: un paniere di provvisioni,
i libri, ed il liuto di Emilia vi furono mandati
dapprima; della pesca non se ne parlava, perchè
Sant'Aubert non prendeva verun piacere alla
distruzione degli esseri viventi.


Dopo un'ora di passeggio e di ricerche botaniche,
fu servito il pranzo: la soddisfazione provata pel
piacere di rivedere ancora quel luogo favorito, riempì
i commensali del più dolce sentimento: la cara famiglia
parea ritrovare la felicità sotto quelle ombre
beate. Sant'Aubert discorrea con singolar allegria:
ogni oggetto ne rianimava i sensi; l'amabile frescura,
il diletto che si prova alla vista della natura
dopo i patimenti d'una malattia ed il soggiorno di[14]
una camera da letto, non ponno del certo nè comprendersi,
nè descriversi nello stato di perfetta salute;
la verzura delle selve e de' pascoli, la varietà
de' fiori, l'azzurra vôlta de' cieli, l'olezzo dell'aere,
il lene murmure delle acque, il ronzio de' notturni
insetti, tutto sembra allora vivificar l'anima e dar
pregio all'esistenza. La Sant'Aubert, rianimata dalla
gaiezza e dalla convalescenza dello sposo, obliò
la sua indisposizione personale: passeggiò pe' boschi,
e visitò le situazioni deliziose di quel ritiro: conversava
essa col marito e colla figlia, e riguardavali
spesso con un grado di tenerezza che le faceva
versar lagrime. Sant'Aubert, accortosene, le rimproverò
teneramente la sua emozione: ella non potè
che sorridere, stringere la di lui mano, quella di
Emilia, e piangere davvantaggio. Sentì egli che
l'entusiasmo del sentimento le diveniva quasi penoso;
una trista impressione s'impadronì dei suoi sensi,
e gli sfuggirono sospiri. — Forse, diceva tra sè,
forse questo momento è il termine della mia felicità,
come ne è il colmo; ma non abbreviamolo con dispiaceri
anticipati; speriamo che non avrò sfuggita
la morte per avere da piangere io stesso i soli esseri
interessanti che me la fanno temere. —


Per uscire da questi cupi pensieri, o forse piuttosto
per intrattenervisi, pregò Emilia di andar a
cercare il liuto, e suonargli qualche bel pezzo di tenera
musica. Nell'avvicinarsi alla peschiera, essa fu
sorpresa di sentire le corde del suo strumento toccate
da una mano maestra, ed accompagnata da un
canto lamentevole, che cattivò la di lei attenzione.
Ascoltò in profondo silenzio, temendo che un indiscreto
movimento non la privasse d'un suono o non
interrompesse il suonatore. Tutto era tranquillo nel
padiglione, e non sembrando che ci fosse alcuno,
ella continuò ad ascoltare; ma finalmente la sorpresa
e il diletto fecero luogo alla timidezza; questa aumentò
pella rimembranza dei versi scritti a matita,[15]
da lei già veduti, e titubò se doveva o no ritirarsi
all'istante.


Nell'intervallo, la musica cessò; Emilia riprese
coraggio, e si avanzò, sebben tremando, verso la
peschiera, ma non ci vide nessuno: il liuto giaceva
sul tavolino, e tutto il resto stava come ce lo aveva
lasciato. Emilia principiò a credere di avere inteso
un altro istrumento, ma si ricordò benissimo di
aver lasciato, nel partire, il suo liuto vicino alla finestra;
si sentì agitata senza saperne il motivo;
l'oscurità, il silenzio di quel luogo, interrotto sol
dal lievissimo tremolio delle foglie, aumentò il suo
timore infantile; volle uscire, ma si accorse che si
indeboliva, e fu obbligata a sedere; mentre procurava
di riaversi, i suoi occhi incontraron di nuovo
i versi scritti col lapis; sussultò come se avesse
veduto uno straniero, poi sforzandosi di vincere il
terrore, alzossi e si avvicinò alla finestra; altri
versi erano stati aggiunti ai primi, e questa volta
il suo nome ne formava il soggetto.


Non le fu più possibile di dubitare che l'omaggio
non fosse a lei diretto, ma non le fu meno impossibile
d'indovinarne l'autore: mentre ci pensava,
sentì il romore di qualche passo dietro l'edifizio;
spaventata, prese il liuto, fuggì ed incontrò i genitori
in un sentieruzzo lungo la radura.


Salirono tutti insieme sopra un poggetto coperto
di fichi, d'onde si godeva il più bel punto di vista
delle pianure e delle valli della Guascogna: sedettero
sull'erba, e mentre i loro sguardi abbracciavano
il grandioso spettacolo, respiravano in riposo
i dolci profumi delle piante sparse in quel luogo
incantevole. Emilia ripetè le canzoni più gradite ai
genitori, e l'espressione con cui le cantò ne raddoppiò
il diletto. La musica e la conversazione ve
li trattennero fino all'imbrunire: i candidi veli che
segnavan di sotto a' monti il veloce corso della Garonna
avean cessato d'esser visibili; era un'oscurità[16]
più malinconica che trista. Sant'Aubert e la sua
famiglia si alzarono lasciando con dispiacere quel
sito. Ahimè! La signora Sant'Aubert ignorava come
non dovesse ritornarvi mai più!


Giunta alla peschiera, essa si accorse di aver
perduto un braccialetto, che si era tolto pranzando,
ed avea lasciato sulla tavola, nell'andare al passeggio.
Fu cercato con molta premura, specialmente da
Emilia, ma invano, e convenne rinunziarvi. La Sant'Aubert
aveva in gran pregio questo braccialetto,
perchè conteneva il ritratto di sua figlia; e questo
ritratto, fatto da poco, era di perfettissima somiglianza.
Quando Emilia fu certa di tal perdita, arrossì,
e divenne pensierosa. Un estraneo si era adunque
introdotto nella peschiera in loro assenza; il
liuto smosso ed i versi letti non le permettevano di
dubitarne: si poteva dunque concludere con fondamento,
che il poeta, il suonatore ed il ladro erano
la medesima persona. Ma sebbene que' versi, la musica
ed il furto del ritratto formassero una combinazione
notevole, Emilia si sentì irresistibilmente
aliena dal farne menzione, e si propose soltanto di
non visitare più la peschiera senza essere accompagnata
da qualcuno dei genitori.


Nel tornare a casa, la fanciulla pensava a quanto
le era accaduto; Sant'Aubert si abbandonava al più
dolce godimento, contemplando i beni che possedeva.
La sua sposa era conturbata ed afflitta dalla perdita
del ritratto; avvicinandosi a casa, distinsero un romore
confuso di voci e di cavalli; parecchi servi
traversarono i viali, ed una carrozza a due cavalli
arrivò nello stesso punto davanti la porta d'ingresso del
castello. Sant'Aubert riconobbe la livrea del cognato, e
trovò difatti i coniugi Quesnel nel salotto. Essi mancavano
da Parigi da pochissimi giorni, e recavansi alle
loro terre distanti dieci leghe dalla valle, Sant'Aubert
gliele aveva vendute da qualche anno. Quesnel era
l'unico fratello della moglie di Sant'Aubert; ma la[17]
diversità di carattere avendo impedito di rafforzare
i loro vincoli, la corrispondenza tra essi non era
stata molto sostenuta. Quesnel si era introdotto nel
gran mondo; amava il fasto, e mirava a divenire
qualcosa d'importante; la sua sagacità, le sue insinuazioni
avevano quasi ottenuto l'intento. Non è
dunque da stupire se un uomo tale non sapesse apprezzare
il gusto puro, la semplicità e la moderazione
di Sant'Aubert, e non vi ravvisasse se non
se picciolezza di spirito e totale incapacità. Il matrimonio
di sua sorella aveva mortificato assai la
sua ambizione, essendosi lusingato ch'essa avrebbe
formato un parentado più adatto a servire ai suoi
progetti. Egli aveva ricevute proposte confacentissime
alle sue speranze; ma la sorella, che a quell'epoca
venne richiesta da Sant'Aubert, si accorse, o credè
accorgersi, che la felicità e lo splendore non erano
sempre sinonimi, e la sua scelta fu presto fatta.
Qualunque fossero le idee di Quesnel a tal proposito,
egli avrebbe sacrificato volentieri la quiete della
sorella all'innalzamento della propria fortuna; e
quand'essa si maritò, non potè dissimularle il suo
disprezzo per i di lei principii, e per l'unione ch'essi
determinavano. La Sant'Aubert nascose l'insulto
allo sposo, ma per la prima volta, forse, concepì
qualche risentimento. Conservò la sua dignità, e si
condusse con prudenza; ma il di lei riservato contegno
avverti abbastanza Quesnel di ciò ch'ella
sentiva.


Nell'ammogliarsi, egli non seguì l'esempio della
sorella; la sua sposa era un'Italiana, ricchissima
erede; ma il costei naturale e l'educazione ne facevano
una persona frivola quanto vana.


Si erano prefissi di passare la notte in casa di
Sant'Aubert, e siccome il castello non bastava ad
alloggiare tutti i domestici, furono mandati al vicino
villaggio. Dopo i primi complimenti e le disposizioni
necessarie, Quesnel cominciò a parlare delle[18]
sue relazioni ed amicizie. Sant'Aubert, il quale aveva
vissuto abbastanza nel ritiro e nella solitudine perchè
questo soggetto gli paresse nuovo, lo ascoltò con
pazienza ed attenzione, ed il suo ospite credè ravvisarvi
umiltà e sorpresa insieme. Descrisse vivamente
il piccolo numero di feste, che le turbolenze
di quei tempi permettevano alla corte di Enrico III,
e la sua esattezza compensava l'arroganza: ma quando
arrivò a parlare del duca di Joyeuse, di un trattato
segreto, ond'egli conosceva le negoziazioni colla Porta,
e del punto di vista sotto al quale Enrico di Navarra
era veduto alla corte, Sant'Aubert richiamò
l'antica esperienza, e si convinse facilmente che
il cognato tutto al più poteva tenere l'ultimo posto
alla corte; l'imprudenza dei suoi discorsi non poteva
conciliarsi colle sue pretese cognizioni: pure
Sant'Aubert non volle mettersi a discutere, sapendo
troppo bene che Quesnel non aveva nè sensibilità,
nè criterio.


La Quesnel, nel frattempo, esprimeva il suo stupore
alla Sant'Aubert sulla vita trista che menava,
diceva essa, in un cantuccio così remoto. Probabilmente,
per eccitare l'invidia, si mise poscia a narrare
le feste da ballo, i pranzi, le veglie ultimamente
date alla corte, e la magnificenza delle feste fatte in
occasione delle nozze del duca di Joyeuse con Margherita
di Lorena, sorella della regina; descrisse
colla stessa precisione e quanto aveva veduto, e
quanto non erale stato concesso di vedere. La fervida
immaginazione di Emilia accoglieva que' racconti
coll'ardente curiosità della gioventù, e la Sant'Aubert,
considerando la figlia colle lacrime agli
occhi, comprese che se lo splendore accresce la felicità,
la sola virtù però può farla nascere.


Quesnel disse al cognato: « Sono già dodici anni
che ho comprato il vostro patrimonio. — All'incirca, »
rispose Sant'Aubert, reprimendo un sospiro. — Sono
ormai cinque anni che non vi sono stato, » riprese[19]
Quesnel; « Parigi ed i suoi dintorni sono l'unico
luogo ove si possa vivere; ma d'altra parte, io sono
talmente occupato, talmente versato negli affari, ne
sono tanto oppresso, che non ho potuto senza grandissima
difficoltà, ottenere di assentarmi per un
mese o due. » Sant'Aubert non diceva nulla, e Quesnel
seguitò: « Sonomi maravigliato spesso, che voi, assuefatto
a vivere nella capitale, voi, che siete avvezzo
al gran mondo possiate dimorare altrove, sopratutto
in un paese come questo, ove non si sente
parlare di nulla, e dove si sa appena di esistere. — Io
vivo per la mia famiglia e per me, » disse
Sant'Aubert; « mi contento in oggi di conoscere
la felicità, mentre anch'io per lo passato ho conosciuto
il mondo.


— Ho deciso di spendere nel mio castello trenta
o quarantamila lire in abbellimenti, » soggiunse
Quesnel, senza badare alla risposta del cognato;
« mi son proposto di farci venire i miei amici nella
prossima estate. Il duca di Durfort, il marchese di
Grammont spero che mi onoreranno della loro presenza
per un mese o due. »


Sant'Aubert l'interrogò su' suoi progetti di abbellimento;
si trattava di demolire l'ala destra del
castello per fabbricarvi le scuderie. « Farò in seguito, »
aggiunse egli, « una sala da pranzo, un
salotto, un tinello, e gli alloggi per tutti i domestici,
poichè adesso non ho da allogarne la terza
parte.


— Tutti quelli di mio padre vi alloggiavano comodamente, »
riprese Sant'Aubert, rammentandosi
con dispiacere l'antica abitazione, « ed il di lui seguito
era pur numeroso.


— Le nostre idee si sono un po' ingrandite, »
disse Quesnel; « ciò ch'era decente in quei tempi,
or non parrebbe più sopportabile. »


Il flemmatico Sant'Aubert arrossì a tai parole,
ma l'ira fe' presto luogo al disprezzo.[20]


« Il castello è ingombro d'alberi, » soggiunse
Quesnel, « ma io conto di dargli aria.


— E che! voi vorreste tagliare gli alberi?


— Certo, e perchè no? essi impediscono la vista;
c'è un vecchio castagno che stende i rami su tutta
una parte del castello, e cuopre tutta la facciata
dalla parte di mezzogiorno; lo dicono così vecchio,
che dodici uomini starebbero comodamente nel suo
tronco incavato: il vostro entusiasmo non giungerà
fino a pretendere che un vecchio albero inutilissimo
abbia la sua bellezza od il suo uso.


— Buon Dio! » sclamò Sant'Aubert; « voi non
distruggerete quel maestoso castagno, che esiste da
tanti secoli, e fa l'ornamento della terra! Era già
grosso quando fu fabbricata la casa; da giovine io
mi arrampicava spesso su' di lui rami più alti; nascosto
tra le sue foglie, la pioggia poteva cadere a
diluvio, senza che una sola goccia d'acqua mi toccasse:
quante ore vi ho passate con un libro in
mano! Ma perdonatemi, » continuò egli rammentandosi
che non era inteso, « io parlo del tempo
antico. I miei sentimenti non sono più di moda, e
la conservazione di un albero venerabile non è, al
par d'essi, all'altezza de' tempi odierni.


— Io lo atterrerò per certo, » disse Quesnel,
« ma in sua vece potrò ben piantare qualche bel
pioppo d'Italia fra i castagni che lascierò nel viale.
La signora Quesnel ama molto i pioppi, e mi parla
spesso della casa di suo zio nei dintorni di Venezia,
ove questa piantagione fa un effetto superbo.


— Sulle sponde della Brenta, » rispose Sant'Aubert,
« ove il suo fusto alto e diritto si sposa ai
pini, a' cipressi, e pompeggia intorno a portici eleganti
e svelti colonnati, deve effettivamente adornare
quei luoghi deliziosi, ma fra i giganti delle nostre
foreste, accanto ad una gotica e pedante architettura!


— Questo può essere, caro signor mio, » disse
Quesnel, « io non voglio disputarvelo. Bisogna che[21]
voi ritorniate a Parigi, prima che le nostre idee
possano avere qualche rapporto. Ma, a proposito di
Venezia, ho quasi voglia di andarci nella prossima
estate. Può darsi ch'io diventa padrone della casa
di cui vi parlava, e che dicono bellissima. In tal
caso rimetterò i miei progetti di abbellimento all'anno
venturo, e mi lascierò trascinare a passare
qualche mese di più in Italia. »


Emilia restò alquanto sorpresa nell'udirlo parlare
in quei termini. Un uomo tanto necessario a Parigi,
un uomo che poteva appena allontanarsene per un
mese o due, pensar di andare in paese straniero, ed
abitarvi per qualche tempo! Sant'Aubert conosceva
troppo bene la di lui vanità per maravigliarsi di
simile linguaggio, e vedendo la possibilità di una
proroga per gli abbellimenti progettati, ne concepì
la speranza di un totale abbandono.


Prima di separarsi, Quesnel desiderò intertenersi
in particolare col cognato; entrarono ambidue in
un'altra stanza e vi restarono a lungo. Il soggetto
del loro colloquio rimase ignoto; ma Sant'Aubert
al ritorno parve molto pensieroso, e la tristezza dipinta
sul suo volto allarmò assai la di lui consorte.
Quando furono soli, essa fu entrata di chiedergliene
il motivo; la delicatezza però la trattenne, riflettendo
che se suo marito avesse creduto conveniente d'informarnela,
non avrebbe aspettato le di lei domande.


Il dì dopo, Quesnel partì dopo aver avuto un'altra
conferenza con Sant'Aubert. Ciò accadde al dopo
pranzo, e verso sera i nuovi ospiti si rimisero in
viaggio per Epurville, ove sollecitarono i cognati di
andarli a trovare, ma più nella lusinga di far pompa
di magnificenza, che per desiderio di farne lor
fruire le bellezze.


Emilia tornò con delizia alla libertà statale tolta
colla loro presenza. Ritrovò i suoi libri, le sue passeggiate,
i discorsi istruttivi dei suoi genitori, ed[22]
anch'eglino godettero di vedersi liberati da tanta
frivolezza ed arroganza.


La Sant'Aubert non andò a fare la sua solita passeggiata,
lagnandosi di un poco di stanchezza, ed
il marito uscì colla figlia.


Presero la strada dei monti. Il loro progetto era
di visitar alcuni vecchi pensionati di Sant'Aubert.
Una rendita modica gli permetteva simile aggravio,
mentr'è probabile che Quesnel con tutti i suoi tesori
non avrebbe potuto sopportarlo.


Sant'Aubert distribuì i soliti benefizi ai suoi
umili amici; ascoltò gli uni, consolò gli altri; li
contentò tutti co' dolci sguardi della simpatia ed
il sorriso dell'affabilità, e traversando con Emilia
i sentieri ombrosi della selva, tornò seco lei al castello.


La moglie era già ritirata nelle sue stanze; il
languore e l'abbattimento che l'avevano oppressa,
e che l'arrivo dei forestieri aveva sospeso, la colsero
di nuovo, ma con sintomi più allarmanti. L'indomani
si manifestò la febbre; il medico vi riconobbe
il medesimo carattere di quella ond'era guarito
Sant'Aubert; essa ne aveva ricevuto il contagio assistendo
il marito: la sua complessione troppo debole
non aveva potuto resistere: il male, insinuatosi
nel sangue, l'aveva piombata nel languore.
Sant'Aubert, spinto dalla inquietudine, trattenne il
medico in casa; si rammentò i sentimenti e le riflessioni
che avevano turbate le sue idee l'ultima
volta ch'erano stati insieme alla peschiera; credè
al presentimento, e temè tutto per la malata: riuscì
non ostante a nascondere il suo turbamento, e rianimò
la figlia, aumentandone le speranze. Il medico,
interrogato da lui, rispose che, prima di pronunciarsi,
dovea aspettare una certezza, non ancora da
lui acquistata. L'inferma sembrava averne una meno
dubbiosa, ma i suoi occhi soltanto potevano indicarla;
essa li fissava spesso su' suoi con un'espressione[23]
mista di pietà e di tenerezza, come se avesse
antiveduto il loro cordoglio, e sembrava non istare
attaccata alla vita se non per cagione di essi e del
loro dolore. Il settimo giorno fu quello della crisi;
il medico prese un accento più grave; ella se ne
accorse, e profittando di un momento ch'erano soli,
l'accertò esser ella persuasissima della sua morte
imminente. « Non cercate d'ingannarmi, » gli disse;
« io sento che ho poco di vivere, e da qualche
tempo son preparata a morire; ma poichè così è,
una falsa compassione non v'induca a lusingare la
mia famiglia; se lo faceste, la loro afflizione sarebbe
troppo violenta all'epoca della mia morte; io mi
sforzerò, coll'esempio, d'insegnar loro la rassegnazione
ai voleri supremi. »


Il medico s'intenerì, promise di obbedire, e disse
un po' ruvidamente a Sant'Aubert che non bisognava
sperare. La filosofia di questo sventurato non
era tale da resistere alla prova di un colpo tanto
fatale; ma riflettendo che un aumento di afflizione,
nell'eccesso del suo dolore, avrebbe potuto aggravare
maggiormente la consorte, prese forza bastante
per moderarla alla di lei presenza. Emilia cadde
svenuta, ma appena riprese l'uso dei sensi, ingannata
dalla vivacità dei suoi desiderii, conservò fino
all'ultimo momento la speranza della guarigione
della madre.


La malattia faceva rapidi progressi; la rassegnazione
e la calma dell'inferma sembravano crescere
con essa la tranquillità con cui attendeva la morte,
nasceva da una coscienza pura, da una vita senza
rimorsi, e per quanto poteva comportarlo l'umana
fragilità, passata costantemente nella presenza di Dio
e nella speme d'un mondo migliore; ma la pietà
non poteva annientare il dolore che provava, lasciando
amici tanto cari al suo cuore. Negli estremi
momenti, parlò molto col marito e con Emilia sulla
vita futura ed altri soggetti religiosi; la di lei rassegnazione,[24]
la ferma speranza di ritrovare nell'eternità
i cari oggetti che abbandonava in questo mondo;
lo sforzo che faceva per nascondere il dolore
cagionatole dalla momentanea separazione, tutto contribuì
ad affliggere siffattamente Sant'Aubert, che fu
costretto ad uscire dalla camera. Pianse amare lagrime,
ma in fine fece forza a sè stesso, e rientrò
con una ritenutezza che non poteva se non accrescere
il suo supplizio.


In alcun tempo Emilia non aveva meglio conosciuto
quanto fosse prudente di moderare la sua
sensibilità, nè mai erasene occupata con tanto coraggio;
ma dopo il momento terribile e funesto dovè
cedere al peso del dolore, e comprese come la speranza
al par della forza avessero concorso a sostenerla.
Sant'Aubert era troppo afflitto egli stesso per
poter consolare la figlia.




CAPITOLO II


La spoglia mortale della Sant'Aubert fu inumata
nella chiesa del villaggio vicino; sposo e figlia accompagnarono
il corteggio funebre, e furono seguiti
da un numero prodigioso di abitanti, che piangevano
tutti sinceramente la perdita dell'ottima donna.


Ritornati dalla chiesa, Sant'Aubert si chiuse nella
sua camera, e ne uscì colla serenità del coraggio e
col pallore della disperazione; ordinò a tutte le
persone che componevano la sua famiglia di riunirsi
vicino a lui. La sola Emilia non compariva: soggiogata
dalla scena lugubre ond'era stata testimone,
erasi chiusa nel suo gabinetto per piangervi in libertà.
Sant'Aubert l'andò a cercare; le prese la
mano in silenzio, e le sue lacrime continuarono:
egli stesso stentò molto a riacquistare la voce e la
facoltà di esprimersi; finalmente disse tremando:
« Cara Emilia, noi andiamo a pregare per l'anima
della tua buona madre; non vuoi tu unirti a noi?[25]
Imploreremo il soccorso dell'Onnipotente: da chi
possiamo noi attenderlo se non dal cielo? »


Emilia trattenne le lacrime, e seguì il padre nel
salotto ov'erano riuniti i domestici. Sant'Aubert
lesse con voce sommessa l'uffizio dei morti, e vi
aggiunse preghiere per l'anima dei defunti. Durante
la lettura, gli mancò la voce, e le lacrime inondarono
il libro; si arrestò, ma le sublimi emozioni
d'una devozione pura innalzarono successivamente
le sue idee al disopra di questo mondo, e versarono
infine il balsamo della consolazione nel
suo cuore.


Finito l'uffizio, e ritirati i domestici, egli abbracciò
teneramente la sua Emilia. « Mi sono sforzato, »
le disse, « di darti fino dai primi anni un vero
impero su te stessa, e te ne ho rappresentata l'importanza
in tutta la condotta della vita; questa sublime
qualità ci sostiene contro le più pericolose
tentazioni del vizio, ci richiama alla virtù, e modera
parimente l'eccesso delle emozioni più virtuose.
Vi è un punto in cui esse cessano di meritare
questo nome, se la loro conseguenza è un male;
qualunque eccesso è vizioso; il dispiacere medesimo,
sebbene amabile ne' suoi primordi, diviene una passione
ingiusta, quando uno vi si abbandona a spese
dei propri doveri. Per dovere io intendo parlare di
ciò che si deve a sè stessi, al par di quello che si
deve agli altri, un dolore smoderato infiacchisce
l'anima, e la priva di quei dolci godimenti che un
Dio benefico destina all'ornamento della nostra vita.
Emilia cara, invoca, fa uso di tutti i precetti
che hai da me ricevuti, e di cui l'esperienza ti ha
così spesso dimostrato la saviezza... Il tuo dolore è
inutile; non riguardare questa verità come un'espressione
comune di consolazione, ma come un vero
motivo di coraggio. Non vorrei soffocare la tua
sensibilità, figlia mia, ma moderarne soltanto l'intensità.
Di qualunque natura possano essere i mali,[26]
ond'è afflitto un cuore troppo tenero, non si deve
sperar nulla da quello che non lo è. Tu conosci il
mio dolore, sai se le mie parole sono di quei discorsi
leggieri fatti a caso per arrestare la sensibilità
nella sua sorgente, e il cui unico fine è di far
pompa d'una pretesa filosofia. Ti dimostrerò, cara
figlia, ch'io posso mettere in pratica i consigli che
do. Ti parlo così, perchè non ti posso vedere, senza
dolore, consumarti in lacrime superflue e non fare
veruno sforzo per consolarti; non ti ho parlato
prima, perchè avvi un momento in cui qualunque
ragionamento deve cedere alla natura. Questo momento
è passato, e quando lo si prolunga all'eccesso,
la trista abitudine che si contrae, opprime lo spirito
al punto di togliergli la sua elasticità, tu urti
in questo scoglio, ma son persuaso che mi proverai
col fatto di volerlo evitare. »


Emilia, piangendo, sorrise al genitore. « O padre! »
esclamò, e le mancò la voce. Avrebbe aggiunto
senza dubbio: Io voglio mostrarmi degna
del nome di vostra figlia. Ma un movimento misto
di riconoscenza, di tenerezza e di dolore l'oppresse
di nuovo: Sant'Aubert la lasciò piangere senza interromperla,
e parlò di altre cose.


La prima persona che venne a partecipare alla sua
afflizione fu un certo Barreaux, uomo austero, e che
sembrava insensibile; il gusto della botanica li aveva
legati in amicizia, essendosi incontrati spesso sui
monti. Barreaux erasi ritirato dal mondo, e quasi
dalla società, per vivere in un bellissimo castello,
all'ingresso de' boschi, e vicinissimo alla valle. Come
Sant'Aubert, egli era stato crudelmente disingannato
dall'opinione che aveva avuta degli uomini,
ma, al par di lui, non si limitava ad affliggersene
ed a compiangerli; sentiva più sdegno contro i loro
vizi, che compassione per le loro debolezze.


Sant'Aubert fu sorpreso nel vederlo. Lo aveva
invitato spesso a venire a visitare la sua famiglia,[27]
senza avervelo mai potuto decidere; quel giorno
venne senza riserva, ed entrò in casa come uno dei
più intrinseci amici della famiglia. I bisogni della
sventura parevano averne addolcita la ruvidezza e
domati i pregiudizi. La desolazione di Sant'Aubert
parve l'unica sua occupazione; le maniere, più che
le parole, ne esprimevano la commozione: parlò
poco del soggetto della loro afflizione, ma le sue
attenzioni delicate, il suono della sua voce, e l'interesse
dei suoi sguardi esprimevano il sentimento
del suo cuore; e questo linguaggio fu benissimo
inteso.


A quell'epoca dolorosa, Sant'Aubert fu visitato
dalla sua unica sorella, la signora Cheron, vedova
da qualche anno, la quale abitava allora nelle proprie
terre vicino a Tolosa. La loro corrispondenza
era stata poco attiva: le espressioni non le mancarono
però; ella non intendeva quella magia dello
sguardo, che parla così bene all'anima, e quella
dolcezza di accenti, che versa un balsamo salutare
nei cuori afflitti e desolati. Assicurò il fratello che
prendeva il più sincero interesse al suo dolore, lodò
le virtù della sua sposa, ed aggiunse quanto immaginò
di più consolante. Emilia non cessò dal piangere
fin ch'essa parlò. Sant'Aubert fu più tranquillo,
ascoltò in silenzio, e cambiò tenore di conversazione.


Nel partire, la signora Cheron li pregò di andarla
presto a trovare. « Il cambiamento di soggiorno vi
distrarrà non poco, » diss'ella; « fate malissimo ad
affliggervi tanto. » Suo fratello comprese la verità
di queste parole, ma sentiva più ripugnanza di prima
a lasciare un asilo consacrato alla sua felicità. La
presenza della sposa aveva reso quei luoghi tanto
interessanti per lui, che ogni giorno calmando l'amarezza
del suo dolore, aumentava la vaghezza delle
sue rimembranze.


Egli aveva cionnonpertanto doveri da compiere,[28]
e di questo genere era una visita al cognato Quesnel;
un affare importante non permetteva di differirla
più a lungo, e desiderando d'altronde di scuotere
Emilia dal suo abbattimento prese seco lei la
strada d'Epurville.


Quando la carrozza entrò nel bosco che circondava
il suo antico patrimonio, e che scoprì il viale
di castagni e le torricelle del castello, nel pensare
agli avvenimenti trascorsi in quell'intervallo, e come
il possessore attuale non sapesse nè apprezzare, nè
rispettare un tanto bene, Sant'Aubert sospirò profondamente;
alla fine, entrò nel viale, rivide quei
grandi alberi, delizia della sua infanzia e confidenti
della sua gioventù. A poco a poco il castello mostrò
la sua massiccia grandezza. Rivide la grossa torre,
la porta vôlta d'ingresso, il ponte levatoio, ed il
fosso asciutto che circondava tutto l'edifizio.


Il romore della carrozza chiamò una folla di servitori
al cancello. Sant'Aubert scese, e condusse
Emilia in una sala gotica; ma gli stemmi, le antiche
insegne della famiglia non la decoravano più. Le
travi, e tutto il legname di quercia del soffitto,
erano stati tinti di bianco. La gran tavola, ove il
feudatrio faceva pompa tutti i giorni della magnificenza
e dell'ospitalità sua, dove il riso ed i lieti
canti avevano così spesso rimbombato, questa tavola
non esisteva più; le panche istesse che circondavano
la sala, erano state tolte. Le grosse pareti non erano
ricoperte che di frivoli ornamenti, i quali dimostravano
quanto fosse gretto e meschino il gusto ed il
sentimento del proprietario attuale.


Sant'Aubert fu introdotto nel salotto da un elegante
servitore parigino. I coniugi Quesnel lo ricevettero
con fredda garbatezza, con qualche complimento
alla moda, e parvero aver obliato totalmente
di aver avuto una sorella.


Emilia fu sul punto di versare lacrime, ma ne fu
trattenuta da un giusto risentimento. Sant'Aubert,[29]
franco e tranquillo, conservò la sua dignità senza
mostrare di avvedersene, e pose, in soggezione Quesnel;
il quale non poteva spiegarsene il motivo.


Dopo una conversazione generale, Sant'Aubert
mostrò desiderio di parlargli da solo a solo. Emilia
restò colla signora Quesnel, e fu tosto informata
come per quel giorno istesso fosse stata invitata una
società numerosa: essa fu costretta di sentirsi dire
che una perdita irrimediabile non deve privare di
verun piacere.


Quando Sant'Aubert seppe di questo invito, sentì
un misto di disgusto e d'indignazione per l'insensibilità
di Quesnel, e fu quasi tentato di tornarsene
al momento al suo castello; ma sentendo che, a suo
riguardo, era stata invitata a venire anche la signora
Cheron, e considerando che Emilia avrebbe potuto
un giorno provare le conseguenze dell'inimicizia
d'un simile zio, non volle esporvela; d'altra parte,
la sua istantanea partenza sarebbe parsa senza dubbio
poco conveniente a persone, che mostravano nondimanco
un sì fiacco sentimento delle convenienze.


Fra i convitati si trovavano due gentiluomini italiani,
uno chiamato Montoni, parente lontano della
signora Quesnel, dell'età circa quarant'anni, di ammirabile
statura; avea fisonomia virile ed espressiva,
ma in generale esprimeva la baldanza e l'alterigia,
piuttosto che ogni altra disposizione.


Il signor Cavignì, suo amico, non mostrava più
di trent'anni. Era ad esso inferiore di nascita, ma
non in penetrazione, e lo superava nel talento d'insinuarsi.
Emilia fu piccata del modo con cui la Cheron
parlò a suo padre. « Fratello mio, » gli diss'ella,
« mi spiace di vedervi di così cattiva ciera; dovreste
consultare qualche medico. » Sant'Aubert le rispose,
con malinconico sorriso, che presso a poco stava
come al solito; ed i timori di Emilia le fecero trovare
il padre cambiato assai più che realmente nol
fosse. Se Emilia fosse stata meno oppressa, si sarebbe[30]
divertita, la diversità dei caratteri della conversazione
durante il pranzo, e la magnificenza
istessa con cui fu servito, molto al di sopra di tutto
quanto aveva veduto fin allora, non avrebbero senza
dubbio mancato di svagarla. Montoni, recentemente
giunto dall'Italia, raccontava le turbolenze e le fazioni
che agitavano quel paese. Dipingeva con vivacità
i diversi partiti; deplorava le probabili conseguenze
di quegli orribili tumulti. Il suo amico parlava
con altrettanto ardore della politica della sua
patria; lodava il governo e la prosperità di Venezia,
e vantava la di lei decisa superiorità su tutti gli
altri Stati d'Italia; si rivolse in seguito alle signore,
e parlò colla medesima eloquenza delle mode, degli
spettacoli, delle affabili maniere dei Francesi, ed
ebbe l'accortezza di far cadere il suo discorso su
tutto ciò che poteva lusingare il gusto di quella
nazione: l'adulazione non fu conosciuta da coloro
cui era indirizzata, ma l'effetto però che produsse
sulla loro attenzione non isfuggì alla sua perspicacia.
Quando potè disimpegnarsi dalle altre signore, si
rivolse ad Emilia; ma essa non conosceva nè le
mode, nè i teatri parigini, e la sua modestia e semplicità,
e le sue belle maniere contrastavano forte
col tuono delle compagne. Dopo il pranzo, Sant'Aubert
uscì solo per visitare ancora una volta il vecchio
castagno, che Quesnel pensava distruggere. Riposando
sotto quell'ombra, guardò attraverso le folte
sue frondi, e scorse tra le foglie tremolanti l'azzurra
vôlta de' cieli; gli avvenimenti della sua gioventù
presentaronsegli tutti insieme alla fantasia. Si rammentò
gli antichi amici, il loro carattere, e perfino
le loro fattezze. Da molto tempo essi non esistevano
più; gli parve essere anch'egli un ente quasi isolato,
e la sua Emilia sola poteva fargli amare ancora
la vita.


Perduto nella folla delle immagini che gli presentava
la sua memoria, giunse al quadro della[31]
moribonda sposa; sussultò, e volendo obliarla, se
gli fosse stato possibile, tornò alla società.


Sant'Aubert fece attaccare la carrozza di buonissim'ora;
Emilia si accorse per via ch'era più taciturno
è più abbattuto del solito; essa ne attribuì
la cagione alle memorie ricordategli da quel luogo,
nè sospettò il vero motivo d'un dolore ch'egli non
le comunicava.


Ritornati al castello, la di lei afflizione si rinnovò,
e conobbe più che mai gli effetti della privazione
di una madre tanto cara, che l'accoglieva sempre
col sorriso e le più affabili carezze, dopo un'assenza
anche momentanea. Or tutto era cupo e deserto.


Ma ciò che ottener non possono nè la ragione, nè
gli sforzi, l'ottiene il tempo. Scorsero le settimane,
e l'orrore della disperazione si trasformò a poco a
poco in un dolce sentimento che il cuore conserva,
e gli diventa sacro. Sant'Aubert al contrario, s'indeboliva
sensibilmente, sebbene Emilia, la sola persona
che non lo abbandonasse mai, fosse l'ultima
ad accorgersene. La sua complessione non si era
ristabilita dall'urto ricevuto nella malattia, e la
scossa che provò alla morte della moglie, determinò
il suo estremo languore: il suo medico lo consigliò
di viaggiare. Era visibile come i suoi nervi fossero
stati fortemente attaccati dall'accesso del dolore; e
si credeva che il cambiamento dell'aria ed il moto,
calmandone lo spirito, potessero riescire a restituirgli
l'antico vigore.


Emilia si occupò quindi dei preparativi, e Sant'Aubert
dei calcoli sulle spese del viaggio. Bisognò
congedare i servi. Emilia, che si permetteva rare
volte di opporre alla volontà del padre domande
od osservazioni, avrebbe voluto non ostante sapere
per qual motivo, nel suo stato infermiccio, egli non
si riservasse almeno un servitore. Ma quando, la
vigilia della partenza, si accorse che Giacomo, Francesco
e Maria erano stati licenziati, e conservata[32]
soltanto Teresa, sua antica governante, ne fu estremamente
sorpresa, ed arrischiò di domandargliene
il motivo... « Lo faccio per economia, » le rispose
egli; « noi intraprendiamo un viaggio molto dispendioso. »
Il medico aveva prescritto l'aria di Linguadoca
e di Provenza: Sant'Aubert risolse adunque
d'incamminarsi lentamente verso quelle province,
costeggiando il Mediterraneo.


Si ritirarono di buon'ora nelle loro camere la
sera precedente alla partenza. Emilia doveva porre
in ordine alcuni libri e qualche altra cosa; suonò
mezzanotte prima che avesse finito; si ricordò dei
suoi disegni, cui voleva portar seco, e che aveva
lasciati nel salotto. Vi andò, e, passando vicino alla
camera del padre, ne trovò la porta socchiusa, e
credè che fosse nel suo gabinetto, come solea fare
tutte le sere dopo la morte della moglie. Agitato
da insonnii crudeli, lasciava il letto, e andava in
quella stanza per procurare di trovarci il riposo.
Quando essa fu in fondo alla scala, guardò nel gabinetto,
ma nol vide. Nel risalire, bussò leggermente
all'uscio, non ricevè nessuna risposta, e si avanzò
pian piano per sapere ove fosse.


La camera era oscura, ma attraverso alla porta
vetrata si scorgeva un lume nel fondo di una stanza
attigua. Emilia era persuasa che suo padre stava là
dentro; ma temendo che a quell'ora egli vi si trovasse
incomodato, volle andar ad assicurarsene.
Considerando però che una sì improvvisa apparizione
l'avrebbe forse spaventato, lasciò fuori il lume,
e si avanzò pian piano verso la stanza. Là, essa
vide il padre seduto innanzi ad un tavolino, e scorrendo
parecchie carte, alcune delle quali assorbivano
la sua attenzione, e gli strappavano sospiri e per
fino singulti. Emilia, la quale non si era avvicinata
alla porta se non per assicurarsi dello stato di salute
del padre, fu trattenuta in quel momento da
un misto di curiosità e di tenerezza. Non poteva[33]
essa scuoprire le sue pene, senza desiderare di saperne
eziandio la causa. Continuò ad osservarlo in
silenzio, non dubitando più che quelle carte non
fossero altrettante lettere. D'improvviso, ei si pose
in ginocchio in un atteggiamento più solenne che
fin allora non l'avesse veduto; ed in una specie di
smarrimento che somigliava molto all'orrore, fece
una lunghissima preghiera. Il di lui volto era coperto
da mortal pallore quando si alzò. Emilia pensava
a ritirarsi, ma lo vide avvicinarsi di nuovo
alle carte, e si trattenne. Egli prese un piccolo
astuccio, e ne levò una miniatura: il lume, che ci
rifletteva sopra, le fece distinguere una donna, e
questa donna non era sua madre!


Sant'Aubert guardò il ritratto con viva espressione
di tenerezza, lo recò alle labbra, al cuore, e
mandò sospiri convulsi. Emilia non poteva credere
ai propri occhi, ignorando ch'egli possedesse il ritratto
di un'altra donna fuor di sua madre, e specialmente
poi che gli fosse tanto caro. Essa lo guardò
di nuovo a lungo per trovarci l'effigie della genitrice,
ma la di lei attenzione servì solo a convincerla
essere quello il ritratto di un'altra donna.
Finalmente, il padre lo ripose nell'astuccio, ed Emilia,
riflettendo di avere indiscretamente osservati
i di lui segreti, si ritirò il più adagio che le fu
possibile.




CAPITOLO III


Sant'Aubert, in vece di prendere la strada diretta
che conduceva in Linguadoca, seguitando le
falde dei Pirenei, preferì un cammino sulle alture,
perchè offriva vedute più estese e più pittoresche.
Uscì un poco di strada per congedarsi da Barreaux;
lo trovò che erborizzava vicino al suo castello, e
quando gli manifestò il soggetto della sua visita
e la sua risoluzione, l'amico gli dimostrò una sensibilità[34]
di cui fino a quel punto Sant'Aubert non
avevalo creduto capace. Si separarono con reciproco
rammarico.


« Se qualcosa avesse potuto togliermi dal mio
ritiro, » disse Barreaux, « sarebbe stato il piacere
di accompagnarvi in questo viaggio; io non faccio
complimenti, e potete credermi: attenderò il vostro
ritorno con grande impazienza. »


I viaggiatori continuarono il loro cammino: nel
montare in carrozza, Sant'Aubert si volse e vide
il suo castello nella pianura. Idee lugubri gl'invasero
lo spirito, e la sua immaginazione malinconica
gli suggerì che non doveva più ritornarvi. Respinse
questo pensiero, ma continuò a guardare il suo asilo
fino a che la distanza non gli permise più di distinguerlo.


Emilia restò, come lui, in un profondo silenzio,
ma dopo qualche miglio, la di lei immaginazione,
colpita dalla maestosità degli oggetti circostanti,
cedè alle impressioni più deliziose. La strada passava,
ora lungo orridi precipizi, ora pei siti più
deliziosi.


Emilia non potè trattenere i suoi trasporti, quando,
dal mezzo de' monti e de' boschi di abeti, scoprì
in lontananza immense pianure, sparse di ville, di
vigneti e di piantagioni d'ogni specie. Le onde
maestose della Garonna scorrevano in quella ricca
valle, e dalla sommità dei Pirenei, d'onde ella trae
origine, si conducevano verso l'Oceano.


La difficoltà di una strada così poco frequentata
obbligò spesso i viaggiatori di camminare a piedi;
ma si trovavano essi ampiamente ricompensati dalla
fatica per la vaghezza dello spettacolo offerto dalla
natura. Mentre il mulattiere conduceva lentamente
la carrozza, avevano tutto il comodo di percorrere
le solitudini e di abbandonarsi alle sublimi riflessioni
che sollevano l'anima, la leniscono, e la riempiono
in fine di quella consolante certezza che Iddio,[35]
è presente dappertutto. I godimenti di Sant'Aubert
portavan l'impronta della sua meditabonda
malinconia. Questa disposizione aggiunge un incanto
segreto agli oggetti, e inspira un sentimento religioso
per la contemplazione della natura.


I nostri viaggiatori si erano premuniti contro la
mancanza degli alberghi, portando seco provvisioni;
potevano dunque fare le loro refezioni a ciel sereno,
e riposare la notte in qualunque luogo avessero
trovato una capanna abitabile. Avevano egualmente
fatte provvisioni per lo spirito, portando seco
un'opera di botanica scritta da Barreaux, e qualche
poeta latino o italiano. Emilia, d'altronde, aveva
seco le matite, e tratto tratto disegnava i punti di
vista che la colpivano maggiormente.


La solitudine della strada aumentava l'effetto
della scena; appena incontravano essi di tempo in
tempo un contadino coi muli, o qualche fanciullo
che scherzava tra le rupi. Sant'Aubert, incantato
di quella maniera di viaggiare, si decise di avanzare
sempre nelle montagne finchè trovasse strada,
e di non uscirne che al Rossiglione, vicino al mare,
per passare quindi in Linguadoca.


Un po' dopo mezzodì giunsero in vetta d'un alto
picco che dominava parte della Guascogna e della
Linguadoca. Colà godevasi d'una folta ombra. Vi
scaturiva una fonte, che, fuggendo sotto gli alberi
fra erbosi margini, correva a precipitarsi al basso
in brillanti cascatelle. Il suo lene murmure alfine
perdevasi nel sottoposto baratro, ed il candido polvischio
della sua spuma serviva solo a distinguerne
il corso in mezzo ai negri abeti.


Il luogo invitava al riposo. Si ammannì il pranzo;
le mule furono staccate, e l'erba che fitta cresceva
quivi intorno, lor fornì copioso nutrimento.


Finito il pasto, Sant'Aubert prese la mano d'Emilia,
e teneramente la strinse senza dir verbo.
Poco stante, chiamò il mulattiere, e chiesegli se[36]
conoscesse una via tra i monti che guidar potesse
nel Rossiglione. Michele rispose trovarsene parecchie,
ma esserne poco pratico. Sant'Aubert, non
volendo viaggiare se non fino al tramonto, domandò
il nome di vari casali vicini, ed informossi del tempo
cui impiegherebbero a giugnervi. Il mulattiere calcolò
che si potea andare a Mateau, ma che, se si
volesse movere verso mezzogiorno, dalla parte del
Rossiglione, eravi un villaggio dove si giugnerebbe
assai prima del tramonto.


Sant'Aubert s'appigliò a quest'ultimo partito. Michele
finì il pasto, attaccò le mule, si ripose in via,
e poco stante sostò. Sant'Aubert lo vide pregare
appiè d'una croce piantata sulla punta d'una rupe
all'orlo della strada; finita l'orazione, fe' schioccar la
frusta e, senza riguardo alcuno per la difficoltà della
via, nè per la vita delle povere mule, le spinse di gran
galoppo sul margine d'uno spaventoso precipizio. Lo
spavento d'Emilia le tolse quasi l'uso de' sensi. Suo
padre, il quale temeva ancor più il pericolo di fermarsi
d'improvviso, fu costretto a tornar a sedere,
e tutto lasciare in balia alle mule, le quali parvero
più savie del loro conduttore. I viaggiatori giunsero
sani e salvi nella valle, e sostarono sul margine
d'un ruscello.


Dimenticando ormai la magnificenza delle viste
grandiose, internaronsi nell'angusta valle. Tutto
quivi era solitario o sterile; non vi si vedea anima
viva fuorchè il capriuolo montano, il quale, talfiata,
mostravasi di repente sullo scosceso culmine di
qualche inaccessibile dirupo. Era un sito qual l'avrebbe
scelto Salvator Rosa, se avesse vissuto.
Allora Sant'Aubert, colpito da tale aspetto, attendeasi
quasi a veder isbucare da qualche antro vicino una
torma di masnadieri, e tenea in mano le armi.


Intanto inoltravano, e la valle allargavasi, assumendo
carattere meno spaventoso. Verso sera, trovaronsi
sulle montagne, in mezzo a scopeti. Da lunge,[37]
intorno ad essi, il campanaccio degli armenti, la voce
de' mandriani eran l'unico suono che udir si facesse;
e la dimora de' pastori l'unica abitazione che là si
scoprisse. Sant'Aubert notò che il lecce, il sovero e
l'abete vegetavano per gli ultimi sulle vette circostanti.
Ridente verzura tappezzava il fondo della
valle. Scorgeasi nelle profondità, all'ombra di castagni
e querce, pascere e saltellare grosse mandre, disperse
od aggruppate con grazia; taluni animali dormivano
presso la fresca corrente, altri vi spegnevano la sete,
ed altri vi si bagnavano.


Il sole cominciava ad abbandonare la valle; i suoi
ultimi raggi brillavano sul torrente, ravvivando i
ricchi colori della ginestra e delle eriche fiorite.
Sant'Aubert domandò a Michele quanto fosse distante
il casale di cui avevagli parlato, ma esso non potè
rispondergli con esattezza. Emilia cominciò a temere
avesse smarrita la strada; non eravi ente umano
che potesse soccorrerli, nè guidarli. Avevano lasciato
da lunga mano dietro a sè e il pastore e la capanna,
il crepuscolo scemava ognor più, l'occhio nulla potea
discernere tra l'oscurità, e non distingueva nè casale,
nè tugurio; una riga colorata segnava solo
l'orizzonte, formando l'unica risorsa de' viaggiatori.
Michele si sforzava di farsi coraggio cantando ariette,
che per vero dire, non valevano molto a scacciare
le idee lugubri, ond'erano occupati i viaggiatori.


Continuarono a camminare assorti in quei profondi
pensieri cui seco traggono la solitudine e la
notte. Michele non cantava più, e non si udiva che
il mormorio della brezza nei boschi, nè si sentiva
che la frescura. D'improvviso furono scossi dallo
scoppio d'un'arme da fuoco; Sant'Aubert fece fermare
la carrozza, e si pose ad ascoltare. Il romore
non viene ripetuto, ma si sente correre nella macchia.
Sant'Aubert prende le sue pistole, e ordina a
Michele di accelerare il passo. Il suono di un corno
da caccia fa rimbombare i monti; Sant'Aubert osserva,[38]
e vede un giovine slanciarsi nella strada, seguito
da due cani; lo straniero era vestito da cacciatore;
un moschetto ad armacollo, un corno alla
cintura, ed una specie di picca in mano, davano
una grazia particolare, alla sua persona, secondando
l'agilità dei suoi passi.


Dopo un momento di riflessione, Sant'Aubert volle
aspettarlo per interrogarlo sul casale cui cercava:
il forestiere rispose che il villaggio era distante solo
una mezza lega, che vi andava egli stesso, e gli
avrebbe servito di guida; Sant'Aubert lo ringraziò,
e colpito dalle di lui maniere semplici e franche,
gli offrì un posto in carrozza. Lo straniero ricusò,
assicurandolo che avrebbe seguito le mule senza
fatica. « Ma voi sarete alloggiato male, » soggiuns'egli;
« questi montanari sono gente poverissima;
non solo non conoscono lusso, ma mancano eziandio
delle cose reputate più indispensabili. — Mi accorgo
che voi non siete di questo paese, » disse Sant'Aubert. — No,
signore, io sono viaggiatore. »


La carrozza si avanzava, e l'oscurità crescente
fe' meglio conoscere l'utilità di una guida; i sentieri
poi che s'incontravano spesso, avrebbero aumentata
la loro incertezza. Finalmente videro i lumi del
villaggio: si distinsero alcuni casolari, o meglio si
poterono discernere mercè il ruscello che ripercotea
ancora il fioco chiaror del crepuscolo. Lo straniero
si avanzò, e Sant'Aubert intese da lui non
esistere in quel luogo nessun albergo, ma egli si
offrì di cercare un ricetto. Sant'Aubert lo ringraziò,
e siccome il villaggio era vicinissimo, scese per accompagnarlo,
mentre Emilia li seguiva in carrozza.


Cammin facendo, Sant'Aubert domandò al compagno
se aveva fatta una buona caccia. « No, signore, »
rispos'egli, « e nemmanco era il mio progetto;
amo questo paese e mi propongo di scorrerlo
ancora per qualche settimana; ho i cani con me
piuttosto per piacere, che per utilità; questo abito[39]
da cacciatore poi mi serve di pretesto, e mi fa godere
della considerazione, che verrebbe ricusata
senza dubbio ad un forestiero senza apparente occupazione. — Ammiro
il vostro gusto, » rispose
Sant'Aubert, « e, se fossi più giovine, vorrei io
pure passare qualche settimana costì; siamo anche
noi viaggiatori, ma il nostro scopo non è l'istesso.
Io cerco la salute ancor più del piacere. » Qui sospirò
e tacque per un momento; poi, raccogliendosi
soggiunse: « Vorrei trovare una strada un po' buona,
che mi conducesse nel Rossiglione, per passar quindi
in Linguadoca. Voi, che sembrate conoscere il paese,
potreste indicarmene una? »


Lo straniero lo assicurò che si sarebbe fatto un
piacere di servirlo, e gli parlò d'una strada più a
levante, che dovea condurre ad una città, e di là
facilmente nel Rossiglione.


Giunti al villaggio, cominciarono a cercare un
asilo, che potesse offrir loro ricovero per la notte;
non trovarono nella maggior parte delle case che
ignoranza, povertà e brio; Sant'Aubert veniva guardato
con aria timida e curiosa; non bisognava aspettarsi
un buon letto. Arrivò Emilia, ed osservando la
fisonomia stanca ed afflitta del povero padre, si querelò
ch'egli avesse scelta una strada sì poco comoda
per un malato. Le migliori abitazioni erano composte
di due camere; una per le mule e il bestiame,
e l'altra per la famiglia, composta quasi da per tutto
di sette o otto figli, e tutti, con il padre e la madre,
dormivano su pelli o foglie secche; e siccome
la sola apertura che fosse in quelle camere era nel
tetto, eravi un fumo ed un odore nauseabondo tali,
che toglievan quasi il respiro nell'entrarvi. Emilia
distolse gli sguardi, e fissò il padre con tenera inquietudine,
di cui il giovine forestiero parve intendere
l'espressione; trasse in disparte Sant'Aubert,
e gli offrì il suo letto. « Se lo paragoniamo a tutti
gli altri, è abbastanza comodo, » gli disse, « ma
altrove mi vergognerei di offrirvelo. »[40]


Sant'Aubert gli attestò la sua riconoscenza e ricusò
l'offerta; ma lo straniero insistette. « Non rifiutate;
sarei dolente troppo, signore, » ripres'egli,
« se voi giaceste sopra una pelle mentr'io mi trovassi
in un letto; i vostri rifiuti offenderebbero il
mio amor proprio, e potrei pensare che la mia proposta
vi spiaccia; vi mostrerò la strada, e la mia
albergatrice troverà modo d'allogare anche la signorina. »


Sant'Aubert consentì alfine; e restò sorpreso che
lo straniero fosse tanto poco galante da preferire
il riposo di un uomo a quello d'una giovane vezzosa,
non avendo offerta la camera ad Emilia; ma
essa non fu della medesima opinione, e con un sorriso
espressivo gli dimostrò quanto fosse sensibile
all'attenzione da lui avuta pel padre.


Il forestiero, che si chiamava Valancourt, si fermò
il primo per dire qualche cosa alla sua albergatrice.
L'alloggio ch'essa aprì non somigliava punto a tutti
quelli che fin allora avevan veduti. La buona donna
impiegò tutte le sue premure nell'accoglier bene
i viaggiatori, ed essi furono costretti di accettare
i due soli letti che si trovassero in quella casa. Ova
e latte erano il solo cibo che potesse offrire, ma
Sant'Aubert aveva provvisioni, e pregò Valancourt
di cenare con loro; l'invito fu benissimo accolto, e
la conversazione si animò. La franchezza, la semplicità,
le idee grandiose ed il gusto per la natura
che mostrava di aver il giovane, incantavano Sant'Aubert.
Egli aveva detto spesso che quest'interesse
per la natura non poteva esistere in un'anima che
non avesse gran purità di cuore e d'immaginazione.


I discorsi furono interrotti da un violento tumulto,
in cui la voce del mulattiere cuopriva tutte le altre.
Valancourt si alzò per saperne il motivo, e la disputa
durò tanto, che Sant'Aubert perdè la pazienza
e uscì egualmente. Michele altercava coll'albergatrice,
perchè essa proibivagli d'introdurre i muli[41]
nella stalla, che gli aveva permesso di dividere
co' suoi tre figli; il sito non era molto bello per
verità, ma non eravi nulla di meglio, e, più delicata
dei suoi conterranei, essa non voleva che i figli dormissero
nella medesima stanza coi muli. Valancourt
riuscì finalmente a pacificar tutti. Pregò l'albergatrice
di lasciare la stalla al mulattiere ed ai suoi
muli; cedè ai di lei figli le pelli stategli preparate
per riposarsi, e l'assicurò che, avvolto nel mantello,
avrebbe passato benissimo la notte su di una panca
vicino alla porta. La buona donna non voleva accettare
simile accomodamento, ma Valancourt insistè
tanto, che questo grande affare terminò così.


Era tardi, quando Sant'Aubert ed Emilia si ritirarono
nelle loro stanze; Valancourt restò dinanzi
alla porta. In quella bella stagione preferiva siffatto
posto ad una stanzuccia e ad un letto di pelli. Sant'Aubert
fu alcun poco sorpreso di trovare nella
camera Omero, Orazio ed il Petrarca, ma il nome
di Valancourt scritto su quei volumi, glie ne fece
conoscere il possessore.




CAPITOLO IV


Sant'Aubert si svegliò di buonissim'ora; il sonno
l'aveva ristorato, e volle partire subito. Valancourt
fece colazione con lui, e narrò che pochi mesi prima
era stato fino a Beaujeu, città grossa del Rossiglione,
e Sant'Aubert, dietro suo consiglio, si decise di
prendere quella direzione.


« La scorciatoia, e la strada che conduce a Beaujeu, »
disse il giovane, « si uniscono alla distanza
di una lega e mezza di qua: se volete permetterlo,
posso dirigervi il vostro mulattiere; bisogna ch'io
passeggi, e la passeggiata che farò con voi, vi sarà
più gradita di qualunque altra. »


Sant'Aubert accettò la proposta con grato animo;
partirono insieme, ma il giovine non volle acconsentire[42]
di entrare nella carrozza. La strada alle
falde de' monti percorreva una valle ridente splendida
per verzura e sparsa di boschetti. Numerosi
armenti vi riposavano all'ombra delle quercette, dei
faggi e de' sicomori; il frassino e la tremula lasciavan
ricadere le fronzute punte de' rami sulle aride
rocce; un po' di terra appena ne ricopriva le radici,
ed il più lieve soffio ne agitava tutti i rami.


Ad ogni ora del dì vi s'incontrava gente. Il sole
non compariva ancora, e già i pastori guidavano
una immensa mandra a pascere su pe' monti. Sant'Aubert
era partito assai presto per godere della
vista del sorger del sole e respirare l'aura pura
mattutina, tanto proficua a' malati, e che dovea esserlo
specialmente in quelle regioni ove la copia e
varietà delle piante aromatiche la impregnavano
della più soave fragranza.


La leggera nebbia che velava gli oggetti circostanti
dileguossi a poco a poco, e permise ad Emilia
di contemplare i progressi del dì.


I riflessi incerti dell'aurora, indorando le punte
delle rupi, rivestironle successivamente di vivida
luce, mentre la lor base ed il fondo della valle restavan
coperti da negro vapore. Intanto, le tinte
delle nubi d'oriente rischiararonsi, s'imporporarono,
e rifulsero alfine di mille splendidi colori.


La trasparenza dell'atmosfera lasciò allo scoverto
fiotti d'oro puro, i raggi brillanti fugarono le tenebre,
e penetrarono nelle fondure della valle ripercotendosi
negli argentei rivi: la natura destavasi
da morte a vita. Sant'Aubert si sentì ravvivato;
avea il cuore commosso; versò lagrime ed innalzò
i pensieri al Creatore di tutte le cose.


Emilia volle scendere a calpestar quell'erba tutta
rorida di fresca rugiada; essa voleva gustar quella
libertà onde il camoscio parea fruire sulle brune
vette de' monti. Valancourt sostava coi viaggiatori,
mostrando loro con sentimento gli oggetti particolari[43]
della sua ammirazione. Sant'Aubert se gli affezionava. — Il
giovine è focoso, ma buono; dicea
fra sè; — ben si vede che non ha mai abitato Parigi. — Egli
arrivò al punto dove si univano le due
strade, con molto suo dispiacere; e si congedò con
più cordialità che non lo permetta d'ordinario una
nuova conoscenza. Valancourt continuò a discorrere
buona pezza vicino alla carrozza; era il momento
di separarsi, e non dimanco restava sempre mettendo
in campo argomenti che lo scusassero di
questo prolungamento. Alla perfine accommiatossi,
e quando partì, Sant'Aubert osservò come contemplasse
Emilia con isguardo attento ed espressivo;
ella lo salutò con timida dolcezza; la carrozza partì,
ma Sant'Aubert poco dopo, sporgendo la testa, osservò
Valancourt immobile sulla strada, colle braccia
incrociate sul bastone, e gli occhi fissi sulla carrozza;
lo salutò colla mano, e Valancourt, scosso dalla
sua estasi, gli fece il saluto e si allontanò.


L'aspetto del paese cambiò in breve: i viaggiatori,
si trovavano allora in mezzo ad altissime
montagne coperte fino alla sommità da negri boschi
di abeti. Varie punte granitiche, sorgendo dalla
valle stessa, andavan a celare in grembo alle nubi
le nevose cime. Il ruscello, divenuto un fiume, scorreva
in dolce silenzio, e quei cupi boschi riflettevano
la loro ombra nelle sue limpide acque. Per
intervalli uno scosceso dirupo inalzava l'ardita
fronte al di sopra dei boschi e dei vapori che servivan
di cintura ai monti; talvolta una marmorea
aguglia sosteneasi perpendicolarmente al fiorito
margine delle acque; un larice colossale la stringea
colle robuste braccia, e la sua fronte, solcata
dalla folgore, coronavasi ancora di verdi pampini.


Quando la carrozza camminava adagio, Sant'Aubert
scendeva, e si compiaceva di andare in cerca
di piante curiose, ond'erano sparsi quei luoghi;
Emilia, nell'esaltazione dell'entusiasmo, s'internava[44]
nei folti boschi, tendendo l'orecchio in silenzio al
loro imponente mormorio.


Per lo spazio di molte leghe non incontrarono
nè villaggi, nè casali di sorte alcuna; qualche capanna
di cacciatori qua e là era la sola traccia di
abitazione umana. I viaggiatori pranzarono a ciel
sereno, in un bel sito della valle, assisi all'ombra
dei faggi; dopo di che partirono immediatamente
per Beaujeu.


La strada saliva sensibilmente, e lasciando i pini
disotto a loro, trovaronsi in mezzo a precipizi. Il
crepuscolo della sera accrescea l'orrore de' luoghi,
ed i viaggiatori ignoravano la distanza di Beaujeu.
Sant'Aubert nonpertanto credea di non esserne
molto lontano, e si rallegrava di non aver quindi
più oltre quella città, a varcare simili deserti. Le
selve, le rupi, i circostanti gioghi confondevansi a
poco a poco nell'oscurità, ed in breve non fu più
possibile discernere quelle indistinte immagini. Michele
precedeva cauto, appena scorgendo la via ma
le sue mule, più esperte, camminavano ancora con
passo franco.


Alla svolta di un monte, videro un lume; i dirupi
e l'orizzonte furono illuminati a gran distanza.
Gli era certo un gran fuoco, ma nulla indicava se
fosse accidentale o preparato. Sant'Aubert lo credette
acceso da qualche masnada di quei banditi che
infestavano i Pirenei; stava molto attento, e desiderava
sapere se la strada passava vicino a quel
fuoco. Aveva armi da potersi difendere in caso di
bisogno; ma a che serviva una sì debole risorsa
contro una banda di assassini determinati? Rifletteva
a questa circostanza, quando udì una voce
dietro di essi, che intimava al mulattiere di fermarsi.
Sant'Aubert gli ordinò di camminar più
presto, ma o fosse per testardaggine di Michele, o
dei muli, questi non cambiarono il loro passo; s'intese
il galoppo di un cavallo; un uomo raggiunse[45]
la carrozza, e ordinò nuovamente di fermarsi. Sant'Aubert,
non dubitando più del costui disegno,
scaricò una pistola dallo sportello; l'incognito vacillò
sul cavallo, ed il romore del colpo fu seguito
da un gemito di dolore. Sarà facile immaginarsi lo
spavento di Sant'Aubert, il quale credè riconoscere
allora la voce dolente di Valancourt. Fece arrestare
egli stesso la carrozza, pronunziò il nome del giovane,
e non potè averne più alcun dubbio. Scese
tosto, e corse a soccorrerlo; il giovane era ancora
a cavallo, il suo sangue scorreva in copia, e sembrava
soffrir molto, sebbene cercasse di consolare
Sant'Aubert, assicurandolo che non era nulla, e sentivasi
ferito solo leggermente nel braccio. Sant'Aubert
e il mulattiere lo aiutarono a smontare e l'adagiarono
in terra; il primo voleva fasciargli la ferita,
ma gli tremavano le mani talmente, che non
potè riuscirvi. Michele intanto correa dietro al cavallo
ch'era fuggito mentre ne scendea il padrone;
chiamò Emilia, e non ricevendo risposta, corse alla
carrozza, e la trovò svenuta. In questa terribile situazione,
e spinto dal dolore di lasciare Valancourt
perdere il sangue, si sforzò di sollevarla, e chiamò
Michele per chieder acqua dal ruscello vicino. Michele
era andato troppo lontano, ma Valancourt,
udendo il nome di Emilia, capì di che si trattava,
ed obbliando sè medesimo, andò in suo soccorso;
essa era già rinvenuta quando le fu vicino; egli
seppe che il deliquio era stato cagionato dal timore
del sinistro occorsogli, e con voce turbata da tutt'altro
sentimento che da quello del dolore, l'assicurò
che la sua ferita era di pochissima conseguenza.
Sant'Aubert si accorse allora che il sangue non era
ancora stagnato; i suoi timori cambiarono oggetto;
lacerò un fazzoletto per bendargli la piaga: il sangue
si fermò, ma egli temendo le conseguenze, domandò
più volte se Beaujeu fosse ancora molto lontano,
ed avendo inteso ch'era distante due leghe,[46]
il suo timore crebbe. Ignorava se Valancourt avrebbe
potuto resistere al moto della carrozza, e lo vedeva
sul punto di svenire. Appena questi ebbe conosciuta
la sua inquietudine, si affrettò di rincorarlo, e parlò
della sua avventura come di una bagatella. Michele
aveva ricondotto il cavallo; Valancourt, salì nella
carrozza; Emilia s'era riavuta, e continuarono la
strada di Beaujeu.


Sant'Aubert, rinvenuto dal terrore, manifestò la
sua sorpresa sull'incontro di Valancourt; ma questi
la fece cessare. « Voi avete rinnovato il mio
gusto per la società, » gli disse; « dopo la vostra partenza,
il mio casolare mi sembrava un deserto. E giacchè
il mio unico scopo è quello di viaggiare per diletto,
mi sono deciso di partire immediatamente. Ho presa
questa strada, perchè sapeva ch'era più bella di
qualunque altra; e d'altronde, » aggiunse esitando
un poco, « lo confesserò (e perchè non dovrei confessarlo?),
io aveva qualche speranza di raggiungervi. — Ed
io ho crudelmente corrisposto alla
vostra gentilezza, » riprese Sant'Aubert, che si
rimproverava la sua fretta, e glie ne spiegò il motivo.
Ma Valancourt, premuroso di evitare qualunque
inquietudine sul di lui conto, nascose l'ambascia
che provava, e seguitò a conversare allegramente.
Emilia stava in silenzio, a meno che Valancourt
non le volgesse la parola, ed il tuono commosso
con cui lo faceva, valeva da per sè loro ad esprimere
molto.


Trovavansi allora presso a quel fuoco che spiccava
tanto vivamente nell'oscurità della notte: illuminava
allora la strada tutta, e poteasi facilmente
distinguere le figure che la circondavano. Accostandosi,
riconobbero una banda di zingari che, specialmente
in quell'epoca frequentavano i Pirenei,
svaligiando i viaggiatori. Emilia notò con ispavento
l'aspetto truce di quella compagnia, ed il fuoco che
li rischiarava, diffondendo una nube purpurea sugli[47]
alberi, gli scogli e le frondi, aumentava l'effetto
bizzarro del quadro.


Tutti quegli zingari preparavano la cena. Una
larga caldaia stava sul fuoco, e parecchie persone
occupavansi ad empirla. Lo splendore della fiamma
faceva scorgere una specie di rozza tenda, intorno
alla quale giuocherellavano alla rinfusa ragazzi e
cani. Il tutto formava un complesso veramente
grottesco. I viaggiatori sentivano il pericolo. Valancourt
taceva, ma mise la mano sur una delle
pistole di Sant'Aubert, il quale, fatto altrettanto,
fece avanzare il mulattiere. Passarono nondimeno
senza ricevere insulti. I ladri non s'aspettavano probabilmente
a tale incontro, ed occupavansi troppo
della cena per sentire allora tutt'altro interesse.


Dopo un'ora e mezza di cammino nella più profonda
oscurità, i viaggiatori arrivarono a Beaujeu
e smontarono al solo albergo che vi fosse, e che,
sebbene molto superiore alle capanne, non cessava
però di essere cattivo.


Fu fatto venire immediatamente il chirurgo della
città, se tuttavolta si può dar questo nome ad una
specie di maniscalco, che curava uomini e cavalli,
e che in caso di bisogno, faceva anche da barbiere.
Esaminò il braccio di Valancourt, e avendo riconosciuto
che la palla non era penetrata nelle carni, lo
medicò e gli raccomandò il riposo; ma il paziente
non era in verun modo disposto ad obbedirlo. Il
piacere di star meglio era succeduto all'inquietudine
del male; chè ogni godimento diviene positivo
quando contrasta con un pericolo. Valancourt aveva
riacquistate le forze, e volle prender parte alla conversazione.
Sant'Aubert ed Emilia, liberi da qualunque
timore, erano di una singolare allegrezza.
Era già tardi, e Sant'Aubert fu costretto di uscire
col locandiere per andar a cercare qualche cosa per
la cena. Emilia, nell'intervallo, si assentò anch'essa
sotto pretesto di mettere in ordine alcune sue cose;[48]
trovò l'alloggio meglio disposto di quello che credea
e quindi tornò a raggiugnere Valancourt. Parlarono
delle vedute scoperte in quel giorno, dell'istoria
naturale, della poesia, e finalmente del padre d'Emilia
la quale non poteva parlare o sentir parlare, se non
con gioia, d'un soggetto tanto caro al suo cuore.


La serata passò piacevolmente, ma siccome
Sant'Aubert era stanco, e Valancourt soffriva ancora,
si separarono subito dopo cena.


La mattina seguente, Valancourt aveva la febbre,
non aveva dormito e la sua ferita era infiammata:
il chirurgo, che venne a visitarlo di buon'ora, lo
consigliò di restar tranquillo a Beaujeu. Sant'Aubert
aveva pochissima fiducia nei di lui talenti; ma
avendo inteso che non se ne poteva trovare uno
più abile, cambiò il suo piano, e risolse di aspettare
la guarigione del malato. Valancourt parve cercar
di dissuadernelo, ma con più garbo che buona fede.
La sua indisposizione trattenne i viaggiatori per più
giorni colà. Sant'Aubert ebbe luogo di conoscere
i di lui talenti ed il suo carattere, con quella precauzione
filosofica, che sapeva tanto bene impiegare
in tutte le circostanze. Conobbe un naturale franco
e generoso, pieno di ardore, suscettibile di tutto
ciò ch'è grande e buono, ma impetuoso, quasi selvaggio
ed alquanto romanzesco. Valancourt conosceva
poco il mondo; avea idee assennate, sentimenti
giusti; la sua indignazione, come la sua stima
si esprimevano senza misura, nè riguardi. Sant'Aubert
sorrideva della sua veemenza, ma la reprimea
di rado, e diceva fra sè: — Questo giovine, senza
dubbio, non è mai stato a Parigi. — Un sospiro
succedeva a queste riflessioni: egli era deciso di
non lasciar Valancourt prima del suo pieno ristabilimento,
e siccome esso era allora in istato di
viaggiare, ma non a cavallo, Sant'Aubert l'invitò ad
approfittar qualche giorno della sua carrozza. Avendo
saputo che il giovine era d'una famiglia distinta di[49]
Guascogna, il cui grado e la considerazione erangli
ben noti, la sua riserva fu meno grande, e Valancourt
avendo accettato l'offerta con piacere, ripresero
tutti insieme la strada che conduceva al Rossiglione.


Viaggiavano senza sollecitarsi, fermandosi quando
il sito meritava attenzione; s'inerpicavano spesso
sopra alture, cui non potevan giugnere le mule;
smarrivansi tra que' dirupi, coperti di lavanda, di
timo, di ginepro di tamarindo, e protetti da ombre
antiche; una bella vista entusiasmava Emilia, superando
le maraviglie della più fervida imaginazione.
Sant'Aubert si divertiva talvolta ad erborizzare,
mentre Emilia e Valancourt attendevano a qualche
scoperta: il giovane le faceva osservare gli oggetti
particolari della sua ammirazione, e recitava i più
bei passi dei poeti italiani o latini cui essa prediligeva.
Nell'intervallo della conversazione, e quando
non era osservato, fissava gli sguardi su quel leggiadro
volto, i cui lineamenti animati indicavano
tanto spirito ed intelligenza: quando parlava in seguito,
la dolcezza della sua voce palesava un sentimento
cui cercava invano di nascondere. Grado
grado, le pause ed il silenzio di lui divennero più
frequenti: Emilia mostrò molta premura d'interromperli:
essa fin allora così riservata, parlava del
continuo, ora dei boschi, ora delle valli, ora dei
monti, anzichè esporsi al pericolo di certi momenti
di silenzio e di simpatia.


La via di Beaujeu saliva rapidissimamente: ei
si trovarono in mezzo a' più eccelsi monti; la serenità
e purezza dell'aere, in quell'alte regioni, entusiasmavano
i tre viaggiatori; l'anima loro ne pareva
alleggerita, ed il loro spirito diventato più
penetrante. Ei non avevano parole ad esprimere
emozioni tanto sublimi, quelle di Sant'Aubert ricevevano
un espressione più solenne: le lagrime
irrigavangli le guancie, e camminava in disparte.[50]
Valancourt parlava tratto tratto per attirar l'attenzione
di Emilia; la limpidezza dell'atmosfera che
lasciavale distinguere tutti gli oggetti, ingannavala
talvolta, e sempre con piacere. Essa non poteva
credere sì lunge da lei ciò che parevale così vicino;
il silenzio profondo della solitudine non era interrotto
se non dal grido delle aquile svolazzanti per
l'aere, e dal sordo rumoreggiar de' torrenti in fondo
degli abissi. Di sopra ad essi la splendida volta de'
cieli non era oscurata da nube alcuna, i vortici
di vapore sostavano in grembo a' monti, il loro
rapido movimento velava talvolta tutto il paese, e
tal altra scoprendone parte, lasciava all'occhio alquanti
momenti d'osservazione. Emilia, estatica, contemplava
la grandezza di quelle nubi che variavano
forma e tinte; ne ammirava l'effetto sulle sottostanti
contrade cui davano ad ogni istante mille nuove
forme.


Dopo aver viaggiato così per parecchie leghe,
cominciarono a scendere nel Rossiglione, e la scena
che si svolse spiegava una bellezza meno aspra. I
viaggiatori rammaricavano gli oggetti imponenti cui
stavan per abbandonare. Benchè stancato da que'
vasti aspetti, l'occhio riposava gradevolmente sul
verde de' boschi e de' prati; il fiume che irrigavali
la capanna sotto l'ombra de' faggi, i giulivi crocchi
de' pastorelli, i fiori che adornavano i clivi, formavano
insieme uno spettacolo incantevole.


Scendendo, riconobbero uno de' grandi varchi
de' Pirenei in Ispagna: i fortilizi, le torri, le mura,
ricevevano allora i raggi del sole all'occaso; le
selve circostanti non avevano più se non un riflesso
giallastro, mentre le punte de' dirupi tingeansi ancora
di rosa.


Sant'Aubert guardava attento senza scoprire la
piccola città indicatagli. Valancourt non poteva informarlo
della distanza, non essendo mai ito tant'oltre;
pur iscorgevano una strada, e doveano crederla[51]
diretta, giacchè dopo Beaujeu non avean potuto
smarrirsi da alcuna parte.


Il sole era vicino al tramonto, e Sant'Aubert
sollecitò il mulattiere; egli sentivasi assai debole,
e desiderava vivamente il riposo; dopo una sì faticosa
giornata la sua inquietudine non si calmò, osservando
un gran treno d'uomini, di muli e di cavalli carichi,
che sfilavano pei sentieri dell'opposto monte, e siccome
i boschi ne celavano spesso il cammino, non
si poteva precisarne il numero: qualcosa di brillante,
come d'armi risplendeva agli ultimi raggi del
sole e la divisa militare si distingueva sui primi, e
su qualche individuo sparso fra la comitiva. Appena
furono nella valle, un'altra banda uscì dai boschi,
ed i timori di Sant'Aubert aumentarono, non dubitando
non fossero tanti contrabbandieri arrestati
nei Pirenei, e scortati dalla soldatesca.


I viaggiatori avevano errato tanto nelle montagne
che s'ingannarono nei loro calcoli, e non poterono
giungere a Montignì prima della notte. Traversarono
la valle, e notarono sopra un rustico ponte che riuniva
due coste, un crocchio di fanciulli i quali divertivansi
a lanciar sassi nel torrente; le pietre nel
cadere, facevano spruzzar colonne d'acqua mandando
un sordo fragore ripercosso alla lontana dagli echi
dei monti. Sotto il ponte scoprivasi tutta la valle
in prospettiva, una cateratta in mezzo alle rupi, ed
una capanna sopra una punta protetta da annosi
abeti. Quell'abitazione parea dovesse esser vicina
ad una piccola città. Sant'Aubert fece fermare: chiamò
i ragazzi, e lor chiese se Montignì fosse molto lontano;
ma la distanza, lo strepito delle acque non
gli permisero di farsi udire, e la ripidezza delle
montagne che sostenevano il ponte era troppa perchè
tutt'altri fuor d'un alpigiano pratico potesse ascenderle.
Sant'Aubert dunque dovette decidersi a continuare
col favore del crepuscolo la strada, la quale era talmente
disagiosa che parve miglior consiglio scendere[52]
di vettura. La luna cominciava a spuntare, ma tramandava
troppo fioca luce; e' camminavano a caso
in mezzo ai pericoli. In quel punto si udì la campana
d'un convento; la fitta tenebria impediva la
vista dell'edifizio, ma il suono pareva venire dai
boschi che coprivano il monte di destra. Valancourt
propose d'andarne in cerca. « Se non troviam ricovero
in quel convento, » dicea egli, « almeno c'indicheranno
la distanza o la posizione di Montignì. »
E si mise a correre senza aspettar risposta; ma
Sant'Aubert lo richiamò dicendogli: « Io sono orribilmente
stanco, ho bisogno di pronto riposo;
andiamo tutti al convento; il vostro robusto aspetto
sventerebbe i nostri disegni; ma quando si vedrà
il mio spossamento e la stanchezza d'Emilia, non ci
si negherà ricetto. »


Sì dicendo, prese il braccio d'Emilia, e raccomandando
a Michele d'aspettarlo, seguì il suono
della campana e salì dalla parte dei boschi, ma a
passi vacillanti. Valancourt gli offerse il braccio cui
accettò. La luna venne a rischiarare il sentiero, e
lor permise in breve di scorgere torri che sorgevano
sul colle. La campana continuava a guidarli;
entrarono nel bosco, ed il fioco chiarore della luna
divenne più incerto per l'ombra ed il tremolio delle
foglie. L'oscurità, il cupo silenzio, quando la campana
non suonava, la specie d'orrore ispirato da un
luogo sì selvaggio, tutto riempì Emilia d'uno spavento
che la voce e la conversazione di Valancourt
poteva solo diminuire. Dopo alcun tempo di salita,
Sant'Aubert, si lamentò, e tutti sostarono sur un
erboso poggio, dove gli alberi, più radi, lasciavan
godere il chiaro della luna. Sant'Aubert sedette
sull'erba tra i due giovani. La campana non suonava
più, e la quiete notturna non era interrotta da strepito
veruno, avvegnacchè il fragor sordo di qualche
lontano torrente paresse accompagnare, anzichè
turbare il silenzio.[53]


Avevano allora sott'occhio la valle testè lasciata.
La luce argentea che ne scopriva le fondure, riflettendo
sulle rupi e le selve di sinistra, contrastava
colle tenebre, onde i boschi a destra erano come
avvolti. Le cime sole erano illuminate a sbalzi; il
resto della valle perdeasi in seno ad una nebbia,
di cui lo stesso chiaro di luna non serviva che a
crescere la foltezza. I viaggiatori ristettero alcun
tempo a contemplare quel bell'effetto.


« Simili scene, » disse Valancourt, « dilettano il
cuore come i concenti di deliziosa musica; chiunque
ha gustata una volta la melanconia ch'esse ispirano
non vorrebbe mutarne l'impressione per quella dei
più squisiti piaceri. Elleno destano i nostri più puri
sentimenti; dispongono alla benevolenza, alla pietà,
all'amicizia. Coloro ch'io amo, parvemi sempre
d'amarli assai più in quest'ora solenne. » Tremogli
la voce, e sostò.


Sant'Aubert nulla dicea. Emilia vide cadere una
lagrima sulla mano cui stringeva tra le proprie. Indovinonne
ben essa il pensiero; anche il suo era
corso alla pietosa memoria della genitrice. Ma Sant'Aubert,
rianimandola: « Oh sì, » disse reprimendo
un sospiro, « la memoria di quelli che noi amiamo,
di un tempo trascorso per sempre, gli è in questo
istante che si posa sulle anime nostre! È come una
melodia lontana in mezzo al silenzio delle notti, come
le tinte raddolcite di questo paesaggio. » Poscia,
dopo una pausa, continuò: « Io ho sempre creduto
le idee più lucide a quest'ora che in qualunque altra,
ed il cuore che non ne riconosce l'influenza, è di
certo un cuore snaturato. Vi son tanti.... »


Valancourt sospirò.


« Ve ne sono dunque molti? » disse Emilia. — Fra
alcuni anni forse, cara figlia, » rispose
Sant'Aubert, « tu sorriderai ricordandoti tale domanda,
se tuttavolta questa memoria non ti strapperà[54]
le lagrime. Ma vieni, mi sento un po' meglio.
Andiamo innanzi. »


Uscirono finalmente dal bosco, e videro sopra
un'eminenza il convento cui aveano tanto cercato.
Un muro altissimo che lo circondava li condusse
ad un'antica porta; bussarono, ed il laico che venne
ad aprire li condusse in una sala vicina, pregandoli
di aspettare fino a che fosse avvertito il superiore.
Nell'intervallo, comparvero parecchi frati ad osservarli
con curiosità; poco stante ritornò il laico e li
scortò innanzi al superiore. Egli sedeva in un seggiolone;
aveva un grosso libro davanti a sè, sostenuto
da vasto leggìo. Ricevè garbatamente i viaggiatori
senza alzarsi, fece loro poche interrogazioni, ed acconsentì
alla loro domanda. Dopo una brevissima
conferenza, fatti i debiti complimenti, furono condotti
in una stanza, ove si preparava la cena, e
Valancourt, accompagnato da un frate, andò a cercare
Michele, la carrozza ed i muli. Appena ebbe
scesa la metà della strada, udì la voce del mulattiere,
il quale chiamava i nostri viaggiatori per
nome. Convinto, non senza difficoltà, che tanto lui,
quanto il suo padrone non avevano più nulla da
temere, si lasciò condurre in una capanna vicino al
bosco. Valancourt tornò in fretta a cenare cogli
amici, ma Sant'Aubert soffriva troppo per mangiare
con appetito. Emilia, assai inquieta per suo padre,
non sapeva pensare a sè medesima, e Valancourt,
mesto e pensieroso, ma sempre occupato di loro,
non pensava ad altro se non a confortare ed incoraggire
Sant'Aubert. Separatisi presto, si ritirarono
nelle loro stanze. Emilia dormì in un gabinetto contiguo
alla camera del padre; trista, pensierosa ed
occupata soltanto dello stato di languore in cui lo
vedeva, coricossi senza speranza di riposo.


Due ore dopo una campana squillò, e passi precipitosi
percorsero i corridoi. Poco esperta degli
usi claustrali, Emilia spaventossi; i suoi timori,[55]
sempre vivi pel padre, le fecero supporre che stesse
più male; si alzò in fretta per correre da lui, ma
essendosi fermata un momento all'uscio onde lasciar
passare i frati, ebbe tempo di riaversi, di riordinare
le idee, e comprendere che la campana aveva suonato
mattutino. Questa campana non suonava più,
tutto era quiete, ed essa non andò più oltre; ma,
non potè dormire, ed allettata d'altra parte dal fulgore
d'una splendida luna, aprì la finestra e si mise
a rimirar il paese.


Placida era la notte e bella, il firmamento senza
nubi, e lieve zeffiro agitava appena gli alberi della
valle. Stava attenta, allorchè l'inno notturno dei religiosi
sorse dolcemente dalla cappella, situata in
luogo più basso, talchè il sacro cantico parea salire
al cielo traverso il silenzio delle notti. I pensieri
susseguironsi; dall'ammirazione delle opere, l'anima
sua passò all'adorazione del loro onnipossente e
buono autore. Penetrata d'una pietà pura e scevra
da profani sentimenti, l'anima sua elevossi al disopra
dell'universo; gli occhi versaron lagrime; ella adorò
la Potenza infinita nelle sue opere, e la bontà sua
ne' suoi benefizi.


Il cantico de' frati cesse di nuovo il posto al silenzio;
ma Emilia non lasciò la finestra se non
quando la luna, essendo tramontata l'oscurità parve
invitarla al riposo.




CAPITOLO V


Sant'Aubert si trovò la mattina seguente bastantemente
in forza per continuare il viaggio, e sperando
arrivare lo stesso giorno nel Rossiglione, si
mise in cammino di buonissim'ora. La strada che
percorrevano allora i viaggiatori, offriva vedute selvagge
e pittoresche come le precedenti; solo tratto
tratto le scene, meno severe, spiegavano una bellezza
più amena e ridente.[56]


Quando Sant'Aubert parea occupato delle piante,
contemplava con trasporto Emilia e Valancourt, i
quali passeggiavano insieme; questi col contegno e
l'emozione del piacere indicava una bella vista nella
scena che lor s'offriva; quella ascoltava e guardava
con un'espressione di sensibilità seria indicante l'elevatezza
del suo spirito. Rassembravano a due
amanti, i quali mai non avessero lasciati i monti
natii, che la situazione loro avesse preservati dal
contagio delle frivolezze; le cui idee, semplici e
grandiose come il paesaggio che percorrevano, non
comprendessero la felicità se non nella tenera unione
de' cuori puri. Sant'Aubert sorrideva e sospirava a
un tempo, pensando alla romanzesca felicità onde la
sua imaginazione offerivagli il quadro; sospirava
inoltre pensando quanto la natura e la semplicità
fossero mai estranee al mondo, poichè i loro soavi
diletti parevano un romanzo.


— Il mondo, » dicea egli seguendo il proprio
pensiero, « il mondo mette in ridicolo una passione
cui appena conosce; i suoi movimenti ed interessi
distraggono lo spirito, depravano i gusti, corrompono
il cuore; e l'amore non può esistere in un
cuore quando non ha più la cara dignità dell'innocenza.
La virtù e la simpatia son quasi la medesima
cosa; la virtù è la simpatia messa in azione, e le
più delicate affezioni di due cuori formano insieme
il vero amore. Come mai potrebbesi cercar l'amore
in seno alle grandi città? La frivolezza, l'interesse,
la dissipazione, la falsità vi surrogano del continuo
la semplicità, la tenerezza e la franchezza. —


Era quasi mezzodì quando i viaggiatori giunsero
ad un passo sì pericoloso che lor fu d'uopo scendere
di carrozza; la strada era contornata da boschi,
e anzichè continuare innanzi, si misero a cercar
l'ombra. Un umido rezzo era diffuso per l'aere;
lo splendido smeraldo dell'erba, la bella miscea de'
fiori, de' balsami, de' timi e delle lavande che la[57]
smaltavano; l'altezza de' pini, de' frassini e de' castagni
che ne proteggevano l'esistenza, tutto concorrea
a far di quello un luogo veramente delizioso.
Talvolta il fogliame, più fitto, interdicea la vista del
paesaggio; altrove, qualche misterioso varco lasciava
traveder all'imaginazione quadri assai più leggiadri
che fin allora non avesse osservati, ed i viaggiatori
abbandonavansi volentieri a que' godimenti quasi
ideali.


Le pause ed il silenzio che avevano già interrotto
i colloqui di Valancourt e d'Emilia furono quel dì
molto più frequenti. Il giovane, dalla vivacità più
espressiva, cadeva in un accesso di languore, e la
malinconia pingevasi senz'arte fin nel di lui sorriso.
La fanciulla non poteva più ingannarsi: il suo proprio
cuore partecipava il medesimo sentimento.


Quando Sant'Aubert fu ristorato, continuarono a
camminare pel bosco, credendo sempre costeggiar
la strada; ma s'accorsero alfine d'averla smarrita
affatto. Avevano seguito il declivio ove la beltà de'
luoghi li tratteneva, e la strada andava invece montando
su per la ripida costa. Valancourt chiamò
Michele, ma l'eco solo rispose alle sue grida, ed i
suoi sforzi furono parimente vani per ritrovar la
strada. In tale stato, scorsero fra gli alberi, a qualche
distanza, la capanna d'un pastore. Valancourt
vi corse per chiedere qualche indicazione; giuntovi,
vi trovò soltanto due ragazzi che giocavan sull'erba.
Guardò in casa, e non vide nessuno. Il maggiore de'
fanciulli gli disse che suo padre trovavasi ne' campi,
sua madre nella valle, nè tarderebbe a tornare. Il
giovane pensava a quanto convenisse fare, allorchè
la voce di Michele echeggiò d'improvviso su le rupi
circostanti. Valancourt rispose tosto e cercò d'andare
a raggiungerlo; dopo un faticoso lavoro tra le
boscaglie ed i massi, lo raggiunse alfine ed a stento
riescì a farlo tacere. La strada era lontanissima dal
luogo ove riposavano il padre e la figlia. Era difficile[58]
di condur fin là la vettura; sarebbe stato troppo
penoso per Sant'Aubert d'inerpicarsi pel bosco, com'egli
stesso avea fatto, ed il giovane era angustiato
molto per trovare un cammino più praticabile.


Intanto, Sant'Aubert ed Emilia eransi accostati
alla capanna e riposavano sopra una panca campestre
situata fra due pini ed ombreggiata dalle loro
frondi; avean guardato a Valancourt, ed aspettavano
che li raggiungesse.


Il maggiore de' ragazzi aveva lasciato il giuoco
per rimirar i viaggiatori; ma il piccino continuava
i suoi salti e tormentava il fratello perchè tornasse
ad aiutarlo. Sant'Aubert considerava con piacere
quella fanciullesca semplicità, quando d'improvviso
tale spettacolo, rammentandogli i figli perduti in
quella fresca età, ed in ispecie la loro diletta madre,
lo fece ricadere nella mestizia. Emilia, accortasene,
cominciò una di quelle ariette commoventi cui egli
tanto prediligeva, e ch'ella sapeva cantar colla massima
grazia ed espressione. Il padre le sorrise attraverso
le lagrime, le prese la mano, la strinse teneramente
e cercò bandire i malinconici pensieri.
Essa cantava ancora, quando Valancourt tornò; egli
non volle interromperla, e sostò ad ascoltare. Quand'ebbe
finito, accostossi e narrò d'aver trovato Michele
ed anche una strada per ascendere il dirupo.
Sant'Aubert, a tai parole, ne misurò coll'occhio la
tremenda altezza; sentivasi oppresso, e la salita
pareagli spaventosa. Il partito però sembravagli
preferibile ad una strada lunga e scabrosa affatto;
risolse di tentarlo, ma Emilia, sempre premurosa,
gli propose di pranzare in prima, onde ristorar alquanto
le forze, e Valancourt tornò alla vettura a
cercarvi provvigioni.


Al ritorno, propose di collocarsi un po' più in
alto, essendovi la vista più bella ed estesa. Stavano
per recarvisi, quando videro una giovane accostarsi
ai ragazzi, accarezzarli, e piangere amaramente.[59]


I viaggiatori, interessati dalla di lei sventura, sostarono
a meglio osservarla. Essa prese in braccio
il minore de' figli, e scorti i forestieri, si terse le
lagrime in fretta ed accostossi alla capanna. Sant'Aubert
le chiese la causa della di lei afflizione. Gli
diss'ella che suo marito era un povero pastore, il
quale tutti gli anni passava la state in quella capanna
per condur a pascere un armento sui monti. La
notte precedente aveva perduto tutto; una banda di
zingari, i quali da qualche tempo infestavano la
contrada, avean rapite tutte le pecore del suo padrone.
« Jacopo, » aggiunse la donna, « avendo accumulato
qualche peculio, avea comperato poche pecore
per noi; ma adesso bisognerà darle per sostituire
il gregge tolto al padrone; il peggio si è che
quando questi saprà la cosa, non vorrà più affidarci
i suoi montoni; è un uomo cattivo; ed allora, che
cosa sarà de' nostri figliuoli? »


L'atteggiamento di quella donna, la semplicità
del suo racconto ed il suo sincero dolore indussero
Sant'Aubert a crederne la trista storia. Valancourt,
convinto ch'era vera, chiese tosto quanto valesse il
gregge rubato; allorchè lo seppe, rimase sconcertato.
Sant'Aubert diè qualche moneta alla donna;
Emilia vi contribuì col suo borsellino, e quindi avviaronsi
al luogo convenuto. Valancourt restò di
dietro parlando colla moglie del pastore, la quale
allora piangeva per la gratitudine e la sorpresa; le
chiese quanto le mancasse ancora per ripristinare
il gregge rapito. Trovò che la somma era quasi la
totalità di quanto portava seco. Stava egli incerto
ed afflitto. — Tale somma, dicea tra sè, basterebbe
alla felicità di questa povera famiglia; sta in poter
mio il darla, e renderli lieti e contenti; ma come
farò poi io? come tornerò a casa col poco che mi
resterà? — Esitò alcun tempo; trovava una voluttà
singolare a salvare una famiglia dalla rovina,
ma sentiva la difficoltà di proseguir la sua strada
col poco danaro che avrebbesi riservato.[60]


Stava così perplesso, quando comparve lo stesso
pastore. I figliuoli gli corsero incontro; egli ne
prese uno in braccio, e coll'altro attaccato alla cintola,
inoltrò a lenti passi. Il suo aspetto abbattuto,
costernato, decise Valancourt; gettò tutto il danaro
che avea, tranne pochi scudi, e corse dietro a Sant'Aubert,
il quale, sorretto da Emilia, incamminavasi
verso l'erta. Il giovane non erasi mai sentito
l'animo sì leggero; il cuore balzavagli dalla gioia,
e tutti gli oggetti a lui intorno parevano più belli
ed interessanti. Sant'Aubert osservò i di lui trasporti,
e gli disse:


« Che cos'avete che sì v'incanta?


— Oh! la bella giornata! » sclamava Valancourt;
« come splende il sole, come pura è l'aura qual
sito magico!


— E stupendo! » disse Sant'Aubert, la cui felice
esperienza spiegava facilmente l'emozione di
Valancourt; « peccato che tanti ricchi, i quali potrebbero
procurarsi a piacimento uno splendido sole,
lascino avvizzir i lor giorni nelle nebbie dell'egoismo!
Per voi, mio giovine amico, possa sempre il
sole sembrarvi bello quant'oggi; possiate voi, nell'attiva
vostra beneficenza, riunir sempre la bontà
e la saviezza! »


Valancourt, onorato di tal complimento, non potè
rispondere se non con un sorriso, e fu quello della
gratitudine.


Continuarono a traversare il bosco tra le fertili
gole de' monti. Giunti appena nel sito ove volean
recarsi, tutti insieme proruppero in un'esclamazione;
dietro ad essi, la rupe perpendicolare sorgeva a
prodigiosa altezza e spartivasi allora in due punte
egualmente alte. Le loro grige tinte contrastavano
collo smalto de' fiori sbuccianti tra i crepacci; i
burroni sui quali l'occhio scorrea rapido per ispingersi
giù nella valle, erano sparsi anch'essi d'arboscelli;
più giù ancora, un verde tappeto indicava[61]
i castagneti, in mezzo a' quali scorgeasi la capanna
del povero pastore. Da ogni parte, i Pirenei ergeano
le maestose cime; talune, carche d'immensi massi
di marmo, mutavan colore ed aspetto nel medesimo
tempo del sole; altre, ancor più alte, mostravan
soltanto le nevose punte, e le basi colossali, uniformemente
tappezzate, coprivansi sin giù nella valle
di pini, larici e verdi querce. Questa valle, benchè
stretta, era quella che conduceva al Rossiglione; i
freschi pascoli, la doviziosa coltura contrastavano
stupendamente colla grandiosità delle masse circostanti.
Fra le catene prolungate di monti scoprivasi
il basso Rossiglione, e la grande lontananza, confondendo
tutte le gradazioni, parea riunir la costa
ai candidi flutti del Mediterraneo. Un promontorio
su cui sorgeva un faro indicava solo la separazione
ed il lido; stormi d'uccelli marini volavano intorno.
Più lungi però distinguevansi alcune bianche vele;
il sole ne aumentava il candore, e la lor distanza
dal faro ne facea giudicar la celerità; ma eravene
di sì lontane, che servivan soltanto a separare il
cielo ed il mare.


Dall'altra parte della valle, proprio in faccia ai
viaggiatori, eravi un passaggio fra le rocce, che
guidava in Guascogna. Costà, nessun vestigio di
coltura; gli scogli di granito ergevansi spontaneamente
dalle basi, trapassando i cieli colle sterili
aguglie; costà, nè foreste, nè cacciatori, nè tuguri:
talvolta però un gigantesco larice gettava l'immensa
sua ombra sopra un incommensurabile precipizio, e
talfiata una croce sopra un dirupo accennava al
viaggiatore il terribil destino di qualche imprudente.
Il loco parea destinato a diventare un ricovero
di banditi; Emilia ad ogni istante aspettavasi
a vederli sbucare; poco dopo, un oggetto non meno
terribile le colpì la vista. Una forca, eretta all'ingresso
del passaggio, e proprio al disopra d'una
croce, spiegava bastantemente qualche tragico fatto.[62]
Evitò essa di parlarne a Sant'Aubert, ma tal vista
inquietolla; avrebbe voluto sollecitare il passo per
giungere con certezza prima del tramonto. Ma il
padre avea bisogno di rifocillarsi, e, sedendo sull'erba,
i viaggiatori votarono il paniere.


Sant'Aubert fu rianimato dal riposo e dall'aria
serena di quella spianata. Valancourt era talmente
estatico, talmente bisognoso di conversare, che parea
aver dimenticata tutta la strada che restava da
fare. Finito il pasto, fecero un lungo addio a quel
sito maraviglioso e tornarono ad inerpicarsi. Sant'Aubert
ritrovò la carrozza con piacere; Emilia vi
salì secolui: ma volendo conoscere più minutamente
la deliziosa contrada dove stavano per discendere,
Valancourt slegò i suoi cani e li seguì a piedi; egli
soffermavasi talvolta sopra le alture che gli offrivano
un bel punto di vista; il passo delle mule
permettevagli siffatte distrazioni. Se qualche luogo
spiegava una rara magnificenza, tornava alla carrozza,
e Sant'Aubert, troppo stanco per andar a goderne
in persona, vi mandava la figlia e stavasene ad
aspettarla.


Era tardi quando calarono dalle belle alture che
coronano il Rossiglione. Questa magnifica provincia
è incassata nelle loro maestose barriere, non restando
aperta che dalla parte del mare. L'aspetto
della cultura abbelliva in fondo il paesaggio, ed il
piano tingevasi de' più vividi colori, e quali il lussureggiante
clima e l'industria degli abitanti potevano
dovunque farli nascere. Boschetti d'aranci e
di limoni imbalsamavan l'aere; i lor frutti già maturi
dondolavano tra le frondi, e le coste dal facile
declivio facevan pompa delle più belle uva. Più lungi,
selve, pascoli, città, casali, il mare, sulla cui rifulgente
superficie scorrevano molte vele sparse, un
tramonto scintillante di porpora; questo passo, in
mezzo ai monti che lo dominavano, formava la perfetta
unione dell'ameno col sublime; era la bellezza
dormente in seno all'orrore.[63]


I viaggiatori, giunti al basso, inoltrarono fra siepi
di mirti e di melagrani fioriti sino alla piccola
città d'Arles, dove contavan passar la notte. Trovarono
un alloggio semplice, ma pulito; avrebbero
passata una deliziosa sera, dopo le fatiche ed i godimenti
del dì, se il momento della separazione che
accostavasi non avesse sparso una nube su' loro
cuori. Sant'Aubert voleva partir la domane, costeggiare
il Mediterraneo e giungere così in Linguadoca.
Valancourt, guarito troppo presto, ormai senza
pretesto per seguire i suoi nuovi amici, dovea separarsene
in quel luogo stesso. Sant'Aubert, il quale
l'amava, proposegli di andar più innanzi; ma non
reiterò l'invito, e Valancourt ebbe il coraggio di
non accettare, per mostrare d'esserne degno. E' dovevano
dunque lasciarsi la domane: Sant'Aubert per
partire alla volta della Linguadoca, e Valancourt
per riprendere la via de' monti onde riedere a casa.
Tutta la sera non proferì sillaba, e stette soprappensieri:
Sant'Aubert fu con lui affettuoso, ma però
grave; Emilia fu seria, benchè cercasse di comparir
allegra; e dopo una delle più malinconiche sere
che mai avessero passate insieme, separaronsi per la
notte.




CAPITOLO VI


Il giorno dipoi, Valancourt fece colazione coi
compagni, ma nessun d'essi parea aver dormito.
Sant'Aubert portava l'impronta dell'oppressione
e del languore. Emilia trovava la di lui salute
molto infiacchita, e le sue inquietudini crescevano
del continuo: osservava essa tutti i di lui sguardi
con timida premura, e la loro espressione si trovava
subito fedelmente ripetuta ne' suoi.


Sin dal principio della loro conoscenza, Valancourt
aveva indicato il suo nome e la sua famiglia.
Sant'Aubert conosceva l'uno e l'altra, non meno[64]
che i beni delle sua casa, posseduti allora da un
fratello maggiore di Valancourt, i quali distavano
otto leghe circa dal suo castello; ed aveva incontrato
questo fratello in qualche luogo del vicinato.
Questi preliminari avevano facilitato la sua ammissione;
il contegno, le maniere e l'esterior suo gli
avevano guadagnata la stima di Sant'Aubert, che
volentieri fidava nel proprio criterio, ma rispettava
le convenienze; e tutte le buone qualità che riconosceva
in lui, non gli sarebbero parse motivi sufficienti
per avvicinarlo tanto alla figlia.


La colazione fu quasi taciturna, quanto eralo stata
la cena della sera precedente; ma la loro meditazione
fu interrotta dal romore della carrozza che
doveva condur via Sant'Aubert ed Emilia. Valancourt
si alzò, corse alla finestra, riconobbe la carrozza,
e tornò alla sua sedia senza parlare. Il momento
di separarsi era omai giunto. Sant'Aubert
disse al giovane che sperava rivederlo nella valle,
e che non vi sarebbe passato di certo senza onorarli
di una visita. Valancourt lo ringraziò affettuosamente,
e l'assicurò che non ci avrebbe mai mancato:
sì dicendo guardava timidamente Emilia, la
quale si sforzava di sorridere in mezzo alla sua
profonda tristezza; passarono qualche minuto in un
colloquio animatissimo; Sant'Aubert s'avviò alla
carrozza, Emilia e Valancourt lo seguirono in silenzio:
il giovane restava fermo allo sportello, e
quando furono saliti pareva che nessuno avesse il
coraggio di dirsi addio. In fine Sant'Aubert pronunziò
la trista parola; Emilia fece altrettanto a
Valancourt, che lo ripetè con un sorriso forzato, e
la carrozza si mise in moto.


I viaggiatori restarono a lungo in silenzio. Sant'Aubert
finalmente disse: « È un giovine interessante;
sono molti anni che una conoscenza sì breve
non m'ha così affettuosamente colpito. Egli mi ricorda
i giorni della mia gioventù, quel tempo in[65]
cui tutto mi sembrava ammirabile e nuovo. » Sospirò,
e ricadde nella sua meditazione. Emilia si
affacciò alla portiera, e rivide Valancourt immobile
sulla porta, che li seguiva cogli occhi; egli la scorse,
e salutolla colla mano; ella gli restituì il saluto, ma
ad una svolta della strada non potè più vederlo.


« Mi ricordo ciò ch'era io in quell'età, » soggiunse
Sant'Aubert; « io pensava e sentiva precisamente
come lui. Il mondo allora aprivasi dinanzi
a me, ed or esso si chiude.


— O caro papà, non abbandonatevi a pensieri sì
lugubri, » disse Emilia con voce tremante; « voi
avete, spero, da vivere molti anni, per la vostra felicità
e la mia.


— Ah Emilia! » sclamò Sant'Aubert; « pel tuo!
sì, spero che abbia ad esser così. » Asciugò una
lagrima che scorrevagli lungo le guance, e sorridendo
della sua emozione, aggiunse con voce tenera:
« Avvi qualcosa nell'ardore ed ingenuità di
quel giovane, che dee soprattutto commovere un
vecchio, di cui il veleno del mondo non alterò i
sentimenti; sì, io scopro in lui un non so che d'insinuante,
di vivificante, come la vista della primavera
quando si è infermi. Lo spirito del malato assorbe
qualcosa del succhio rinnovantesi, e gli occhi
si rianimano ai raggi meridiani; Valancourt è per
me questa felice primavera. »


Emilia, la quale stringea amorosamente la mano
del padre, non aveva mai udito dalla sua bocca
un simile elogio che le riescisse tanto gradito,
nemmen quand'erane stata ella medesima l'oggetto.


Viaggiavano in mezzo a vigneti, boschi e prati,
entusiasmati ad ogni passo di quel magnifico paesaggio
cui limitavan i Pirenei e l'immenso pelago.
Dopo mezzodì giunsero a Calliure, situato sul mediterraneo.
Vi pranzarono, e lasciata passare la caldura,
ripresero a seguire i magici lidi che stendonsi[66]
fin nella Linguadoca. Emilia considerava con entusiasmo
il vasto impero dell'onde, di cui i lumi e
le ombre variavan tanto singolarmente la superficie,
e le cui spiagge, adorne di boschi, rivestivan già le
prime assise dell'autunno.


Sant'Aubert era impaziente di trovarsi a Perpignano,
dove aspettava lettere di Quesnel, e per tal
motivo aveva lasciato tosto Calliure, malgrado l'urgente
bisogno di qualche riposo. Dopo alcune leghe
di strada, addormentossi; ed Emilia, la quale avea
messi due o tre libri in carrozza partendo dalla
valle, ebbe agio di farne uso. Essa cercò quello che
aveva letto Valancourt il dì prima: desiderava ripassar
le pagine sulle quali gli occhi d'un amico
sì caro eransi fissati poc'anzi. Volea riandar i passi
ch'egli ammirava, pronunziarli com'egli facea, e
ricondurlo, per dir così, alla di lei presenza. Cercando
questo libro ch'essa non potea trovare, scorse
in vece sua un volume del Petrarca, appartenente
al giovane, il cui nome vi appariva sopra scritto.
Spesso ei gliene leggeva alcuni brani, e sempre con
quella patetica espressione che caratterizzava i sentimenti
dell'autore.


Arrivarono a Perpignano subito dopo il tramonto
del sole. Sant'Aubert vi trovò le lettere che aspettava
da Quesnel. Se ne mostrò così dolorosamente
commosso, che Emilia, spaventata, lo scongiurò, per
quanto glielo permise la delicatezza, di spiegargliene
il contenuto. Non le rispose se non con lacrime, e
tosto parlò di tutt'altro. Emilia credè bene di non
sollecitarlo ulteriormente, ma lo stato di suo padre
l'occupava forte, e non potè dormire per tutta la
notte.


Il dì seguente continuarono lungo la costa per
giungere a Leucate, porto del Mediterraneo, situato
sulle frontiere del Rossiglione e della Linguadoca.
Cammin facendo, Emilia rinnovò la istanze del dì
prima, e parve talmente turbata dal silenzio e della[67]
disperazione di Sant'Aubert, che questi bandì alfine
qualunque riguardo. « Io non voleva, cara Emilia, »
le diss'egli, « avvelenare i tuoi piaceri, e avrei
desiderato, almeno durante il viaggio, nasconderti
circostanze, che avrei pur troppo dovuto manifestarti
un giorno; la tua afflizione me lo impedisce,
e tu soffri forse più dell'incertezza che non soffriresti
della verità. La visita del signor Quesnel fu
per me un'epoca fatale; ei mi disse allora parte
delle notizie dispiacenti che mi vengono ora confermate
dalle sue lettere. Tu mi avrai inteso parlare
d'un tal Motteville di Parigi, ma ignoravi che la
maggior porzione di quanto possiedo era deposto
in sue mani; io aveva in lui cieca fiducia, e non
voglio ancora crederlo indegno della mia stima:
parecchie circostanze hanno concorso alla sua rovina,
ed io sono rovinato con lui. »


Qui si fermò per moderare la sua emozione.


« Le lettere che ho ricevute dal signor Quesnel »
continuò egli eccitandosi a fermezza, « ne contenevano
altre di Motteville stesso, e tutti i miei timori
sono confermati.


— Bisognerà egli abbandonare il nostro castello? »
disse Emilia dopo un lungo silenzio.


— Non è per anco ben certo, » disse Sant'Aubert;
« ciò dipenderà dall'accordo che Motteville
potrà fare co' suoi creditori. Il mio patrimonio, tu
lo sai, non era molto pingue, ed ora non è quasi
più nulla. Io ne sono afflittissimo per te sola, figlia
cara. »


A tai parole gli mancò la voce. Emilia, tutta lacrimosa,
gli sorrise teneramente, e sforzandosi di
superare la sua agitazione, gli rispose: « Non vi
affliggete nè per voi nè per me, o mio buon padre.
Noi possiamo essere ancora felici. Sì, se ci resta il
castello della valle, noi lo saremo certamente; terremo
una sola donna di servizio, e non vi accorgerete
del cambiamento della vostra fortuna. Consolatevi,[68]
caro papà, noi non proveremo nessuna privazione,
giacchè non abbiamo mai gustato le vane
superfluità del lusso, e la povertà non potrà privarci
giammai dei nostri più dolci godimenti; essa
non potrà nè diminuire la nostra tenerezza, nè avvilirci
ai nostri occhi od a quelli delle persone che
ci stimano. »


Sant'Aubert celossi il volto nel fazzoletto, non
potendo parlare; ma Emilia continuò a favellare al
padre le verità ch'egli stesso avea saputo inculcarle.
« La povertà, » essa gli dicea, « non potrà privarci
d'alcuno de' diletti dell'anima; voi potrete sempre
essere un esempio di coraggio e bontà, ed io la
consolazione d'un prediletto genitore. »


Sant'Aubert non poteva rispondere: strinse Emilia
al cuore: le loro lacrime si confusero, ma non
erano più lacrime di tristezza. Dopo questo linguaggio
del sentimento, ogni altro sarebbe stato troppo
debole, ed entrambi stettero silenziosi. Sant'Aubert
parlò in seguito secondo il consueto, e se lo spirito
non era nella sua ordinaria tranquillità, ne aveva
almeno ripresa l'apparenza.


Giunsero a Leucate assai per tempo, ma Sant'Aubert
era stanchissimo, e volle passarvi la notte.
La sera andò a passeggiare colla figlia per visitarne
i contorni. Si scuopriva il lago di Leucate, il Mediterraneo,
una parte del Rossiglione circondato dai
Pirenei, ed una porzione molto considerevole della
Linguadoca e delle sue fertilissime campagne. Le
uve, già mature, rosseggiavano sui colli aprichi, e
la vendemmia era principiata. I due passeggianti
vedevano i crocchi giulivi, udivano le canzoni a lor
recate sui vanni di lieve zeffiro e godevano anticipatamente
di tutti i piaceri che lor promettea la
strada. Sant'Aubert nondimeno non volle lasciar il
mare: bene spesso fu tentato di tornarsene nella
valle, ma il piacere che prendeva Emilia a questo
viaggio, contrabbilanciava sempre questo desiderio;[69]
e d'altronde, voleva far la prova se l'aria marina
non lo sollevasse un poco.


Il giorno seguente si rimisero in cammino. I Pirenei,
sebbene molto lontani, offrivano una veduta
delle più pittoresche; a destra aveano il mare, ed
a sinistra immense pianure, che si confondevano
coll'orizzonte. Sant'Aubert se ne rallegrava, e ne
parlava con Emilia; ma la sua allegria era più finta
che naturale, ed ombre di tristezza facean velo bene
spesso alla sua fisonomia: un sorriso però di Emilia
bastava per dissiparle; ma ella stessa aveva il cuore
straziato, e vedeva benissimo che gli affanni del padre
indebolivano visibilmente tutti i giorni la sua
salute.


Giunsero molto tardi ad una piccola città della
Linguadoca; avevano prefisso di dormirvi, ma fu
impossibile; la vendemmia teneva occupati tutti i
posti, e convenne recarsi ad un villaggio più lontano;
la stanchezza ed i patimenti di Sant'Aubert
richiedevano un pronto riposo, e la notte era già
avanzata; ma la necessità non ha legge, e Michele
continuò il suo cammino.


Le ubertose pianure della Linguadoca, nel fervore
delle vendemmia, rintronavano de' frizzi e della rumorosa
allegria francese. Sant'Aubert non potea più
goderne; il suo stato contrastava troppo tristamente
col brio, la gioventù e i piaceri che circondavanlo.
Quando volgea i languidi occhi su quella scena,
pensava che in breve non la vedrebbero più. — Que'
monti lontani ed eccelsi, » dicea tra sè, considerando
i Pirenei ed il tramonto, « queste belle
pianure, quella vôlta azzurra, la cara luce del dì,
saranno per sempre interdette a' miei sguardi; fra
poco la canzone del contadino, la voce consolatrice
dell'uomo non giugneranno più all'orecchio mio... —


Gli occhi d'Emilia parean leggere tutto che passava
nell'animo del padre: essa li fissava sul di lui
viso coll'espressione d'una tenera pietà. Dimenticando[70]
allora gli argomenti d'un vano rammarico,
non vide più altro che lei, e l'orribile idea di lasciar
la figlia senza protettore, cambiò la sua pena
in un vero tormento; sospirò dal cuor profondo,
e non mosse labbro. Emilia comprese quel sospiro;
gli strinse le mani con tenerezza, e si volse dalla
parte della portiera per nascondere le lagrime. Il
sole proiettava allora un ultimo raggio sul Mediterraneo,
i cui vapori parevano tutti d'oro; a poco
a poco le ombre del crepuscolo si distesero; una
zona scolorita apparve solo a ponente, segnando il
punto dove il sole erasi perduto nelle brume d'una
sera autunnale. Una fresca brezzolina sorgeva dalla
spiaggia. Emilia calò i cristalli; ma la frescura, sì
gradevole nello stato di salute, non era necessaria
per un infermiccio, e il padre la pregò di rialzarli.
Crescendo la sua indisposizione, pensava allora più
che mai a por fine alla marcia del dì; fermò Michele
per sapere a qual distanza fossero dal primo
villaggio. « A quattro leghe, » disse il mulattiere. — Io
non potrò farle, » disse Sant'Aubert; « cercate,
nell'andare innanzi, se non vi fosse una casa
sulla strada in cui possano riceverci per istanotte. »


Si rigettò in carrozza; Michele fe' schioccar la
frusta, e galoppò finchè Sant'Aubert quasi fuor de'
sensi, gli fece segno di fermarsi. Emilia guardava
alla portiera: vide alla perfine un contadino a qualche
distanza: lo aspettarono e gli chiesero se non
vi fosse ne' dintorni alloggio pe' viaggiatori. Rispose
di non conoscerne. « C'è un castello in mezzo ai
boschi, » soggiunse, « ma io credo che non vi si
riceve nessuno, e non posso insegnarvene la strada
essendo quasi io stesso forestiero. »


Sant'Aubert stava per rinnovellare le sue domande
sul castello; ma l'uomo piantollo lì e se ne
andò. Dopo un momento di riflessione, Sant'Aubert
ordinò a Michele di andare pian piano verso i boschi.
Ad ogni istante il crepuscolo diventava più[71]
oscuro, e la difficoltà di guidarsi cresceva. Passò
un altro paesano.


« Quale è la strada del castello ne' boschi? »
gridò Michele.


— Il castello ne' boschi! » sclamò il paesano.
« Volete parlare di quelle torrette?


— Non so se son torrette, » disse Michele: « parlo
di quel caseggiato bianco che vediamo da lungi in
mezzo a tutti quegli alberi.


— Sì, son torrette. Ma che! fareste conto d'andarci? »
rispose l'uomo con sorpresa.


Sant'Aubert, udendo quella strana interrogazione
colpito in ispecie dall'accento con cui la si faceva,
scese di carrozza e gli disse: « Noi siamo viaggiatori,
e cerchiamo una casa per passarvi la notte:
ne conoscete voi qui una vicina?


— No, signore, » rispose l'uomo « a meno che
non voleste tentar fortuna in que' boschi: ma io
per me non ve lo consiglierei.


— A chi appartiene quel castello?


— Nol so, signore.


— È dunque disabitato?


— No, non è disabitato; il castaldo e la governante,
vi sono, a quanto credo. »


All'udir ciò, Sant'Aubert si decise a rischiare un
rifiuto presentandosi al castello. Pregò il contadino
di servir di guida a Michele, e gli promise una ricompensa.
L'uomo riflettè un poco, e disse che avea
altre faccende, ma che non potevano sbagliare seguendo
il viale cui accennò. Sant'Aubert stava per
rispondere, quando il paesano, augurandogli la buona
notte, lo lasciò senza aggiugner altro.


La carrozza si diresse al viale, cui si trovò sbarrata
da una stanga; Michele smontò ed andò a levarla.
Penetrarono allora tra antichi castagni e
querce annose, i cui rami intralciati formavano una
vôlta altissima: eravi qualcosa di deserto e di selvaggio
nell'aspetto di quel viale, ed il silenzio erane[72]
tanto imponente, che Emilia si sentì côlta da involontario
tremore. Ricordavasi l'accento del paesano
nel parlare di quel castello: essa dava alle di lui
parole un'interpretazione più misteriosa che non
avesse fatto prima: cercò nullameno di calmare la
paura; pensò che un'imaginazione turbata ne l'avea
resa suscettibile, e che lo stato del padre e la sua
propria situazione dovevano senza dubbio contribuirvi.


Inoltrarono lentamente; l'oscurità era quasi completa:
il terreno disuguale e le radici degli alberi
che l'imbarazzavano ad ogni tratto obbligavano a
molta precauzione. D'improvviso, Michele si fermò:
Sant'Aubert guardò per saperne la causa. Vide a
qualche distanza una figura traversare il viale; faceva
troppo buio per distinguere di più, ed egli
ordinò d'avanzare.


« Mi sembra un luogo strano, » disse Michele;
« non veggo case, e faremmo meglio a tornar indietro.


— Andate un po' più innanzi, e se non vedremo
edifizi, torneremo sulla strada maestra. »


Michele s'avanzò, ma con ripugnanza; e l'eccessiva
lentezza della sua marcia fe' riaffacciare Sant'Aubert
alla portiera, e vide ancora la medesima
figura. Questa volta trasalì. Probabilmente l'oscurità
lo rendea proclive a spaventarsi più del consueto;
ma, checchè esser potesse, fermò Michele, e gli disse
di chiamar l'individuo che traversava di tal modo
il viale.


« Con vostro permesso, » disse Michele, « può
bene essere un ladro.


— Nol permetto di certo, » ripigliò Sant'Aubert,
non potendo astenersi dal sorridere a quella frase;
« via, torniamo sulla strada, chè non veggo alcuna
apparenza di trovar qui quel che cerchiamo. »


Michele voltò con vivacità, e rifece velocemente
il viale; una voce partì allora d'in fra gli alberi a[73]
sinistra; non era un comando, non un grido di dolore,
ma un suono roco e prolungato che nulla
avea d'umano. Michele spronò le mule senza pensare
all'oscurità, nè agl'intoppi, nè alle buche, e
neppure alla carrozza; nè si fermò se non quando
fu uscito dal viale, e giunto sulla strada infine, rallentò
il passo.


« Io sto assai male, » disse Sant'Aubert stringendo
la mano della figlia, la quale, spaventata dal
tuono di voce del padre, esclamò: « Gran Dio! voi
state più male, e noi siamo senza soccorso; come
faremo? » Egli appoggiò la testa sulla di lei spalla;
essa lo sostenne fra le sue braccia, e fece fermar la
carrozza. Appena il rumore delle ruote fu cessato,
sentirono musica in lontananza, lo che fu la voce
della speranza per Emilia, che disse: « Oh! noi
siamo vicini a qualche abitazione, e potremo trovarci
aiuto. » Ascoltò attenta: il suono era molto
lontano, e parea venire dal fondo di un bosco, una
parte del quale costeggiava la strada. Guardò dalla
parte d'onde venivano i suoni, e vide al chiaro di
luna qualcosa che somigliava ad un castello, ma era
difficile di giungervi. Sant'Aubert stava troppo male
per sopportare il più piccolo movimento: Michele
non poteva abbandonare le mule; Emilia, che sosteneva
ancora il padre, non voleva abbandonarlo,
e temeva pur di avventurarsi sola a tal distanza,
senza sapere dove ed a chi indirizzarsi: frattanto
bisognava prendere un partito, e senza dilazione.
Sant'Aubert disse dunque a Michele di avanzare più
lentamente che gli fosse possibile, e dopo un momento
svenne. La carrozza si fermò di nuovo; egli
era privo affatto dell'uso dei sensi. « Ah! padre
mio, mio caro padre! » gridava Emilia disperata; e
credendolo in punto di morte, esclamò: « Parlate,
ditemi una sola parola; ch'io ascolti anche una volta
il suono della vostra voce. » Egli non rispose nulla:
spaventata sempre più, ordinò a Michele di andare[74]
ad attingere acqua nel ruscello vicino; egli ne portò
un poco nel suo cappello, che la ragazza spruzzò
sul viso del genitore. I raggi della luna, riflettendo
allora sopra di lui, mostravano l'impressione della
morte. Tutti i movimenti di terrore personale cedettero
in quel punto a un timore dominante, e,
confidando Sant'Aubert a Michele, il quale con
molta difficoltà lasciò le mule, Emilia saltò fuori
della carrozza per cercare il castello che aveva veduto
da lontano, e la musica che dirigeva i suoi
passi, la fece entrare in un sentiero che conduceva
nell'interno del bosco. Il suo spirito, unicamente
occupato del padre e della sua propria inquietudine,
aveva dapprincipio perduto qualunque timore; ma
la foltezza degli alberi, sotto i quali passava, intercettavano
i raggi della luna; l'orrore di quel luogo
le rammentò il suo pericolo; la musica era cessata,
e non le restava altra guida che il caso. Si fermò
un poco con uno spavento inesprimibile; ma l'immagine
del padre vinse ogni altro sentimento, e si
rimise in cammino. Non vedeva nessuna abitazione,
nessuna creatura, e non udiva il più piccolo romore;
camminava sempre senza saper dove, scansava
il folto del bosco e si teneva in mezzo il più
che poteva; finalmente vide una specie di viale in
disordine che metteva ad un punto illuminato dalla
luna; lo stato di quel viale le rammentò il castello
delle torrette, e non dubitò più di esserne vicina.
Esitava a procedere, quando un romore di voci e
scrosci di risa colpirono all'improvviso il suo udito;
non era un riso di allegrezza, ma quello di una
gioia smoderata, ed il suo imbarazzo crebbe d'assai.
Mentre essa ascoltava, una voce in gran distanza si
fece sentire dalla parte della strada ond'era partita;
immaginandosi che fosse Michele, suo primo pensiero
fu quello di tornare indietro, ma poi non seppe
risolversi. L'ultima estremità poteva solamente aver
deciso Michele a lasciare le sue mule: credè il[75]
padre moribondo, e corse con maggiore celerità,
nella debole lusinga di ricevere qualche soccorso
da' convitati del bosco. Il suo cuore palpitava per
terribile incertezza; e più si avanzava, più il romore
delle foglie secche la faceva tremare ad ogni
passo. Giunse ad un luogo scoperto illuminato dalla
luna; si fermò, e scorse fra gli alberi un banco
erboso formato a cerchio cui stavan sedute parecchie
persone. Nell'avvicinarsi, giudicò dal loro abbigliamento
che dovevano essere contadini, e distinse
sparse pel bosco varie capanne. Mentre guardava
e si sforzava di vincere il timore che la rendeva
immobile, alcune villanelle uscirono da una
capanna; la musica seguitò e ricominciarono a ballare;
era la festa della vendemmia, e l'istessa musica
udita da lontano. Il di lei cuore, troppo lacerato,
non poteva sentire il contrasto che tutti quei
piaceri formavano colla propria situazione; si fece
innanzi ad un gruppo di vecchi assisi vicino alla
capanna, espose la sua circostanza, e ne implorò
l'assistenza. Parecchi si alzarono con vivacità, offrirono
tutti i loro servigi, e seguirono Emilia, che
parea aver l'ali correndo verso la strada maestra.


Quando furono giunti alla carrozza, essa trovò il
padre rinvenuto. Ricuperando i sensi, aveva inteso
da Michele la partenza della figlia; la sua inquietudine
per lei oltrepassando il sentimento dei suoi
bisogni, aveva mandato Michele a cercarla; non pertanto
era tuttora in istato di languore, e sentendosi
incapace di andar più oltre, rinnovò le sue domande
sopra un albergo, o sul castello del bosco. « Il castello
non può ricevervi, » disse un contadino venerabile,
il quale aveva seguito Emilia, « esso è
appena abitato; ma se volete farmi l'onore di accettare
il mio tugurio, vi darò il mio letto migliore. »


Sant'Aubert era francese: non istupì dunque
della cortesia di un francese. Malato com'era, sentì
quanto valore acquistava l'offerta, dalla maniera colla[76]
quale era fatta. Aveva troppa delicatezza per iscusarsi,
o per esitare un sol momento a ricevere quell'ospitalità
contadinesca; l'accettò dunque con altrettanta
franchezza, quanta n'era stata adoperata
nell'offerta.


La carrozza camminò lentamente, seguitando i
contadini per la strada già fatta da Emilia, e giunsero
alla capanna. L'affabilità del suo ospite, e la
certezza di un pronto riposo, resero le forze a Sant'Aubert;
egli vide con dolce compiacenza quel
quadro interessante; i boschi, resi più cupi dal
contrasto, circondavano il sito illuminato; ma diradandosi
ad intervalli, un bianco chiarore ne facea
spiccar una capanna o riflettevasi in un rigagnolo;
egli ascoltò con piacere i suoni allegri della chitarra
e del tamburello, ma non potè vedere senza
emozione il ballo di que' villici. Non avvenne l'egual
cosa di Emilia: l'eccesso dello spavento si era cambiato
in una profonda tristezza, e gli accenti della
gioia facendo luogo a spiacevoli confronti, servivano
ancora a raddoppiarla.


Il ballo cessò all'avvicinarsi della carrozza: era
un fenomeno in quei boschi remoti, e tutti la circondarono
con istraordinaria curiosità. Appena intesero
che vi era un forestiero ammalato, molte
fanciulle traversarono il prato, tornarono immediatamente
con vino e canestri di frutta, e li offersero
ai viaggiatori disputandosi la preferenza. La carrozza
si fermò finalmente vicino ad una casuccia decentissima,
che apparteneva al venerabile condottiero;
egli aiutò Sant'Aubert a scendere, e lo condusse
con Emilia in una stanzetta terrena, illuminata soltanto
dalla luna. Sant'Aubert, lieto di trovare il
desiato riposo, si adagiò sopra una specie di poltrona.
L'aria fresca e balsamica, impregnata di soavi
effluvi, penetrava nella stanza dalle finestre aperte
e rianimava le sue facoltà infiacchite. Il suo ospite
che si chiamava Voisin, tornò immediatamente con[77]
frutta, crema, e tutto il lusso campestre che poteva
somministrare il suo ritiro. Offrì tutto col sorriso
della cordialità, e si mise in piedi dietro la sedia
di Sant'Aubert, il quale insistè per fargli prendere
posto a tavola; quando i frutti ebbero calmato la di
lui sete ardente, si sentì un poco sollevato, e cominciò
a discorrere. L'ospite gli comunicò tutte le
particolarità relative a lui ed alla sua famiglia. Questo
quadro di unione domestica, dipinto col sentimento
del cuore, non poteva mancare di eccitare il
più vivo interesse. Emilia, seduta vicino al padre,
tenendo una mano fra le sue, ascoltava attenta il
buon vecchio. Il di lei cuore era pieno di tristezza
e versava lacrime, pensando che quanto prima non
avrebbe più posseduto il prezioso bene di cui essa
godeva ancora. Il fioco raggio della luna autunnale,
e la musica che si faceva ancora sentire da lontano,
s'accordavano colla sua malinconia. Il vecchio parlava
della sua famiglia, e Sant'Aubert taceva.


« Non mi resta più che una figlia, » disse Voisin,
« ma fortunatamente essa è maritata e mi tiene
luogo di tutto. Quando morì mia moglie, » aggiuns'egli
sospirando, « io andai a riunirmi con Agnese
e la sua famiglia. Essa ha parecchi figli, che voi
vedete ballare laggiù, allegri e grassi come tanti
fringuelli. Possano eglino esser sempre così! io
spero morire in mezzo a' loro, o signore: ora son
vecchio, e mi resta poco da vivere; ma è una gran
consolazione il morire fra i suoi figli.


— Mio buon amico, » disse Sant'Aubert con voce
tremante, « voi vivrete, lo spero, lungamente in
mezzo ad essi.


— Ah, signore! nella mia età, non ho molto
luogo a sperarlo. » Il vecchio fece una pausa. « Eppoi
lo desidero appena, » ripigliò quindi. « Ho fiducia
che, se muoio, andrò difilato al cielo; la
mia povera moglie vi è prima di me. La sera, al
chiaro di luna, credo vederla vagolar presso questi[78]
boschi cui amava tanto. Credete voi, signore, che
noi possiam visitare la terra, quando avremo lasciati
i nostri corpi?


— Non dubitatene, » gli rispose Sant'Aubert;
« le separazioni sarebbero troppo dolorose se le
credessimo eterne. Sì, Emilia cara, noi ci ritroveremo
un dì. »


Alzò gli occhi al cielo, ed i raggi della luna, che
cadevan sopra di lui, mostrarono tutta la pace e la
rassegnazione dell'anima sua, malgrado l'espressione
della tristezza.


Voisin comprese aver troppo prolungato il tema,
e l'interruppe dicendo: « Ma noi siamo all'oscuro;
abbiamo bisogno di un lume.


— No, » gli disse Sant'Aubert, « preferisco il chiaro
della luna: non v'incomodate, caro amico. Emilia,
amor mio, io sto ora assai meglio di quel che non
lo sia stato tutto il giorno. Quest'aria mi rinfresca;
io gusto questo riposo, e mi compiaccio di ascoltare
questa bella musica che si ode in lontananza. Lasciami
vedere il tuo sorriso. Chi è che suona così
bene la chitarra? » diss'egli in seguito; « son due
strumenti oppure un'eco?


— È un'eco, o signore, almeno io lo credo. Ho
inteso spesso questo strumento la notte, quando
tutto è in calma: ma nessuno conosce chi lo suona.
Talvolta è accompagnato da una voce, ma sì
dolce e così trista, che si potrebbe credere compaiano
spiriti nel bosco.


— Vi compariranno per certo, » disse Sant'Aubert
sorridendo, « ma in carne ed ossa.


— Qualche volta, a mezzanotte, quando non posso
dormire, » proseguì Voisin, il quale non badò a
quell'osservazione, « l'ho sentita quasi sotto le mie
finestre, nè mai ho intesa musica tanto piacevole:
essa mi faceva pensare alla mia povera moglie, e
piangeva. Talfiata apersi la finestra per procurare
di scorgere qualcuno, ma nell'istante medesimo cessava[79]
l'armonia, e non si vedeva nessuno. Ascoltava
con tanto raccoglimento, che il rumore d'una foglia
o il menomo vento finiva col farmi paura. Si diceva
che questa musica fosse un annuncio di morte; ma
son molti anni che l'ascolto e sopravvivo ancora a
questo tristo presagio. »


Emilia sorrise ad una superstizione tanto ridicola,
e non pertanto, nella posizione del suo spirito, essa
non potè del tutto resistere alla sua impressione
contagiosa.


« Va bene, amico mio, disse Sant'Aubert; ma se
qualcuno avesse avuto il coraggio di andar dietro
al suono, il musico sarebbe stato conosciuto. Nessuno
l'ha fatto?


— Sì, signore, fu tentato più volte, si è seguita
la musica sino al bosco, ma essa si ritirava a misura
che noi avanzavamo, e sembrava sempre alla
medesima distanza: i nostri villani hanno avuto
paura, e non vollero andar più oltre. Ben di rado
la si sente tanto di buon'ora come stasera; d'ordinario
ciò accade verso mezzanotte quando quella
fulgida stella che si trova adesso al di sopra di
quelle torrette tramonta a sinistra del bosco.


— Quali torrette? » domandò Sant'Aubert; « io
non ne vedo alcuna.


— Perdonate, signore, eccone là una, sulla quale
riflette la luna; vedete voi quel viale? il castello è
quasi nascosto interamente dagli alberi.


— Sì, papà, » disse Emilia guardando; « non vedete
voi qualche cosa brillare al disopra del bosco?
io credo sia una banderuola, sulla quale riflettono
i raggi della luna.


— Sì, ora vedo ciò che mi accenni. Di chi è quel
castello?


— Il marchese di Villeroy ne era il possessore, »
rispose Voisin con fare d'importanza.


— Ah! » disse Sant'Aubert agitatissimo: « siamo
dunque così vicini a Blangy?[80]


— Era la dimora favorita del marchese, » soggiunse
Voisin; « ma la prese in antipatia, e son molti
anni che non vi è stato: mi fu detto che è morto
da poco tempo, e che questo feudo passò in altre
mani. »


Sant'Aubert, ch'era caduto in pensieri, uscì dalla
sua meditazione a queste ultime parole esclamando:
« Morto! gran Dio! e da quanto tempo? »


— Mi fu detto esser già da quattro settimane, »
rispose Voisin; « lo conoscevate voi forse?


— È cosa straordinaria, » rispose Sant'Aubert,
senza fermarsi alla domanda.


— E perchè? » disse Emilia con timida curiosità.
Egli non rispose, e ricadde nella sua meditazione;
ne uscì poco dopo, e domandò chi fosse il suo erede.


« Mi son dimenticato del nome » disse Voisin;
« ma so che questo signore abita Parigi, e che non
pensa neppur per ombra di venire al suo castello.


— Il castello è egli ancora chiuso?


— A un bel circa, signore; la vecchia castalda
e suo marito ne hanno cura, ma vivono in una casuccia
poco distante.


— Il castello è spazioso, » disse Emilia, « e dee
essere molto deserto, se non ha che due abitanti.


— Deserto! oh sì, signorina, » rispose Voisin;
« non vorrei passarvi la notte per tutti i tesori del
mondo.


— Che dite mai? » soggiunse Sant'Aubert, uscendo
dalla sua meditazione; e Voisin ripetè l'istessa protesta.
Sant'Aubert non potè trattenere una specie
di singulto; ma quasi avesse voluto evitare le osservazioni,
domandò prontamente a Voisin da quanto
tempo abitasse quel paese.


« Quasi dalla infanzia, » rispose l'ospite.


— Vi rammentate voi della defunta marchesa? »
disse Sant'Aubert con voce alterata.


— Ah! signore, se me lo ricordo; ve ne sono
molti altri che non l'hanno dimenticata neppur essi.[81]


— Sì, » rispose Sant'Aubert, « ed io sono uno
di quelli.


— Dunque vi ricorderete d'una bella ed eccellente
signora: dessa meritava una sorte migliore. »


Sant'Aubert versò qualche lagrima.


« Basta, » diss'egli con voce quasi soffocata,
« basta, amico mio. »


Emilia, sebbene sorpresissima, non si permise di
manifestare i suoi sentimenti con veruna dimanda.
Voisin volle scusarsi, ma Sant'Aubert l'interruppe.
« L'apologia è inutile, » gli disse; « cambiamo
piuttosto tema di conversazione. Voi parlavate della
musica che abbiamo sentita.


— Sì, signore, ma zitto, essa ricomincia; ascoltate
questa voce. »


Udirono infatti una voce dolce, tenera ed armoniosa,
ma i cui suoni, debolmente articolati, non
permettevano di distinguer nulla che somigliasse a
parole. Ben presto essa cessò, e lo strumento che
l'accompagnava intuonò teneri concenti. Sant'Aubert
osservò che i tuoni n'erano più pieni e melodiosi
di quelli d'una chitarra, ed anche più malinconici
di quelli d'un liuto. Continuarono ad ascoltare, e
non sentirono più nulla.


« Questo è strano, » disse Sant'Aubert, rompendo
alfine il silenzio.


— Stranissimo, » disse Emilia.


— È vero, » soggiunse Voisin; e tacquero tutti.


Dopo una lunga pausa, Voisin ripigliò:


« Sono circa diciotto anni che intesi questa musica
per la prima volta in una bellissima notte estiva,
men ricordo; ma era più tardi. Io passeggiava solo
nel bosco; mi ricordo ancora ch'era molto afflitto;
aveva un figliuolo malato, e temeva di perderlo;
aveva vegliato tutta sera al suo letto, mentre sua
madre dormiva, avendolo essa assistito tutta la notte
precedente. Uscii per prendere un po' d'aria; la
giornata era stata caldissima, ed io passeggiava[82]
pensieroso sotto gli alberi; udii una musica in lontananza,
e pensai fosse Claudio che suonasse la sua
zampogna; egli era amantissimo di questo strumento.
Quando la sera era bella, stavasi un pezzo sulla
sua porta a suonare; ma quando arrivai in un luogo
ove gli alberi erano meno folti (non me ne scorderò
per tutta la vita), mentr'io guardava le stelle
di settentrione, che in quel momento erano molto
alte, tutto a un tratto udii suoni, ma suoni ch'io
non posso descrivere: sembrava un concerto di angeli;
guardai attentamente, e mi pareva sempre di
vederli salire al cielo. Quando tornai a casa, raccontai
ciò che aveva ascoltato; si burlarono tutti di
me, e mi dissero ch'erano pastori, i quali avean
suonato il loro flauto; non potei mai persuaderli
del contrario. Poche sere dopo, mia moglie udì l'istessa
armonia, e fu sorpresa quanto me. Il padre
Dionigi la spaventò moltissimo, dicendole che il
cielo mandava questo avvertimento per annunziare
la morte di suo figlio, e che questa musica aggiravasi
intorno alle case, contenenti qualche moribondo. »


Emilia, nell'ascoltare quelle parole, si sentì colpita
da un timore superstizioso affatto nuovo per
lei, ed ebbe molta difficoltà a nascondere il suo turbamento
al padre.


« Ma nostro figlio visse, o signore, a dispetto del
padre Dionigi.


— Il padre Dionigi? » disse Sant'Aubert, il quale
ascoltava con attenzione tutti i racconti del buon
vecchio; « noi siam dunque vicini ad un convento?


— Sì, signore, il convento di Santa Chiara è poco
distante da noi; esso è sulla riva del mare.


— O cielo! » sclamò Sant'Aubert, come colpito
da un'improvvisa rimembranza; « il convento di
Santa Chiara! »


Emilia osservò che ai segni del dolore sparsi
sulla di lui fronte, mescolavasi un sentimento di[83]
orrore. Esso restò immobile; l'argenteo chiaror della
luna colpivagli allora il volto; somigliava ad una di
quelle marmoree statue che, poste su di un mausoleo,
sembran vegliare sulle fredde ceneri, ed affliggersi
senza speranza.


« Ma, caro papà, » disse Emilia, volendo distrarlo
dai tristi pensieri, « voi vi scordate quanto avete
bisogno di riposo; se il nostro buon ospite me lo
permette, io andrò a prepararvi il letto, giacchè so
come desiderate che sia fatto. »


Sant'Aubert si raccolse alquanto, e sorridendole
con dolcezza, la pregò di non aumentare la sua fatica
con questa nuova premura. Voisin, la cui cortesia
era stata sospesa dall'interesse che avevano
eccitato i suoi racconti, si scusò di non aver fatto
venire ancora Agnese, ed uscì per andare a prenderla.


Poco dopo tornò, conducendo sua figlia, giovine
di amabilissima presenza. Emilia intese da lei ciò
che non aveva ancora sospettato, cioè che, per dar
ricovero a loro, bisognava che parte della famiglia
cedesse i suoi letti. Si afflisse di questa circostanza;
ma Agnese, nella sua risposta, mostrò la medesima
buona grazia e l'istessa ospitalità del padre. Fu
dunque deciso che parte dei figli e Michele andassero
a dormire in una casa poco distante.


« Se domani io starò meglio, mia cara Emilia, »
disse Sant'Aubert, « noi partiremo di buon'ora per
poterci riposare durante il caldo del giorno, e torneremo
a casa. Nello stato della mia salute e delle
mie idee, non posso pensare se non con pena ad
un viaggio più lungo, e sento il bisogno di tornare
alla valle. »


Anche Emilia desiderava questo ritorno, ma si
turbò sentendo una risoluzione così subitanea. Suo
padre, senza dubbio, stava molto peggio di quello
che voleva far credere. Sant'Aubert si ritirò per
prendere un po' di riposo. Emilia chiuse la sua cameretta,[84]
e non potendo dormire, i di lei pensieri la
ricondussero all'ultima conversazione relativa allo
stato delle anime dopo morte. Questo soggetto l'alterava
sensibilmente, dacchè non poteva più lusingarsi
di conservare lungamente il padre. Ella si appoggiava
pensierosa ad una finestrella aperta. Assorta
nelle sue riflessioni, alzava gli occhi al cielo;
vedeva il firmamento sparso d'innumerevoli stelle,
abitate forse dagli spiriti incorporei; i suoi occhi
erravano negli immensi spazi eterei: i di lei pensieri
s'innalzavano, come prima, verso la sublimità
di un Dio, e la contemplazione dell'avvenire. Il ballo
era cessato, le capanne erano silenziose, l'aria sembrava
appena sommuovere leggermente la sommità
degli alberi; il belato di qualche pecorella smarrita,
tratto tratto il suono lontano di un campanello, il
romore di una porta che si chiudeva, interrompevano
soli il silenzio della notte. Anzi da ultimo questi
diversi suoni, che le rammentavano la terra e le
sue occupazioni, cessarono del tutto: cogli occhi lagrimosi,
penetrata da una rispettosa devozione, restò
alla finestra fintanto che, verso mezzanotte,
l'oscurità si fu estesa sulla terra, e che la stella
indicata da Voisin disparve dietro il bosco. Si ricordò
allora di ciò ch'egli aveva detto su tal proposito,
e rammentossi la musica misteriosa; stava
alla finestra, sperando e temendo nel tempo istesso
di sentirla tornare; era occupata della forte commozione
del padre, quando Voisin aveva annunziata
la morte del marchese di Villeroy e rammentata la
sorte della marchesa, e si sentiva vivamente interessata
di conoscerne la causa. La di lei curiosità
su questo oggetto era tanto più viva, in quanto che
suo padre non aveva mai pronunziato alla di lei presenza
il nome di Villeroy. La musica non si sentì:
Emilia si accorse che le ore riconducevanla a nuove
fatiche; pensò che bisognava alzarsi di buon mattino,
e si decise di porsi a letto.




[85]


CAPITOLO VII


Emilia fu svegliata di buon'ora, come l'aveva
preveduto. Il sonno l'aveva ristorata un poco; era
stata invasa da sogni penosi, e la più dolce consolazione
degl'infelici non aveale menomamente giovato.
Aprì la finestra, guardò il bosco, respirò l'aria
pura dell'aurora, e si sentì più tranquilla. Tutto il
paese spirava quella frescura che sembra apportar
la salute. Non si sentivano che suoni dolci e simpatici,
come la campana d'un convento lontano, il
mormorio delle onde, il canto degli uccelli e il muggito
del bestiame, ch'essa vedeva camminare lentamente
fra gli sterpi e gli alberi.


Emilia udì un movimento nella sala, e riconobbe
la voce di Michele, che parlava alle sue mule ed
usciva con loro da una capanna vicina: uscì essa
pure, e trovò il padre, il quale erasi alzato in quel
momento, e non istava meglio di prima. Lo condusse
nella stanzetta dove avevano cenato la sera
avanti: vi trovarono una buonissima colazione, e
l'ospite e sua figlia, che li aspettavano per augurar
loro il buon giorno.


« Io v' invidio questa bella dimora, amici miei, »
disse Sant'Aubert nel vederli; « essa è così piacevole,
così placida, così decente! E l'aria che vi si
respira! Son certo che questa potrebbe forse restituirmi
la salute. »


Voisin lo salutò garbatamente, e gli rispose con
civiltà squisita: « La mia dimora è divenuta invidiabile,
dacchè voi e questa signorina l'avete onorata
della vostra presenza. »


Sant'Aubert sorrise amichevolmente a questo complimento,
e si mise a tavola, la quale era coperta
di frutta, burro e cacio fresco. Emilia, che aveva
esaminato attentamente il padre, e lo trovava in uno
stato deplorabile, l'impegnava premurosamente a[86]
protrarre la sua partenza fino a sera; ma egli sembrava
impaziente di tornare a casa, ed esprimeva
questa impazienza con un calore veramente straordinario.
Assicurava che da lunga pezza non s'era
sentito tanto bene, e che viaggerebbe con minor pena
al fresco del mattino che ad ogni altra ora del dì.
Ma mentre esso parlava col suo ospite rispettabile,
e lo ringraziava della cortese accoglienza fattagli,
Emilia lo vide cambiar di colore e cadere sulla
sedia prima ch'essa potesse sostenerlo. In pochi momenti
si rimise dall'improvviso deliquio, ma stava
così male, che si riconobbe incapace di viaggiare;
e dopo aver lottato un poco contro la violenza dei
suoi mali, domandò di essere aiutato a risalire la
scala, e rimettersi in letto. Questa preghiera rinnovò
tutti i terrori di Emilia provati il giorno antecedente,
ma sebbene potesse appena sostenersi, e
resistere al colpo fatale che la colpiva, procurò di
reprimere il proprio dolore, e dandogli il braccio
tremante, aiutò il padre a tornare nella sua camera.


Appena fu in letto, egli fece chiamare Emilia, la
quale piangeva fuori della stanza, e chiese di esser
lasciato solo con lei. Allora le prese la mano, e
fissò gli occhi nella figlia con tanta tenerezza e dolore,
che il suo coraggio l'abbandonò, ed essa proruppe
in un pianto dirotto. Sant'Aubert cercava di
conservare la sua fermezza, e non poteva parlare;
non poteva che stringerle la mano, e trattenere a
stento le proprie lacrime; alfine prese la parola.


« Mia cara figlia, » diss'egli, sforzandosi di sorridere
in mezzo all'impressione del suo dolore, « mia
cara Emilia! » Fece una pausa, alzò gli occhi al
cielo, come per implorarne l'assistenza, ed allora
con un tuono di voce più fermo, con uno sguardo
in cui la tenerezza paterna univasi con dignità alla
pia solennità d'un santo, « Figliuola, » le disse,
« io vorrei addolcire le tristi verità che sono costretto
a svelarti, ma non so nasconderti nulla. Oimè![87]
vorrei poterlo fare, ma sarebbe troppo crudele
di prolungare il tuo errore: la nostra separazione
è imminente; convien dunque parlarne, e prepararci
a sopportarla con le nostre riflessioni e le
preghiere. » Gli mancò la voce; Emilia, sempre
piangendo, si strinse la di lui mano al seno, ed
oppressa da convulsi sospiri, non aveva nemmen
forza d'alzare gli occhi.


« Non perdiamo un solo momento, » disse Sant'Aubert,
rientrando in sè stesso; « ho molte cose da
dirti. Debbo rivelarti un segreto della più alta importanza,
ed ottenere da te una solenne promessa;
quando ciò sarà fatto, io sarò più tranquillo. Tu
devi aver già osservato, mia cara, quanto desidero
di essere a casa mia; tu ne ignori la ragione: ascolta
ciò che sono per dirti. Ma aspetta, ho bisogno di
questa promessa, fatta a tuo padre moribondo! »


Emilia colpita da queste ultime parole, come se
per la prima volta avesse conosciuto il pericolo del
padre, alzò la testa; le sue lacrime si arrestarono,
e guardandolo un momento con l'espressione di
un'insopportabile afflizione, fu assalita dalle convulsioni,
e svenne. Le grida di Sant'Aubert attirarono
Voisin ed Agnese, che le apprestarono tutti i
possibili soccorsi, ma per lunga pezza indarno.
Quando Emilia rinvenne, Sant'Aubert era così spossato
da tutta quella scena, che restò qualche minuto
senza poter parlare. Un cordiale presentatogli da
Emilia, rianimò le sue forze. Allorchè per la seconda
volta furono soli, egli sforzossi di calmarla, e le
prodigò tutte le consolazioni compatibili colla circostanza.
Ella si gettò nelle sue braccia, pianse dirottamente,
ed il dolore la rendeva talmente insensibile
a' suoi discorsi, ch'egli cessò di parlare, non
potendo che intenerirsi e mescolare le proprie lacrime
a quelle della fanciulla. Richiamata alfine ad
un sentimento di dovere, volle risparmiare al padre
un più lungo spettacolo del suo dolore; si[88]
sciolse dalle di lui braccia, asciugò le lacrime, ed
articolò qualche parola di consolazione.


« Cara Emilia, » riprese Sant'Aubert, « figliuola
mia, assoggettiamoci con umile rassegnazione all'Ente
che ci ha protetti e consolati nei pericoli e
nelle afflizioni. Ogni istante della nostra vita è da
lui conosciuto; egli non ci ha mai abbandonati, e
non ci vorrà abbandonare neppure in questo momento.
Io sento questa consolazione nel mio cuore;
ti lascerò, figlia mia, ti lascerò nelle di lui braccia,
e sebbene io abbandoni questo mondo, sarò sempre
alla tua presenza. Sì; Emilia cara, non piangere: la
morte in sè stessa non ha nulla di nuovo o di sorprendente,
giacchè sappiamo tutti di essere nati per
morire; essa non ha nulla di terribile per coloro
che confidano in un Dio onnipotente. Se la vita mi
fosse stata prolungata, il corso della natura me la
avrebbe tolta fra pochi anni. La vecchiaia, e tuttociò
ch'ella porta seco d'infermità, di privazioni e
d'affanni, sarebbero state quanto prima il mio retaggio;
la morte finalmente sarebbe giunta, e ti sarebbe
costata quelle lacrime che spargi in questo
momento. Rallegrati piuttosto, cara figlia, di vedermi
liberato da tanti mali. Io muoio con uno spirito libero,
suscettibile delle consolazioni della fede, e con
perfetta rassegnazione. »


Si fermò stanco di parlare. Emilia si sforzò di
ricomporsi, e rispondendo a ciò che le aveva
detto, cercò di persuaderlo che non aveva parlato
invano.


Dopo un poco di riposo, egli ripigliò. « Ma torniamo
al soggetto che tanto mi preme. Ti ho detto
che aveva da chiederti una promessa solenne; bisogna
ch'io la riceva, prima di spiegarti la circostanza
principale di cui devo parlarti; sonvene altre
che, pel tuo riposo, importa che tu ignori per sempre.
Promettimi dunque che eseguirai esattamente
ciò che sono per ordinarti. »[89]


Emilia, colpita dalla gravità di queste espressioni,
si terse le lagrime, cui non poteva impedirsi dallo
spargere; e guardando il padre eloquentemente, si
obbligò con giuramento a fare ciò che egli esigerebbe
da lei, senza sapere di che si trattasse. Allora
egli continuò: « Ti conosco troppo, Emilia cara,
per temere che tu abbia a mancar mai ai tuoi impegni,
ma sopratutto ad un impegno così rispettabile.
La tua parola mi pone in calma, e la tua lealtà
diviene di un'importanza inconcepibile per la tranquillità
dei tuoi giorni. Ascolta ora ciò che debbo
dirti. Il gabinetto contiguo alla mia camera nel nostro
castello della valle contiene una specie di botola,
che si apre sotto un'asse del pavimento; la riconoscerai
ad un nodo rimarchevole del legno; d'altronde,
è la penultima asse dalla parte della parete,
ed in faccia alla porta della camera. Circa ad un
braccio di distanza dalla finestra, scorgerai una
commessura, come se la tavola ne fosse stata cambiata;
calca il piede su quella linea, la tavola si
abbasserà, e potrai facilmente farla scorrere sotto
l'altra; di sotto troverai un vuoto. » Egli si fermò
per prender fiato, ed Emilia restò nella più profonda
attenzione. « Capisci tu queste istruzioni, mia
cara? » le disse egli. Emilia, capace appena di proferir
accento, l'assicurò che l'intendeva benissimo.


« Quando tornerai a casa... » E sospirò profondamente.


Appena ella lo sentì parlare di questo ritorno,
tutte le circostanze che dovevano accompagnarlo si
presentarono alla di lei immaginazione; ebbe un
nuovo accesso di dolore, e Sant'Aubert, più afflitto
ancora dallo sforzo e dal ritegno fattosi, non potè
trattenere le lacrime. Dopo alcuni momenti, si riebbe,
e continuò: « Cara figlia, consolati; quando non
esisterò più non sarai abbandonata. Ti lascio sotto
l'immediata protezione della provvidenza, che non
mi ha negato mai i suoi soccorsi. Non mi affliggere[90]
coll'accesso della tua disperazione; insegnami
piuttosto, col tuo esempio, a moderare quella che
risento. »


Il malato, il quale non parlava se non con difficoltà,
ripigliò il suo discorso dopo una pausa.
« Quel gabinetto, mia cara..... quando tornerai a
casa, vacci, e sotto la tavola che ho descritta, troverai
un fascio di carte; sta attenta adesso. La promessa
che ho ricevuta da te, è relativa a questo
unico oggetto; tu devi bruciare quelle carte senza
osservarle, nè leggerle; io te l'ordino assolutamente. »


La sorpresa d'Emilia superando un istante il suo
dolore, chiese il motivo di quella precauzione. Il
padre rispose che se avesse potuto spiegarglielo, la
promessa da lei richiesta non sarebbe stata più
necessaria. « Ti basti, figlia mia, di penetrarti bene
di questa ragione: essa è d'un'estrema importanza.
Sotto quella medesima asse troverai circa dugento
doppie in una borsa di seta. Questo segreto fu già
immaginato per mettere in salvo il denaro che si
trovava nel castello, allorchè la provincia era inondata
da truppe, che, profittando della circostanza,
si abbandonavano ad ogni sorta di depredazioni ed
al saccheggio. Mi resta ancora da ricevere un'altra
promessa da te, ed è, che in qualunque critica posizione
possa trovarti, non venderai mai la nostra
possessione della valle. »


Sant'Aubert aggiunse, che s' ella si fosse maritata,
avrebbe dovuto specificare nel contratto nuziale,
che il castello le sarebbe rimasto in assoluta
proprietà. Le parlò in seguito del suo patrimonio
con maggior dettaglio di quel che non avesse fatto
fin a quel punto.


« Le dugento doppie, ed il poco denaro che troverai
nella mia borsa, son tutto il contante che ho
da lasciarti. Ti ho già detto in quale stato sono i
nostri affari col signor Motteville di Parigi. Ah
figlia mia, ti lascio povera, ma non nella miseria. »[91]


Emilia non poteva rispondere a nulla; inginocchiata
accanto al letto, bagnava di lacrime la mano
diletta che teneva ancor nelle proprie.


Dopo questo discorso, lo spirito di Sant'Aubert
parve molto più tranquillo; ma, spossato dallo sforzo
fatto, cadde nel sopore. Emilia continuò ad assisterlo
ed a piangere vicino a lui, fino a che un
lieve colpo battuto alla porta della camera la costrinse
a rialzarsi. Voisin venivale a dire che dabbasso
eravi un confessore del convento vicino,
pronto ad assistere suo padre; ma essa non volle
che lo si svegliasse, e fece pregare il sacerdote a
non andarsene. Quando Sant'Aubert uscì dal suo
sopore, tutti i suoi sensi erano confusi; e ci volle
qualche tempo prima ch'ei riconoscesse Emilia. Allora
mosse le labbra, le stese la mano, ed essa fu
dolorosamente colpita dall'impressione di morte
che osservava in tutti i suoi lineamenti. Dopo pochi
minuti ricuperò la voce, ed Emilia gli domandò
se desiderava vedere un confessore. Le rispose di
sì, ed appena fu introdotto il reverendo padre, ella
si ritirò. Restarono insieme circa mezz'ora: quindi
fu richiamata Emilia, che trovò il padre più agitato,
ed essa allora guardò il confessore con alquanto
risentimento, come s'egli ne fosse stato la cagione.
Il buon religioso la rimirò con dolcezza, e Sant'Aubert,
con voce tremebonda, la pregò di unire le
sue preghiere a quelle degli altri, e dimandò se il
suo ospite non volesse associarvisi. Il buon vecchio
ed Agnese arrivarono amendue piangendo, e s'inginocchiarono
vicino al letto. Il reverendo padre,
con voce maestosa, recitò lentamente le preci degli
agonizzanti. Sant'Aubert, con volto sereno, si univa
con fervore alla loro devozione; qualche lacrima
sfuggivagli talvolta dalle socchiuse pupille, ed i
singulti di Emilia interruppero spesso l'uffizio.
Quando fu finito, e che venne amministrata l'estrema
unzione, il religioso se n'andò. Sant'Aubert[92]
fe' segno a Voisin d'avvicinarsegli, gli porse la mano,
e stette alcun tempo in silenzio. Alfine gli disse
con voce fioca:


« Mio buon amico, la nostra conoscenza fu breve,
ma essa bastò per dimostrarmi il vostro buon cuore;
io non dubito che voi non trasportiate tutta questa
benevolenza su mia figlia: quando non sarò più,
essa ne avrà bisogno. L'affido alle cure vostre, pei
pochi giorni cui dee passar qui: non vi dico di più.
Voi avete figli, conoscete i sentimenti d'un padre:
i miei diventerebbero penosi assai se avessi meno
fiducia in voi. »


Voisin lo rassicurò, e le lagrime attestavano la
sua sincerità, che nulla trascurerebbe per addolcire
l'affanno d'Emilia, e che, s'ei lo bramasse, l'avrebbe
ricondotta in Guascogna. L'offerta gradì tanto al
moribondo, che non trovò parole ond'esprimere la
propria gratitudine, o a meglio dire che l'accettava.


« Soprattutto, Emilia cara, » ripigliò il morente,
« non cedere alla magia de' bei sentimenti: gli è
l'errore d'uno spirito amabile; ma quelli che posseggono
una vera sensibilità, debbon sapere di buon'ora
quant'ella sia cosa pericolosa; è dessa che tragge
dalla menoma circostanza un eccesso di guai o di
piacere. Nel nostro passaggio traverso questo mondo
noi incontriamo più mali assai che godimenti; e
siccome il sentimento della pena è sempre più vivo
che quello del benessere, la nostra sensibilità ci
rende vittima quando non sappiamo moderar e contenerla. »


Emilia gli ripetè quanto i suoi consigli le fossero
preziosi, e gli promise di non dimenticarli mai e
cercare di approfittarne. Sant'Aubert le sorrise con
affetto e tristezza insieme. « Lo ripeto, » le disse,
« io non vorrei renderti insensibile, quand'anche ne
avessi il potere; vorrei solo guarentirti dagli eccessi
della sensibilità ed insegnarti ad evitarli. È spregevolissima
quella pretesa umanità che si contenta
di compiangere, nè pensa a confortare!... »[93]


Sant'Aubert, qualche tempo dopo, parlò della signora
Cheron sua sorella.


« Bisogna ch'io t'informi, » aggiunse, « d'una
circostanza interessante per te. Noi abbiamo avuto,
lo sai, pochissimi rapporti con lei, ma è la sola
parente che hai: ho creduto conveniente, come vedrai
nel mio testamento, di affidarti alle sue cure
sino all'età maggiorenne: essa non è veramente la
persona alla quale avrei voluto rimettere la mia
cara Emilia, ma non aveva altra alternativa, e la
credo in fondo poi una buona donna; non ho d'uopo,
figliuola, di raccomandarti d'usar la prudenza per
conciliarti le sue buone grazie: lo farai del certo
in memoria di chi l'ha tentato tante volte per te. »


Emilia protestò che quant'egli le raccomandava
sarebbe religiosamente eseguito. « Aimè! » soggiunse
affogata dai singhiozzi; « ecco in breve quanto mi
rimarrà; sarà la mia unica consolazione il compiere
esattamente tutti i vostri desiderii. »


La fanciulla non potea che ascoltare e piangere,
ma la calma estrema del padre, la fede, la speranza
cui dimostrava, lenivano alquanto la di lei disperazione.
Nondimeno, essa vedeva quella figura scomposta,
que' segni precursori di morte, quegli occhi
infossati, e sempre fissi in lei, quelle pupille pesanti
e preste a chiudersi: avea il cuore lacerato, e non
poteva esprimersi. Ei volle darle ancora una volta
la benedizione. « Dove sei, cara mia? » disse egli
allungando debolmente le mani verso di lei.


Emilia era rivolta dalla parte della finestra per
nascondere la sua inesprimibile afflizione; ma comprese
allora ch'egli non ci vedeva più: le impartì
la sua benedizione, che parve l'ultimo sforzo della
sua vita spirante, e ricadde sul guanciale; essa lo
baciò in fronte; il freddo sudore della morte gl'innondava
le tempie; e dimenticando tutto il suo coraggio,
gliele irrigò di lagrime. Il morente aprì gli
occhi; egli esisteva ancora, ma erano gli ultimi[94]
sforzi della natura affralita, ed in breve la sua anima
volò innanzi al Supremo Motore.


Emilia fu strappata a viva forza da quella camera
da Voisin e da sua figlia, che procurarono di calmare
il suo dolore; il vecchio piangeva con lei, ma
i soccorsi di Agnese erano più opportuni.




CAPITOLO VIII


Il buon religioso della mattina ritornò la sera per
consolare Emilia, e le portò l'invito dell'abbadessa
di un convento vicino al suo di recarsi da lei. La
fanciulla non accettò l'offerta, ma rispose con molta
riconoscenza. La pia conversazione del confessore,
la dolcezza delle sue maniere, che somigliavano a
quelle del defunto padre, calmarono un poco la violenza
dei suoi trasporti: innalzò il cuore all'Ente
Supremo, presente da per tutto. — Relativamente a
Dio, — pensava Emilia, — il mio dilettissimo padre
esiste come ieri esisteva per me: egli non è
morto che per me; per Dio, per lui, veramente
esiste. —


Ritirata nella sua cameretta, i suoi pensieri malinconici
vagarono ancora intorno al padre. Immersa
in una specie di sonno, imagini lugubri offuscaronle
l'immaginazione. Sognò di vedere il genitore accostarsele
con benevolo contegno. D'improvviso, sorrise
mesto, alzò gli occhi, aprì le labbra; ma invece
delle sue parole, udì una musica soave, trasportata
sull'aere a grandissima distanza. Vide allora tutti
i suoi lineamenti animarsi nella beata estasi d'un
ente superiore: l'armonia diventava più forte; essa
si destò. Il sogno era finito, ma la musica durava
ancora, ed era una musica celeste.


Tese l'orecchio, e si sentì agghiacciata da superstizioso
rispetto: le lagrime cessarono, si alzò, ed
affacciossi alla finestra. Tutto era oscuro, ma Emilia,
distogliendo gli occhi dalle tetre selve che frastagliavan[95]
l'orizzonte, vide a manca quell'astro brillante
ond'avea favellato il vecchio, e che trovavasi
al di sopra del bosco. Ricordossi quanto avea detto,
e siccome la musica agitava l'aere ad intervalli, aprì
la finestra per ascoltar la dolce armonia, la quale
poco dopo andò affievolendosi, ed essa tentò indarno
scoprire donde partisse. La notte non le permise
di nulla distinguere sul prato sottoposto, ed
i suoni diventando successivamente più fiochi e
soavi, cessero alfine il luogo ad un assoluto silenzio...


Il giorno dipoi essa ricevè un nuovo invito dalla
badessa; Emilia che non poteva risolversi ad abbandonare
la casuccia finchè vi riposava il cadavere
del padre, acconsentì con ripugnanza di andare
quella medesima sera a rassegnarle il suo rispetto.
Un'ora circa avanti il tramonto del sole,
Voisin le servì di guida, e la condusse al convento
traversando il bosco. Questo convento era situato,
al par di quello dei frati di cui abbiam parlato, all'estremità
di un piccolo golfo del Mediterraneo. Se
Emilia fosse stata meno infelice, avrebbe ammirato
la bella vista di un immenso mare, che si scopriva
da un colle, sul quale sorgeva l'edificio; essa avrebbe
contemplato quelle ricche spiaggie coperte d'alberi
e di pasture, ma le sue idee erano fisse in un solo
pensiero, e la natura non aveva ai suoi occhi nè
forma, nè colore. Mentre passava per l'antica porta
del convento la campana suonò a vespro, e le parve
il primo tocco del funerale del padre. I più leggeri
incidenti bastano per alterare uno spirito infiacchito
dal dolore. Emilia superò la crisi penosa, da cui
era agitata, e si lasciò condurre dalla badessa, la
quale la ricevè con materna bontà. La di lei fisonomia
interessante, i suoi sguardi benigni, penetrarono
Emilia di riconoscenza; avea gli occhi pieni
di lacrime, e non poteva parlare. La badessa la fece
sedere vicino a lei e l'osservò in silenzio, mentre
essa cercava di asciugare le lacrime. « Calmatevi,[96]
figliola, » le disse ella con voce affettuosa; « non parlate,
io v'intendo, voi avete bisogno di riposo. Noi
andiamo alla preghiera; volete accompagnarci? è
una consolazione, fanciulla cara, il poter deporre i
propri affanni in seno del nostro Padre celeste: egli
ci vede, ci compiange, e ci castiga nella sua misericordia. »


Emilia versò nuove lacrime, ma le più dolci emozioni
ne mitigarono l'amarezza. La badessa la lasciò
piangere senza interromperla, guardandola con quell'aria
di bontà che pareva indicare l'attitudine di
un angelo custode; Emilia divenne più tranquilla,
parlando francamente, spiegò i suoi motivi di non
lasciare l'abitazione di Voisin.


La badessa approvò i di lei sentimenti ed il suo
rispetto figliale, ma l'invitò a passare qualche giorno
al convento, prima di ritornare al suo castello.
« Procurate di distrarvi, figlia mia, » le disse ella,
« per rimettervi un poco da questa scossa, prima
di arrischiarne una seconda; non vi dissimulerò
quanto il vostro cuore si sentirà lacerare alla vista
del teatro della vostra passata felicità; qui voi troverete
tutte le consolazioni che possono offrire la
pace, l'amicizia e la religione; ma venite, » soggiunse
vedendo che gli occhi le si riempivano di
lacrime, « venite, scendiamo in cappella. »


Emilia la seguì in una sala, ov'erano già riunite
tutte le monache; la badessa la presentò dicendo:
« È una giovane per la quale ho molta considerazione;
trattatela come vostra sorella. » Andarono
tutte insieme alla cappella, e l'edificante devozione
colla quale fu recitato l'uffizio divino, elevò lo spirito
di Emilia alle consolazioni della fede e d'una
perfetta rassegnazione.


L'ora era già avanzata, quando la badessa acconsentì
a lasciarla partire. Ella uscì dal convento meno
oppressa di quando v'era entrata, e fu ricondotta a
casa da Voisin. Essa lo seguiva pensierosa in un[97]
sentieruzzo poco battuto, quando d'improvviso la
sua guida si fermò, guardossi intorno, gettossi fuor
del sentiero nello scopeto, dicendo d'avere smarrita
la strada; camminava con molta velocità. Emilia,
che non poteva seguirlo in un terreno lubrico e
nella oscurità, restava a gran distanza, e fu costretta
di chiamarlo: egli non voleva fermarsi, e
l'invitava ad accelerare il passo con ruvidezza.


« Se voi non siete certo della vostra strada, »
disse Emilia, « non sarebbe meglio indirizzarvi a
quel gran castello che scorgo là fra gli alberi?


— No, » disse Voisin, « non ne vale la pena:
quando saremo a quel ruscello dove voi vedete
splendere un lume al di là del bosco, noi saremo
a casa. Non capisco come ho potuto fare a smarrirmi:
sarà forse perchè vengo rare volte da queste
parti dopo il tramonto del sole.


— È un luogo molto solitario, » disse Emilia.
« Ma però non ci sono assassini?


— No, signorina, non ve ne sono.


— Cosa è dunque che vi spaventa tanto, amico
mio? Sareste mai superstizioso?


— No, non lo sono; ma, per dirvi la verità, signorina,
nessuno ama trovarsi la notte nelle vicinanze
di quel castello.


— Da chi è dunque abitato per crederlo così formidabile?


— Oh! signorina, se almeno fosse abitato! Il
signor marchese è morto, come vi dissi; non ci era
venuto da molti anni, ed i suoi servitori si sono
ritirati in una casuccia poco lontana. »


Emilia comprese allora che il castello era quello
di cui aveva già parlato Voisin, e che aveva appartenuto
al marchese di Villeroy, la cui morte
aveva tanto sorpreso il di lei padre.


« Ah, » disse Voisin; « com'esso è desolato! Era
pure una bella casa; che bella situazione! quando
me ne ricordo... »[98]


Emilia gli domandò il motivo di quel terribile
cambiamento. Il vecchio taceva, ed essa, colpita
dallo spavento ch'egli manifestava, occupata soprattutto
dall'interesse manifestato da suo padre, ripetè
la domanda, ed aggiunse: Se non sono gli abitanti
che vi spaventano, e se non siete superstizioso, per
qual ragione dunque, amico mio, non avete il coraggio
di avvicinarvi la sera a quel castello?


— Ebbene dunque, signorina, sarò forse un poco
superstizioso, ma se ne sapeste la vera cagione, potreste
divenirlo anche voi. Sono accadute colà cose
stranissime; il vostro buon padre pareva aver conosciuto
la marchesa.


— Ditemi, vi prego, cos'è accaduto? » gli disse
Emilia molto commossa.


— Oimè! » rispose Voisin; « non mi domandate di
più; i segreti domestici del mio padrone devono
essere sempre sacri per me. »


Emilia, sorpresa da quest'ultima espressione, e
sopratutto dal tuono di voce con cui avevala pronunziata,
non volle fare ulteriori domande. Un interesse
più vivo, l'imagine di Sant'Aubert, occupava
allora tutti i suoi pensieri, ella si rammentò
la musica della notte precedente, e ne parlò a Voisin.
« Voi non siete stata la sola, » le diss'egli; « l'ho
udita anch'io; ma ciò m'accade così spesso a quell'ora,
che non ci bado più.


— Voi credete al certo, » disse Emilia, « che
questa musica abbia rapporti col castello, ed ecco
perchè siete superstizioso, n'è vero?


— Può essere signorina; ma vi sono altre circostanze
relative a quel castello, e delle quali io
conservo tristamente la memoria. »


Queste parole furono accompagnate da un profondo
sospiro, e la delicatezza di Emilia trattenne
la curiosità, che le avevano destato quei detti misteriosi.


Tornata a casa, la sua disperazione ricominciò:[99]
pareva che non ne avesse sospeso il corso se non
perdendo momentaneamente di vista colui che ne
formava il soggetto; andò tosto a contemplare la
salma del padre, e cedè a tutti i trasporti di un
dolore senza speranza. Voisin avendola finalmente
decisa di allontanarsene, se ne tornò nella sua camera.
Oppressa dalle fatiche del giorno, si addormentò
immediatamente, e quando si svegliò trovossi
molto più sollevata.


Sant'Aubert aveva domandato di essere sepolto
nella chiesa delle monache di Santa Chiara; aveva
scelta la cappella settentrionale, prossima alla sepoltura
dei marchesi di Villeroy, e ne aveva indicato
il posto. Il superiore vi acconsentì, e la processione
funebre s'incamminò a quella volta. Il venerando
padre, seguito da molti preti, venne a
riceverla alla porta. Il canto del Miserere, il suono
dell'organo, che rimbombò in chiesa quando vi
entrò la bara, i passi vacillanti, e l'aria abbattuta
di Emilia, avrebbero strappato le lacrime ai cuori
più duri; ma essa non ne versò neppur una. Colla
faccia semicoperta da un velo nero, camminava in
mezzo a due persone che la sorreggevano; la badessa
la precedeva, le monache la seguivano, ed il
lamentoso loro canto faceva eco a quello lugubre
del coro. Quando la processione fu giunta al sepolcro,
Emilia abbassò il velo, e nell'intervallo dei
canti si distinsero facilmente i di lei singulti. Il reverendo
sacerdote cominciò la messa, ed Emilia
riescì a frenarsi alquanto, ma quando il cadavere
fu deposto nella tomba, quando udì gettar la terra
che dovea ricoprirlo, le sfuggì un fioco gemito, e
cadde in braccio alla persona che la sosteneva; ma
si rimise prontamente, e potè intendere quelle parole
sublimi: — Il suo corpo riposa in pace, e l'anima
è tornata a Chi glie l'ha data.
— La sua disperazione
allora fu sollevata da un diluvio di lacrime.[100]


La badessa la fece uscire di chiesa, la condusse
nel suo appartamento, e le offrì tutti i soccorsi
della santa religione e di una tenera pietà. La fanciulla
facea sforzi per vincere la sua debolezza; ma
la superiora, la quale l'osservava attenta, le fece
preparare un letto e la indusse al riposo. Reclamò
con bontà la promessa fatta da lei di passar qualche
giorno al convento. Emilia, cui nulla più richiamava
alla capanna, teatro del suo infortunio,
ebbe agio allora di considerar la sua posizione, e
si sentì incapace di ripartire immediatamente.


Intanto la bontà materna della badessa e le dolci
attenzioni delle monache nulla risparmiavan per
calmare il di lei spirito e restituirla in salute; ma
essa avea provato scosse troppo violente per ristabilirsi
presto: fu adunque per parecchie settimane
colta da lenta febbre, e cadde in uno stato di languore.
S'affligea di lasciar la tomba dove riposavano
le ceneri del padre; si lusingava che, se moriva
colà, sarebbe a lui riunita. Intanto, Emilia
scrisse alla signora Cheron sua zia ed alla sua
vecchia governante per partecipar loro l'accaduto,
ed informarle della sua situazione. Mentre l'orfanella
stava in convento, la pace interna di quell'asilo,
la bellezza de' dintorni, le attenzioni della superiora
e delle monache fecero su lei un effetto sì attraente,
che fu quasi tentata di separarsi dal mondo; essa
avea perduto i suoi più cari amici, voleva chiudersi
in quel chiostro, in un soggiorno che il sepolcro
del padre rendeale sacro in sempiterno. L'entusiasmo
del suo pensiero, ch'erale quasi naturale, avea
sparso una vernice sì patetica sul santo ritiro d'una
monaca, ch'ell'avea quasi smarrito di vista il vero
egoismo che lo produce. Ma i colori che un'imaginazione
malinconica, lievemente imbevuta di superstizione,
prestava alla vita monastica, svanirono a poco
a poco, quando le tornarono le forze, e ricondussero
un'imagine ch'erane stata bandita soltanto passaggiermente.[101]
Tale memoria richiamolla tacitamente alla
speranza, alla consolazione, ai più dolci sentimenti;
bagliori di felicità mostraronsi da lunge, e benchè
non ignorasse a qual punto potevano esser fallaci,
non volle privarsene. Dopo parecchi giorni, ricevè
una risposta dalla sua zia, gonfia di espressioni comuni
di condoglianza, ma non d'un vero dolore;
le annunziava che una persona da lei incaricata sarebbe
andata a prenderla per ricondurla al castello
della valle, giacchè le di lei occupazioni non le
permettevano d'intraprendere un sì lungo viaggio.
Sebbene Emilia preferisse la sua valle a Tolosa, fu
nonostante colpita da una condotta così poco delicata
e sconveniente. La zia permetteva ch'ella ritornasse
al suo castello senza parenti e senza amici
per consolarla e per difenderla; e questa condotta
diveniva tanto più colpevole, in quanto che suo padre
moribondo aveva affidata la derelitta figliuola
alle cure della sorella, com'essa l'aveva avvisata
nella lettera scrittale.


Passarono alcuni giorni dall'arrivo dell'inviato
della signora Cheron all'epoca in cui Emilia fu in
grado di partire. La sera precedente alla sua partenza,
andò a casa di Voisin per congedarsi da quella
buona famiglia, ed attestarle la sua riconoscenza:
trovò il buon vecchio assiso sulla porta, fra la figlia
ed il genero, che, riposando in quel momento dai
lavori della giornata, suonava una specie di flauto
somigliante ad una zampogna. Essi avevano innanzi
a sè imbandita una piccola mensa ben provvista di
pane, frutti e vino; i ragazzi, tutti belli e pieni di
salute, godevano intorno alla tavola della refezione
che lor veniva distribuita con indicibile affetto dai
genitori. Emilia si fermò un momento prima di
avvicinarsi, contemplando il quadro interessante di
quella buona gente; essa guardava attentamente
quel vecchio rispettabile, e girando gli occhi sulla
casa, l'immagine del padre le rammentò tutto l'orrore[102]
della sua situazione. Disse addio a tutta la famiglia
con un'espressione la più tenera e sensibile;
Voisin l'amava come sua figlia e versava lacrime.
Emilia piangeva; evitò di entrare nella casetta, che
le avrebbe rinnovato impressioni troppo dolorose,
e partì.


Tornata al convento, ella si decise di visitare ancora
una volta la tomba del padre. Avendo inteso
che un andito sotterraneo conduceva a quei sepolcri,
aspettò che tutti fossero in letto, eccettuato una
monaca che le aveva promessa la chiave della
chiesa. Emilia restò in camera finchè l'orologio
suonò mezzanotte, ed allora giunse la monaca
colla chiave promessa. Scesero insieme una
scaletta a chiocciola; la monaca si offrì di accompagnarla
fino al sepolcro, aggiungendo spiacerle il
lasciarla andar sola a quell'ora; ma Emilia la ringraziò,
e non potè acconsentire di avere un testimonio
del suo dolore. La buona religiosa aprì una
porticina e le porse il lume. Emilia la ringraziò, si
avanzò nella chiesa, e suora Maria si ritirò. Assalita
da improvviso terrore, la fanciulla si riavvicinò alla
porta, ed era tentata di richiamarla, ma al momento
stesso, vergognandosi del suo timore, si avanzò nuovamente.
L'aria fredda e umida di quel luogo, il
cupo silenzio che vi regnava, e un fioco raggio di
luna che traversava una finestra gotica, avrebbero
senza dubbio risvegliata in chiunque la superstizione;
ma essa in quel punto non aveva altro pensiero
che il suo dolore. Tutto ad un tratto le parve vedere
un'ombra fra le colonne; si fermò, ma non
avendo udito i passi di alcuno, conobbe esser l'effetto
della sua imaginazione alterata. Sant'Aubert
era sepolto in un'urna semplicissima, la quale non
portava altra iscrizione fuor del suo nome e cognome,
la data della nascita e quella della morte,
ed era situata al piè del pomposo mausoleo de' Villeroy.
Emilia vi si trattenne in orazione finchè la[103]
campana del mattutino l'avvertì esser tempo di ritirarsi.
Versò ancora qualche lacrima, baciò il prezioso
sarcofago, e se ne tornò in camera abbandonando
un luogo così tristo. Dopo quel momento di
effusione gustò di un sonno tranquillo; svegliandosi,
si sentì lo spirito più calmo, e parve più rassegnata
di quello fosse stata dopo la morte del padre.


Giunto il momento della partenza, tutto il suo
dolore si rinnovò; la memoria di suo padre nella
tomba, e la bontà di tante persone viventi, l'affezionavano
a quella dimora; ella sembrava provare,
per il luogo ove riposava Sant'Aubert, quella tenera
affezione che si risente per la patria. La badessa,
nel separarsi da lei, le diede tutte le più sensibili
testimonianze di attaccamento, e l'impegnò a tornare,
se altrove non avesse incontrata quella considerazione,
che dovea aspettarsi. Le altre monache
le esternarono i più vivi rammarici; alla perfine
lasciò il convento colle lacrime agli occhi, portando
seco l'affetto ed i voti di tutte le persone che vi
restavano.


Aveva già percorso un lungo tratto di paese prima
che il magnifico spettacolo, che si offeriva alla sua
vista, potesse distrarla. Assorta nella malinconia, non
notò tanti oggetti incantevoli se non per rammentarsi
meglio il padre perduto. Sant'Aubert trovavasi
con lei quando prima li aveva veduti, e le di lui
osservazioni su di essi le tornavano alla memoria.
Quel giorno passò nel languore e nell'abbattimento;
la notte essa dormì sulla frontiera della Linguadoca,
ed il dì successivo entrò in Guascogna.


Al tramontar del sole, Emilia si trovò nelle vicinanze
della valle tutti quei luoghi che conosceva
sì bene, richiamandola a rimembranze che le straziavano
il cuore, ridestarono tutta la sua tenerezza
ed il suo dolore; guardava piangendo le vette dei
Pirenei colorite allora dalle più belle e vaghe tinte
del tramonto. « Là, » sclamava essa, « là sono[104]
quelle medesime grotte; ecco là il medesimo bosco
di abeti ch'egli guardava con tanta compiacenza
quando passammo insieme da quei luoghi! Ecco là
quella capanna sull'ameno colle del quale mi aveva
fatto disegnare la veduta. Oh! padre mio, io non
vi vedrò mai più. »


La strada ad una svolta le lasciò scorgere il castello
in mezzo a quel magnifico paesaggio; i fumaiuoli,
imporporati dall'occaso, sorgevan dietro le
piantagioni favorite di Sant'Aubert, il cui fogliame
celava le parti basse dell'edifizio. Emilia non potè
reprimere un profondo sospiro. — Quest'ora, pensava
ella, era pure la sua ora prediletta. — E vedendo
il paese sul quale allungavansi le ombre:
« Qual quiete! » sclamava; « qual deliziosa scena!
tutto è tranquillo, tutto è amabile, aimè! come già
un tempo! »


Ella resisteva ancora al peso terribile del suo
dolore, quando udì la musica dei balli campestri
che bene spesso aveva osservati passeggiando col
padre sulle fiorite sponde della Garonna. Allora
pianse amaramente fino al momento in cui si fermò
la carrozza. Alzò gli occhi, e riconobbe la sua vecchia
governante che apriva la porta della casa. Il
cane di suo padre veniva festoso incontro di lei, e
quando fu discesa la colmò di carezze; lo che aumentò
il di lei vivo dolore.


« Mia cara padroncina... » le disse Teresa, e poi
si fermò; le lacrime di Emilia le impedivano di replicare;
il cane saltellava intorno a lei; di repente
corse alla carrozza. « Ah! signora Emilia, povero
il mio padrone! » sclamò Teresa; « il suo cane è
andato a cercarlo. »


Emilia singhiozzò vedendo quell'animale amoroso
saltare in carrozza, scendere, fiutare, e cercare con
inquietudine.


« Venite mia cara signorina, » disse Teresa, « andiamo;
che cosa potrò io darvi per rinfrescarvi? »[105]


Emilia prese la mano della governante, sforzandosi
di moderare il suo dolore, con interrogazioni
sullo stato della di lei salute. Camminava lentamente
verso la porta, si fermava, faceva un passo,
e si fermava di nuovo. Qual silenzio! Qual abbandono,
qual morte in quel castello! Temendo di rientrarvi,
e rimproverandosi le sue esitanze, traversò
rapidamente la sala, come se avesse temuto di guardarsi
intorno, ed aprì il gabinetto che altre volte
chiamava il suo. L'imbrunir della sera dava qualcosa
di solenne al disordine di quel luogo: le sedie,
i tavolini, e tutti gli altri mobili, che in tempi
più felici osservava appena, parlavano allora troppo
eloquentemente al suo cuore; ella sedette vicino ad
una finestra che guardava sul giardino, d'onde, in
compagnia del padre, aveva spesso contemplato
l'effetto maraviglioso del sole all'occaso. Non si contenne
più e si trovò sollevata da quello sfogo.


« Vi ho preparato il letto verde, » disse Teresa
portandole il caffè; « ho creduto che ora lo preferireste
al vostro. Non avrei mai creduto che aveste
a tornar sola. Qual giorno, gran Dio! La nuova,
quando la ricevetti, mi trapassò il cuore: chi l'avrebbe
detto, quando partì il mio povero padrone, che non
doveva tornare mai più? »


Emilia si coprì la faccia col fazzoletto, e le accennò
di tacere e partirsene.


La fanciulla rimase alcun tempo immersa in alta
mestizia; non vedea un solo oggetto che non le
ravvivasse il suo dolore: le piante favorite di Sant'Aubert,
i libri scelti per lei, e cui leggevano spesso
insieme, gli strumenti musicali onde amava tanto
l'armonia e che suonava egli medesimo. Alla fine,
fattasi coraggio, volle vedere l'appartamento abbandonato;
sentì che la sua pena sarebbe aumentata se
differiva.


Traversò il cortile, ma il coraggio le venne meno
nell'aprir la biblioteca; forse l'oscurità che la sera[106]
ed il fogliame diffondevano intorno accresceva il religioso
effetto di quel luogo, dove tutto le parlava
del padre. Scorse la sedia nella quale si poneva:
rimase interdetta a tal vista, ed immaginossi quasi
averlo visto in persona dinanzi a lei. Cercò scacciare
le illusioni d'un'immaginazione turbata, ma
non potè astenersi da un certo rispettoso terrore
che mescolavasi alle sue emozioni. Inoltrò pian
piano verso la sedia e vi s'assise; avea presso un
leggìo, su cui stava un libro che suo padre non
avea chiuso; riconoscendo la pagina aperta, rammentossi
che la vigilia della sua partenza Sant'Aubert
aveagliene letto qualcosa: era il suo autore favorito.
Guardò il foglio, pianse, e tornò a guardarlo: quel
libro era sacro per lei; essa non avrebbe chiusa la
pagina aperta per tutti i tesori del mondo; ristette
dinanzi al leggìo, non potendo risolversi a lasciarlo.


In mezzo ai suoi tristi pensieri, vide la porta
aprirsi lentamente; un suono cui udì in fondo alla
stanza, la fece trabalzare; credette scorgere qualche
movimento. Il subietto della sua meditazione, l'abbattimento
de' suoi spiriti, l'agitazione de' sensi le
cagionarono un repentino terrore; s'aspettò qualcosa
di sovrannaturale. Ma la ragione vincendo la paura:
« Di che ho io a temere? » disse; « se le anime
di coloro che amiamo compariscono, non può essere
che pel nostro meglio. »


Il silenzio che regnava la fece vergognare del suo
timore; frattanto il medesimo suono ricominciò; distinguendo
qualcosa intorno a lei, che venne ad
urtar leggermente la sua sedia, gettò un grido, ma
non potè nel tempo stesso trattenersi dal sorridere
con un po' di confusione, riconoscendo il buon cane
che si accucciava vicino a lei, e le lambiva le mani.
Emilia, non trovandosi in grado quella sera di visitare
tutto il castello, uscì ed andò a passeggiare
in giardino, sul terrazzo sovrastante al fiume. Il
sole era tramontato, ma sotto i fronzuti rami de' mandorli[107]
distinguevansi le strisce di fuoco che indoravano
il crepuscolo. La fanciulla si avvicinò al platano
favorito, ove Sant'Aubert sedeva spesso vicino
a lei, e dove la sua tenera madre le aveva tante
volte parlato delle delizie della vita futura; quante
volte ben anco suo padre aveva trovato conforto
nell'idea di una eterna riunione! Oppressa da tale rimembranza,
lasciò il platano, ed appoggiandosi al
muro del terrazzo, vide un gruppo di contadini che
ballavano allegramente sulle rive della Garonna, la
cui vasta estensione rifletteva gli ultimi raggi del
dì. Qual doloroso contrasto per la povera Emilia,
infelice e desolata! Si voltò, ma oimè! dove poteva
essa andare senza incontrar ad ogni passo oggetti
fatti per aggravare il suo dolore? se ne tornava
lentamente a casa quando incontrò Teresa, la quale
sgridolla dolcemente di esporsi sola in giardino ed
a quell'ora, dove non poteva ricevere alcuna consolante
assistenza nello stato penoso in cui si trovava.


« Ve ne prego, Teresa, lasciatemi tranquilla, »
disse Emilia; « la vostra intenzione è ottima, ma
l'eloquenza è male adattata in questo momento.


— Intanto la cena è preparata, » rispose la governante.


— Non posso mangiare, » disse Emilia.


— Fate malissimo, mia cara padrona, bisogna nutrirsi.
Vi ho preparato un fagiano, che m'ha mandato
stamattina il signor Barreaux: avendolo incontrato
ieri, gli dissi che vi aspettava; vi giuro
che non ho mai veduto un uomo più afflitto di lui,
quando gli diedi la trista nuova... »


Emilia, malgrado tutte le premure di Teresa, non
volle mangiare, e si ritirò nella sua camera.


Qualche giorno appresso ricevè lettere di sua zia.
La signora Cheron, dopo alcune espressioni di consolazione
e di consiglio, la invitava ad andare a
Tolosa, aggiungendo che il defunto fratello avendole
affidata la sua educazione, si credeva in obbligo[108]
d'invigilare sopra di lei. Emilia avrebbe preferito
di restare alla valle; essendo esso l'asilo della sua
infanzia ed il soggiorno di coloro che aveva perduti
per sempre, poteva piangerli liberamente senza essere
molestata da alcuno; ma desiderava parimenti non
dispiacere alla sola parente che le restava.


Quantunque la di lei tenerezza non le permettesse
di dubitare un istante sulle ragioni che avevano
determinato Sant'Aubert a fare questa scelta, Emilia
comprendeva benissimo che la sua felicità andava
ad essere esposta ai capricci della zia. Rispondendole,
ella chiese il permesso di restare ancora qualche
tempo nella valle, allegando il suo estremo abbattimento,
ed il bisogno che aveva di riposo e di
solitudine, per ristabilirsi dai dispiaceri sofferti;
sapeva benissimo che i di lei gusti differivano assai
da quelli di sua zia, la quale amava la dissipazione,
e le sue ricchezze le permettevano di goderne.
Dopo avere scritta questa lettera, Emilia si sentì
più sollevata.


Ricevè la visita di Barreaux, il quale compiangeva
sinceramente la perdita dell'amico.


« Non posso rammentarmene senza il più vivo
interesse, » diceva egli; « io non troverò alcuno
che lo somigli. Se avessi incontrato un uomo solo
come lui nel mondo, non ci avrei rinunciato. »


L'affezione di Barreaux per Sant'Aubert lo rendeva
estremamente caro ad Emilia; la di lei maggior
consolazione consisteva nel parlare de' suoi
genitori con un uomo che stimava moltissimo, e
che, sotto un esteriore poco gradevole, nascondeva
un cuore tanto sensibile ed uno spirito così coltivato.


Scorsero parecchie settimane, ed Emilia nel suo
pacifico ritiro passò gradatamente dal dolore ad una
dolce malinconia; poteva già leggere, e leggere perfino
i libri che aveva percorsi col padre, sedere al
suo posto nella biblioteca, inaffiare i fiori da lui[109]
piantati, suonare il pianoforte, e cantare di tempo
in tempo qualcuna delle sue arie favorite.


Quando il suo spirito fu un poco rimesso da questa
prima scossa, comprese il pericolo di cedere all'indolenza,
e pensando che un'attività sostenuta avrebbe
potuto restituirle la forza, si attaccò scrupolosamente
ad impiegare con metodo tutte le ore del giorno.
Allora conobbe più che mai il pregio dell'educazione
ricevuta. Coltivando la di lei mente, Sant'Aubert le
aveva assicurato un rifugio contro l'ozio e la noia.
La dissipazione, i brillanti divertimenti e le distrazioni
della società da cui separavala la sua posizione
attuale, non eranle punto necessari. Ma, nel tempo
medesimo, il padre aveva sviluppato le preziose
qualità del suo spirito; spargendo le sue beneficenze
intorno a sè, con la bontà e la compassione addolciva
i mali di coloro che non poteva alleviare coi
soccorsi; in una parola, sapeva compatire tutti gli
esseri che si trovavano vittima dei mali inseparabili
della vita umana.


Non ricevendo nessuna risposta dalla Cheron,
Emilia cominciava a lusingarsi di poter prolungare
il suo soggiorno nella valle; e sentendosi bastantemente
in forza, si arrischiò a visitare quei luoghi,
ove il passato rappresentavasi più vivamente al di
lei spirito; recossi dunque alla peschiera, e per aumentare
la malinconia, che tanto le piaceva, portò
seco il liuto, e vi andò in una di quelle ore della
sera che tanto si affanno all'immaginazione e al
cuore: quando la fanciulla fu tra i boschi e vicina
a quel luogo delizioso, si fermò, appoggiossi contro
un albero, e pianse qualche minuto prima di avanzarsi.
La stradella che menava al padiglione era
allora tutta ingombra di erbe; i fiori seminati da
suo padre sui margini, ne parevan quasi soffocati;
le ortiche, il caprifoglio crescevano a cespi; ed ella
osservava tristamente quella passeggiata negletta;
ove tutto annunziava il disordine e la noncuranza,[110]
aprì la porta tremando. « Ah! » disse; « ogni cosa
è al suo posto come ve la lasciai quando ci stava
in compagnia di chi non rivredrò mai più. » Se
ne stava ella così pensierosa, senza riflettere ch'era
imminente la notte, e che gli ultimi raggi del sole
indoravano già la cima de' monti; sarebbe rimasta
senza dubbio più a lungo in quella situazione, se
non fosse stata risvegliata da un rumore di passi
dietro l'edifizio. Poco dopo fu aperta la porta, comparve
uno straniero, e stupefatto di vedere Emilia,
la supplicò di scusare la sua indiscretezza. Al suono
di quella voce, svanì il timore di lei, ma crebbe la
sua commozione. Quella erale famigliare, e sebbene
non potesse riconoscerne l'oggetto, la memoria le
serviva troppo bene perch'ella conservasse paura.


L'ignoto ripetè le sue scuse. Emilia rispose qualche
parola, ed allora avanzandosi esso con vivacità,
esclamò: « Gran Dio! è mai possibile? Certo, io non
m'inganno, è la signorina Sant'Aubert.


— È vero, » disse Emilia, riconoscendo Valancourt,
la cui fisonomia sembrava molto animata.
Mille rimembranze penose rinnovarono le sue tristi
afflizioni, e lo sforzo che fece per contenersi, non
servì se non ad agitarla davvantaggio. Valancourt
intanto s'informava premurosamente della salute di
Sant'Aubert. Un torrente di lacrime gli fece conoscere
pur troppo la fatal notizia. Egli la condusse
ad una sedia, e si assise vicino a lei che continuava
a piangere, mentre il giovane teneva una mano
stretta fra le sue.


« Io so, » disse finalmente, « quanto in simili
casi sono inutili le consolazioni: dopo una sì gran
disgrazia, non posso che affliggermi con voi. »


Quando Valancourt intese che Sant'Aubert era
morto in viaggio, ed aveva lasciato Emilia in mano
a persone estranee, esclamò involontariamente:
« Dov'era io? » quindi mutò discorso, e parlò di
sè medesimo. Le raccontò che, dopo la loro separazione,[111]
aveva errato qualche giorno sulla riva del
mare, ed era tornato in Guascogna passando per la
Linguadoca.


Dopo questa breve narrazione, egli tacque: Emilia
non era disposta a riprendere la parola, e s'incamminarono
verso il castello. Quando furono giunti
alla porta, egli si fermò come se avesse creduto di
non dover andar più oltre; disse ad Emilia che
contando recarsi il giorno seguente ad Estuvière,
domandava il permesso di venire a congedarsi da
lei, ed essa non ebbe coraggio di negarglielo.


Giunta la notte, non potè prender sonno, essendo
più che mai occupata dalla memoria del padre.
Rammentandosi in qual maniera precisa e solenne
le aveva ordinato di bruciare le sue carte, rimproverò
a sè stessa di non avere obbedito più presto,
e decise di riparar la domane a questa negligenza.




CAPITOLO IX


La mattina seguente, Emilia fece accendere il
fuoco nella camera da letto del padre, e vi andò
ond'eseguire scrupolosamente i di lui ordini: chiuse
la porta per non essere sorpresa, ed aprì il gabinetto
dov'erano i manoscritti; là, in un canto,
presso un seggiolone, eravi il medesimo tavolino
ove avea veduto assiso il padre la notte precedente
alla loro partenza, ed essa non dubitò più che le
carte di cui le aveva parlato, non fossero quelle
stesse la cui lettura gli cagionava allora tanta emozione.
La vita solitaria vissuta da Emilia, i malinconici
subietti de' suoi consueti pensieri avevanla
resa suscettibile di credere a spettri e fantasime.
Era in ispecie passeggiando la sera in una casa
deserta, ch'ella avea rabbrividito più volte a pretese
apparizioni, che non l'avrebbero mai colpita quand'era
felice: tal fu la causa dell'effetto da lei provato,[112]
allorchè, alzando gli occhi per la seconda volta
sulla sedia posta in un canto oscuro, vi scorse
l'imagine del genitore. Fu colta da terrore, ed uscì
a precipizio. Poco stante rimproverossi la sua debolezza
nel compiere un dovere così serio, e riaperse
il gabinetto. A tenore delle istruzioni ricevute
trovò ben presto il nodo che doveva servirle di
guida: calcò col piede, e la tavola scorse da per
sè sotto la contigua. Emilia vi ritrovò il fascio di
carte, la borsa dei luigi, e qualche altro foglio
sparso; prese tutto con mano tremante, richiuse
il segreto, e disponevasi a rialzarsi, quando si vide
ancora dinanzi l'imagine che l'avea spaventata: ella
si precipitò nella camera, e cadde sopra una sedia
svenuta; poco dopo rinvenne, e superò in breve
quella spaventevole, ma pietosa sorpresa dell'immaginazione.
Tornò alle carte, ma avea la testa sì poco
a casa, che fissò gli occhi quasi involontariamente
sopra le pagine aperte, senza pensare che trasgrediva
agli ordini formali del padre; una frase di
estrema importanza risvegliò l'attenzione e la memoria
di lei. Abbandonò le carte, ma non potè cancellare
dallo spirito le parole che rianimavano così
vivamente il suo terrore e la sua curiosità; essa
erane estremamente commossa. Più meditava, e più
la sua immaginazione accendevasi. Spinta dalle più
imperiose ragioni, voleva conoscere il mistero che
si nascondeva in quella frase; si pentiva del giuramento
fatto, ed arrivò perfino a dubitare di essere
obbligata ad osservarlo; ma il suo errore non fu di
lunga durata.


« Ho promesso, » diss'ella, « e non devo discutere,
ma obbedire: allontaniamo una tentazione che mi
renderebbe colpevole, giacchè mi sento forza bastante
per resistere. » E all'istante tutto fu arso.


Aveva lasciata la borsa sul tavolino senza aprirla;
ma accorgendosi che conteneva qualcosa di più
grosso dei dobloni, si mise ad esaminarla.[113]


« La sua mano ve li pose, » dicea ella baciando
ogni moneta ed irrigandola di lagrime; « la sua mano,
che or non è più se non fredda polvere! »


Vi trovò in fondo un pacchettino, contenente una
scatoletta d'avorio nella quale esisteva il ritratto
d'una signora. Stupì e sclamò: « È la stessa dinanzi
la quale piangeva mio padre! » Per quanto la considerasse
attentamente, non potè precisarne la somiglianza:
essa era di peregrina beltà. La sua espressione
particolare era la dolcezza, ma vi regnava
un'ombra di tristezza e rassegnazione.


Sant'Aubert non le aveva prescritto nulla a proposito
di questa pittura. Emilia credè poterla conservare,
e rammentandosi in qual modo le avesse
parlato della marchesa di Villeroy, s'immaginò facilmente
che quello ne fosse il ritratto: pur non
sapeva comprendere per qual ragione egli l'avesse
conservato.


La fanciulla osservava la miniatura, senza comprendere
l'interesse che prendeva a contemplarla,
e il movimento d'affetto e di pietà che sentiva in
sè. Ricci di capelli bruni scherzavano trascuratamente
sovra un'ampia fronte: avea il naso quasi
aquilino. Le labbra sorridevano, ma con malinconia:
sollevava gli occhi cilestri al cielo con amabil
languore, e la specie di nube sparsa su tutta la sua
fisonomia parea esprimere la più viva sensibilità.


Emilia fu scossa dalla profonda meditazione in
cui l'aveva gettata quel ritratto, sentendo aprire la
porta del giardino: conobbe che Valancourt ritornava
al castello, e le abbisognarono alcuni momenti
per rimettersi. Quando lo incontrò nel salotto, fu
colpita dal cambiamento della sua fisonomia dopo
la loro separazione nel Rossiglione: il dolore e l'oscurità
le avevano impedito di accorgersene la sera
precedente; ma l'abbattimento di Valancourt cedè
alla gioia di vederla.


« Voi vedete, » le disse, « ch'io faccio uso del[114]
permesso da voi accordatomi. Vengo per dirvi addio,
sebbene abbia avuto la fortuna d'incontrarvi
ieri soltanto. »


Emilia sorrise debolmente, e, come imbarazzata
di ciò che dovrebbe dire, gli domandò da quanto
tempo fosse tornato in Guascogna. « Vi sono da... »
disse Valancourt facendosi rosso, « dopo aver avuta
la disgrazia di separarmi da amici che mi avevano
reso così delizioso il viaggio dei Pirenei; ho fatto
un giro assai lungo. »


Una lacrima scorse dagli occhi d'Emilia mentre
Valancourt parlava; egli se ne avvide e parlò di
tutt'altro; lodò il castello, la sua bella situazione
ed i punti di vista che offriva. Emilia, imbarazzatissima
per quel colloquio, scelse con piacere un
soggetto indifferente. Andarono sul terrazzo, e Valancourt
fu incantato dalla vista del fiume, dei
prati, e dei quadri molteplici che presentava la
Guienna.


Si appoggiò al parapetto, contemplando il rapido
corso della Garonna. « Non è molto tempo, » diss'egli,
« che sono rimontato fino alla sua sorgente;
io non aveva allora la fortuna di conoscervi, poichè
in tal caso avrei dolorosamente sentita la vostra
assenza. »


Il giovane tacque, e sedette accanto a lei, muto
e tremante; finalmente disse con voce interrotta:
« Questo luogo delizioso.... dovrò abbandonarlo, e
abbandonerò anche voi, forse per sempre.


Questi momenti possono non tornar più; non voglio
perderli: soffrite intanto che, senza offendere
la vostra delicatezza e il vostro dolore, vi esprima
una volta tutta l'ammirazione, e la riconoscenza
che m'inspira la vostra bontà. Oh! se io potessi
avere un giorno il diritto di chiamare amore il vivo
sentimento che... »


La commozione di Emilia non le permise di rispondere,
e Valancourt, avendo gettato gli occhi[115]
su di lei, la vide impallidire e sul punto di venir
meno: fece un moto involontario per sostenerla, e
questo moto bastò a farla rinvenire con certo quale
spavento. Quando Valancourt riprese la parola, tutto
in lui, e perfino la voce, manifestava l'amore il più
tenero.


« Io non ardirei, » soggiunse egli, « parlarvi più
a lungo di me: ma questo momento crudele avrebbe
meno amarezza, se potessi portar meco la speranza,
che la confessione, testè sfuggitami, non mi escluderà
in avvenire dalla vostra presenza. »


Emilia fece un nuovo sforzo per vincere la confusione
delle sue idee. Temeva di tradire il suo
cuore, e di lasciar conoscere la preferenza che accordava
a Valancourt. Ella esitava a manifestare i
sentimenti ond'era animata, non ostante che il cuore
ve la spingesse con molta vivacità. Nonpertanto,
riprese coraggio, per dirgli che si trovava onorata
dalla bontà d'una persona, per la quale suo padre
aveva avuto tanta stima.


« Egli mi ha dunque giudicato degno della sua
stima? » disse Valancourt con dubbiosa timidezza;
poi, rimettendosi, soggiunse: « Perdonate questa
domanda; io so appena ciò che voglia dirmi. Se
ardissi lusingarmi della vostra indulgenza, se voi
mi concedeste la speranza di avere qualche volta
le vostre nuove, mi separerei da voi con maggior
tranquillità. »


Dopo un momento di silenzio, Emilia rispose:
« Io sarò sincera con voi; voi vedete la mia situazione,
e son certa che vi ci adatterete. Vivo in
questa casa, che fu quella del padre mio, ma ci
vivo sola. Oimè! Io non ho più genitori, la cui
presenza possa autorizzare le vostre visite...


— Non affetterò di non sentire questa verità, »
disse il giovane. Poi aggiunse tristamente: « Ma
chi m'indennizzerà del sacrificio che mi costa la
mia franchezza? Almeno mi permetterete voi di
presentarmi ai vostri parenti. »[116]


La fanciulla confusa, non sapeva che rispondere
conoscendone la difficoltà. Il suo isolamento e la
sua posizione non le lasciavano un amico del quale
potesse ricevere un consiglio. La Cheron, unica sua
parente, era occupata solo de' propri piaceri, e trovavasi
talmente offesa della ripugnanza di Emilia
a lasciar la valle, che sembrava non pensar più
a lei.


« Ah! io lo vedo, » disse Valancourt, dopo un
lungo silenzio, « conosco che mi sono lusingato di
troppo. Voi mi credete indegno della vostra stima.
Viaggio fatalissimo! Io lo riguardava come l'epoca
più fortunata della mia vita: quei giorni deliziosi
avveleneranno il mio avvenire. »


Qui si alzò bruscamente, e passeggiando a gran
passi sul terrazzo, gli si vedeva la disperazione dipinta
in volto. Emilia ne fu vivamente commossa. I
movimenti del suo cuore trionfarono della di lei
timidezza, e quando egli le fu vicino, gli disse con
una voce che la tradiva: « Voi fate torto ad amendue,
quando dite ch'io vi credo indegno della mia
stima; devo confessare che la possedete da molto
tempo, e che.... »


Valancourt aspettava impaziente la fine della frase,
ma le parole le spirarono sul labbro: i suoi occhi
nullameno manifestavano tutte l'emozioni del di
lei cuore; Valancourt passò rapidamente dall'imbarazzo
alla gioia. « Emilia, » esclamò egli,
« mia cara Emilia. O cielo! come resistere a tanta
felicità! »


Si accostò alla bocca la mano della fanciulla;
essa era fredda e tremante, e Valancourt la vide
impallidire; si rimise però prontamente, e gli disse
sorridendo: « mi pare di non essere ancora ristabilita
dal colpo terribile che ha ricevuto il mio povero
cuore.


— Perdonatemi, » le rispose il giovane, « io non
parlerò più di ciò che può eccitare la vostra sensibilità. »[117]
Poi, obliando la sua risoluzione, cominciò
a parlare nuovamente di sè medesimo.


« Voi non sapete, » le disse, « quanti tormenti
ho sofferti vicino a voi, quando senza dubbio, se
mi onoravate d'un pensiero, voi dovevate credermi
molto lontano di qui. Non ho cessato di vagolar
tutte le notti intorno a questo castello avvolto
in una profonda oscurità; quanto m'era delizioso
il sapermi vicino a voi! Godeva nell'idea che vegliava
intorno al vostro ritiro, e che voi gustavate sonno
tranquillo. Questi giardini non sono nuovi per me.
Una sera scavalcai la siepe, e passai una delle più
felici ore della mia vita sotto la finestra, che credeva
la vostra. »


Emilia s'informò quanto tempo Valancourt fosse
stato nel vicinato. « Molti giorni, » rispos'egli;
« io voleva profittare del permesso accordatomi da
Sant'Aubert. Non capisco com'egli avesse questa
bontà, ma sebbene lo desiderassi vivamente, quando
si avvicinava il momento, io perdeva il coraggio,
e differiva la mia visita. Era alloggiato in
un villaggio poco discosto, e scorreva co' miei
cani i dintorni di questo bel paese, anelando la
fortuna d'incontrarvi, senza aver l'ardire di venire
a trovarvi. »


Passarono circa due ore in questa conversazione;
finalmente Valancourt, alzandosi: « Bisogna ch'io
parta, » disse tristamente, « ma colla speranza di
rivedervi, e con quella di offrire il mio rispetto e
la mia servitù ai vostri parenti. La vostra bocca
mi confermi in tale speranza.


— I miei parenti si chiameranno fortunatissimi di
far la conoscenza d'un antico amico del padre mio. »


Valancourt le baciò la mano, e restarono immobili
senza potersi allontanare. Emilia taceva, teneva
gli occhi bassi, e quelli di Valancourt stavano fissi
in lei. In quel punto, udirono camminare frettolosamente
dietro al platano.[118]


La fanciulla, voltandosi, vide la signora Cheron;
arrossì, e fu assalita da improvviso tremito; pure
si alzò, e corse incontro alla zia.


« Buon giorno, nipote mia, » disse la Cheron
gettando uno sguardo di sorpresa e curiosità su
Valancourt, « buon giorno, nipote mia, come state?
Ma la domanda è inutile; il vostro volto indica
bastantemente che vi siete già consolata della vostra
perdita.


— Il mio volto in tal caso mi fa torto, signora;
la perdita da me fatta non può mai essere
riparata.


— Bene!... Bene!... non voglio affliggervi. Voi
somigliate moltissimo a vostro padre... e certo sarebbe
stata una fortuna pel pover'uomo se avesse
avuto un carattere diverso. »


Emilia non volle replicare, e le presentò l'afflitto
Valancourt; il giovane rispettosamente salutò la
signora Cheron, la quale gli restituì una fredda riverenza,
guardandolo con piglio sdegnoso. Dopo
qualche momento egli si congedò da Emilia con
un'aria che le faceva bastantemente conoscere il
suo dolore di allontanarsi, e lasciarla in compagnia
della zia.


« Chi è quel giovine? » disse questa con asprezza;
« suppongo sarà uno dei vostri adoratori; ma
io credeva, nipote mia, che aveste un po' più rispetto
delle convenienze, per ricevere le visite d'un
giovinetto nello stato di solitudine in cui siete. Il
mondo osserva questi falli; se ne parlerà, credetelo
a me, che ho più esperienza di voi. »


Emilia, punta da un rimprovero così violento,
avrebbe voluto interromperla, ma la zia continuò:
« È necessariissimo che vi troviate sotto la direzione
d'una persona in grado di guidarvi più di
quello che possiate farlo voi stessa. In verità, ho
poco tempo per un compito tale; nondimeno, giacchè
il vostro povero padre, negli ultimi istanti di[119]
sua vita, mi ha pregato di vegliare sulla vostra condotta,
sono obbligata d'incaricarmene; ma sappiate,
nipote cara, che se non vi determinate alla massima
docilità, non mi tormenterò troppo a riguardo
vostro. »


Emilia non si provò neppure a rispondere. Il dolore,
l'orgoglio ed il sentimento della sua innocenza
la contennero fino al momento in cui la zia
aggiunse: « Io son venuta a prendervi per condurvi
a Tolosa; mi dispiace però che vostro padre sia
morto con sì tenue sostanza: malgrado ciò, vi prenderò
in casa mia. Quel benedetto vostro padre è
stato sempre più generoso che previdente; in caso
diverso egli non avrebbe lasciato sua figlia alla discrezione
dei parenti.


— E così appunto non ha fatto, » disse Emilia
freddamente; « il disordine della sua fortuna non
proviene tutto da quella nobile generosità che lo
distingueva: gli affari del signor Motteville possono
accomodarsi, come spero, senza rovinare i creditori,
e fino a quell'epoca mi stimerò fortunatissima di
risiedere nella valle.


— Non ne dubito, » rispose la Cheron, con un
sorriso pieno d'ironia. « Oh! non ne dubito; e vedo
quanto la tranquillità ed il ritiro furono salutari al
ristabilimento del vostro spirito. Non vi credeva
capace, nipote mia, di una simile doppiezza. Quando
mi allegavate questa scusa, io ci credeva in buona
fede, e non mi aspettava certo di trovarvi in una
compagnia tanto amabile come quella del signor
La.... Va.... me ne sono scordata il nome. Si vede
che osservate bene le convenienze!... »


Emilia si fece di fuoco, raccontò la relazione di
Valancourt e di suo padre, la circostanza della pistolettata,
e il seguito de' loro viaggi; vi aggiunse
l'incontro fortuito del giorno precedente, e confessò
infine che Valancourt le aveva dimostrato qualche
interesse, e domandato il permesso di rivolgersi
a' suoi parenti.[120]


« E chi è quel giovine avventuriere? » disse la
Cheron; « quali sono le sue pretese?


— Ve le spiegherà egli stesso, o signora; mio
padre lo conosceva, ed io lo credo irreprensibile.


— Sarà un cadetto, » sclamò la zia, « e per conseguenza
un mendico. Così dunque mio fratello
s'appassionò per cotesto giovine in pochi giorni! già
fu sempre così; nella sua gioventù prendeva inclinazione
o avversione, senza potere indovinarne il
motivo; ed ho osservato più volte, che le persone
dalle quali si allontanava, erano sempre più amabili
di quelle che l'interessavano; ma dei gusti non
si può disputare. Era assuefatto a fidarsi molto della
fisonomia; qual ridicolo entusiasmo! Cos'ha di comune
il volto d'un uomo col suo carattere? Un
uomo dabbene non potrà forse qualche volta avere
una fisonomia spiacevole? »


La Cheron pronunziò questa sentenza col tuono
trionfante di una persona, la quale, credendo aver
fatta una grande scoperta, se ne applaudisce, e pensa
non si possa contraddirla.


Emilia, desiderando finire quel colloquio, pregò
la zia di accettare qualche rinfresco.


Appena giunta a casa, questa le ordinò di fare i
suoi preparativi della partenza per Tolosa fra due
o tre ore. Essa la scongiurò di differire almeno
fino al giorno seguente, e l'ottenne con qualche
difficoltà.


Il resto del giorno fu passato nell'esercizio di
una pedantesca tirannia per parte della zia, e nei
disgusti e nel dolore per parte della nipote. Appena
quella si fu ritirata, Emilia diede l'ultimo addio alla
casa, ch'era stata la sua culla. La lasciava senza
sapere il tempo della sua assenza, e per un nuovo
genere di vita che ignorava assolutamente; ma non
poteva vincere il presentimento che non sarebbe
mai più ritornata nella valle. Mentre era nella biblioteca
paterna, e che sceglieva qualche libro per portar[121]
seco, Teresa aprì la porta onde assicurarsi, secondo
il consueto, se tutto era in ordine, e restò sorpresa
di trovare colà la padroncina. Emilia le diede le
opportune istruzioni pel mantenimento del castello.


« Oimè! » le disse Teresa; « voi dunque partite?
Se non m'inganno però mi sembra che voi
sareste più felice qui, che non dove vogliono condurvi. »


Emilia non le rispose, e tornò nella sua camera.
Ivi giunta, si mise alla finestra, e vide il giardino
fiocamente illuminato dalla luna che sorgea allora
al disopra dei fichi. La placida bellezza della notte
accrebbe il di lei desiderio di gustare un tristo
piacere, facendo pure i saluti ai luoghi prediletti
della sua infanzia. Si sentì spinta a scendere, e gettandosi
indosso il velo leggero col quale soleva
passeggiare, entrò a cauti passi nel giardino, e si
diresse celeremente verso i boschetti lontani, lieta di
respirar ancora un'aura libera e sospirare senza essere
osservata da veruno. Il profondo riposo della natura,
i soavi effluvi diffusi dal notturno zeffiro, la vasta
estensione dell'orizzonte e l'azzurro firmamento stellato
rapivano in dolce estasi l'anima sua e la portavano
gradatamente a quelle altezze sublimi donde
le orme di questo mondo svaniscono.


Emilia fissò gli occhi sul platano, e vi riposò per
l'ultima volta. Quivi, ancor poche ore prima, ella
discorreva con Valancourt. Ricordossi la confessione
da lui fatta che spesso vagolava la notte intorno
alla sua dimora, che ne scavalcava il recinto; e d'improvviso
pensò che in quel momento stesso egli
poteva trovarsi forse in giardino. La paura d'incontrarlo,
il timore altresì delle censure della zia la
indussero a ritirarsi in casa. Si fermava spesso
ad esaminare i boschetti prima di traversarli; vi
passò senza vedere alcuno; ma giunta ad un gruppo
di mandorli più vicino alla casa, ed essendosi voltata
per vedere ancora il giardino, credette scorgere[122]
una persona uscire dai pergolati più tenebrosi ed
avviarsi lentamente per un viale di tigli, allora illuminato
dalla luna. La distanza, la luce troppo fioca,
non le permisero d'accertarsi se fosse illusione o
realtà. Continuò a guardare alcun tempo, e poco
dopo credette udir camminare a sè vicino. Rientrò
a precipizio, e tornata nella sua stanza, aprì la finestra
nel momento in cui qualcuno penetrava sotto
i mandorli, nel luogo stesso da lei lasciato poc'anzi.
Chiuse la finestra, e, benchè agitatissima, potè gustare
qualche ora di sonno.




CAPITOLO X


La carrozza che doveva condurre Emilia e la
zia a Tolosa fu alla porta di buonissim'ora. La
signora Cheron comparve alla colazione prima che
vi giungesse la nipote, e piccata dall'abbattimento
in cui la vide quando comparve, glielo rimproverò
in un modo poco acconcio a farlo cessare. Non
senza molta difficoltà, Emilia potè ottenere di condur
seco il cane tanto amato da suo padre. La zia, premurosa
di partire, fece avanzare la carrozza; la
vecchia Teresa stava sulla porta per congedarsi dalla
sua padrona. « Dio vi accompagni, signorina, »
le disse.


Emilia non potè rispondere che stringendole teneramente
la mano.


Molti degl'infelici che ricevevano soccorsi da suo
padre, erano dinanzi alla porta del giardino, e venivano
per salutare l'afflittissima Emilia. Essa distribuì
tutto il danaro che aveva in tasca, e si ritirò
nella carrozza con un profondo sospiro. I precipizi,
l'altezza gigantesca dei Pirenei, e tutte le
altre magnifiche vedute, rammentarono a Emilia
mille interessanti rimembranze; ma questi oggetti
d'ammirazione entusiastica, non eccitavano più allora
in lei che il dolore ed i dispiaceri.[123]


Valancourt intanto era ritornato a Estuvière col
cuore tutto pieno di Emilia. Qualche volta si abbandonava
ai sogni di un avvenire felice, più spesso
cedeva alle inquietudini, e fremeva dell'opposizione
che potrebbe trovare nei parenti di Emilia. Egli era
l'ultimo figlio di un'antica famiglia di Guascogna.
Avendo perduto i genitori nell'infanzia, la sua educazione
e la sua tenue legittima erano state affidate
al conte Duverney, suo fratello maggiore di vent'anni.
Egli aveva un'elevazione di spirito ed una
grandezza d'animo che lo facevano brillare negli
esercizi in allora chiamati eroici. La sua sostanza
era diminuita ancora per le spese della sua educazione;
ma il fratello maggiore parea pensare forse
che il suo genio e i suoi talenti avrebbero supplito
alle ingiurie della fortuna; offrivano essi una prospettiva
brillante a Valancourt nella carriera militare,
il solo allora che potesse essere abbracciato
ragionevolmente da un gentiluomo; ed in conseguenza
entrò al servizio.


Aveva ottenuto un congedo dal reggimento,
quando intraprese il viaggio dei Pirenei, all'epoca
in cui aveva conosciuto Sant'Aubert. Il suo permesso
stando per ispirare, aveva perciò maggior
premura di presentarsi ai parenti di Emilia: temeva
di trovarli contrari ai suoi voti. Il suo patrimonio,
col mediocre supplemento di quello di Emilia, sarebbe
bastato ad entrambi, ma non potea soddisfare
nè la vanità, nè l'ambizione.


Frattanto le nostre viaggiatrici avanzavano: Emilia
si sforzava di mostrarsi contenta, e ricadeva nel
silenzio e nell'abbattimento. La Cheron attribuiva
la sua malinconia al dispiacere di allontanarsi dall'amante;
persuasa che il dolore della nipote per
la morte del padre non fosse che un'affettazione
di sensibilità, costei faceva di tutto per metterlo in
ridicolo.


Finalmente giunsero a Tolosa. Emilia essendovi[124]
stata molti anni addietro, glie n'era rimasta una
debolissima rimembranza. Restò sorpresa del fasto
della casa e dei mobili; forse la modesta eleganza
cui era assuefatta, fu la cagione del suo
stupore. Seguì la Cheron traverso una vasta anticamera
piena di servi vestiti di ricche livree,
entrò in un bel salotto ornato con più magnificenza
che gusto, e la zia ordinò che servissero
la cena.


« Son contenta di trovarmi nel mio castello, »
diss'ella abbandonandosi su di un gran canapè;
« ci ho tutta la mia gente intorno; detesto i viaggi,
sebbene dovessi amarli, perchè tutto ciò che
vedo fuori di qua, mi fa sempre trovare ogni cosa
più bella nel mio palazzo. Ebbene! non dite nulla?
Perchè sì muta, Emilia? »


Questa trattenne le lacrimo che le sfuggivano,
e finse di sorridere. La sua zia si diffuse molto
sullo splendore della casa, sulle conversazioni, e
finalmente su ciò che aspettava da Emilia, il cui
riserbo e la cui timidezza passavano ai di lei occhi
per orgoglio ed ignoranza. Ne prese motivo par
rimproverarla, non conoscendo ciò ch'è necessario
per guidare uno spirito, il quale, diffidando delle
proprie forze, possedendo un discernimento delicato,
e immaginandosi che gli altri abbiano maggiori lumi,
teme di esporsi alla critica, e cerca rifugio nell'oscurità
del silenzio.


La cena interruppe l'altiero discorso della signora
Cheron, e le riflessioni umilianti ch'essa vi
mescolava per la nipote. Dopo cena, la Cheron si
ritirò nel suo appartamento, ed una cameriera condusse
Emilia al suo; salirono una larga scala, traversarono
diversi corridoi, scesero qualche gradino,
e passarono per uno stretto andito in una parte remota
della casa; infine la cameriera aprì la porta
di una stanzuccia, e disse esser quella destinata per
la signora Emilia: la fanciulla, rimasta sola, si diede[125]
in preda a tutto l'eccesso del dolore che non poteva
più contenere. Coloro che sanno per esperienza
a qual punto il cuore s'affezioni agli oggetti anche
inanimati allorchè ne ha preso l'abitudine, quanto
stenti a lasciarli, con qual tenerezza li ritrovi, con
qual dolce illusione crede vedere gli antichi amici,
costoro soli comprenderanno l'abbandono in cui si
trovava allora Emilia, bruscamente tolta dall'unico
ricetto ch'ella riconoscesse dall'infanzia, e gettata
sopra un teatro e fra persone che le spiacevano ancor
più pel carattere che per la novità. Il fido cane
di suo padre era con lei nella cameretta, l'accarezzava,
e le leccava le mani mentr'ella piangea.
« Povera bestia, » diceva essa; « non ho più nessun
altro che te per amico. »




CAPITOLO XI


Il castello della signora Cheron era vicinissimo
a Tolosa, e circondato da immensi giardini; Emilia,
alzatasi di buon'ora, li percorse prima della colazione.
Da un terrazzo che si estendeva fino all'estremità
di questi giardini, scoprivasi tutta la
Bassa Linguadoca. Emilia riconobbe le alte cime dei
Pirenei; e la sua immaginazione le dipinse tosto la
verzura ed i pascoli che sono alle falde di essi. Il
suo cuore volava verso la sua placida dimora. Provava
un piacere inesprimibil nel supporre di vederne
la situazione, sebbene potesse appena scorgerne
i monti. Poco occupata del paese in cui si
trovava, fissava gli occhi sulla Guascogna, ed il suo
spirito pascevasi delle rimembranze interessanti
destate in lei da tal vista.


Un servitore venne ad avvertirla che la colazione
era pronta.


« Dove siete stata così di buon'ora? » disse la
Cheron quando entrò la nipote. « Non approvo
queste passeggiate solitarie. Desidero che non usciate[126]
tanto presto la mattina senz'essere accompagnata.
Una fanciulla, che al castello della valle dava appuntamenti
al chiaro di luna, ha bisogno d'un
poco di sorveglianza. »


Il sentimento della propria innocenza non impedì
il rossore di Emilia. Essa tremava, e chinava gli
occhi tutta confusa, mentre la zia le lanciava sguardi
arditi, ed arrossiva ella stessa: ma il di lei rossore
era quello dell'orgoglio soddisfatto, quello di una
persona che si compiace della propria penetrazione.


Emilia, non dubitando che la zia non intendesse
parlare della sua passeggiata notturna prima di lasciar
la valle, credè dovergliene spiegare i motivi;
ma essa, col sorriso del disprezzo, ricusò di
ascoltarla.


« Non mi fido, » le disse, « delle proteste di alcuno;
giudico le persone dalle loro azioni, e proverò
la vostra condotta per l'avvenire. »


Emilia, meno sorpresa della moderazione e del
silenzio misterioso della zia, di quello nol fosse
stata dell'accusa, vi riflettè profondamente, e non
dubitò più non fosse Valancourt ch'ella avea veduto
la notte ne' giardini della valle, e che la zia
poteva bene aver riconosciuto. Intanto, non lasciando
un soggetto penoso se non per trattarne un altro
che non eralo meno, parlò di Motteville e della
perdita enorme che la nipote faceva nel suo fallimento.
Mentr'essa ragionava con fastosa pietà degl'infortunii
che opprimevano Emilia, insisteva sui
doveri dell'umanità e della riconoscenza, facendo
divorare alla povera fanciulla le più crudeli mortificazioni,
ed obbligandola a considerarsi non solo
sotto la di lei dipendenza, ma sotto quella ben anco
di tutta la servitù.


L'avvertì allora che in quel giorno si aspettava
molta gente a pranzo, e le ripetè tutte le lezioni
della sera precedente sul modo di contenersi in società:
aggiunse che voleva vederla abbigliata con[127]
gusto ed eleganza, e poscia si degnò mostrarle tutto
lo splendore del suo castello, farle osservare tutto
quanto brillava d'una magnificenza particolare, e
che si faceva distinguere nei vari appartamenti;
dopo di che si ritirò nel suo gabinetto di toletta.
Emilia si chiuse nella sua camera, tirò fuori i suoi
libri, e ricreò lo spirito colla lettura, fino al momento
di vestirsi.


Quando i convitati furono riuniti, Emilia entrò
nella sala con un'aria di timidezza che non potè
vincere, per quanto vi si sforzasse. L'idea che la
zia l'osservava con occhio severo, la turbava vie
maggiormente. Il suo abito di lutto, la dolcezza,
l'abbattimento della sua bella fisonomia, non meno
che la modestia del contegno, la resero interessantissima
a quasi tutta la società. Riconobbe essa Montoni
ed il suo amico Cavignì, che aveva trovati in
casa di Quesnel; avevano questi nella casa della
Cheron tutta la famigliarità di antichi conoscenti,
ed anch'essa sembrava accoglierli con molto piacere.


Montoni portava nel suo contegno il sentimento
della superiorità: lo spirito ed i talenti co' quali
poteva sostenerla obbligavano tutti gli altri a cedergli.
La finezza del suo tatto era fortemente
espressa nella sua fisonomia; ma sapeva dissimulare
quando bisognava, e potevasi notare spesso in lui
il trionfo dell'arte sulla natura. Aveva il viso lungo
e magro, eppure lo dicevano bello; elogio forse più
da attribuirsi alla forza e vigoria dell'anima, che
delineavansi in tutti i suoi tratti. Emilia concepì
per lui una specie d'ammirazione, ma non quell'ammirazione
che poteva condurre alla stima; essa vi
univa una specie di timore, di cui non sapeva indovinare
il motivo.


Cavignì era giocondo ed insinuante come la prima
volta. Sebbene quasi sempre occupato della signora
Cheron, trovava il mezzo di parlar con Emilia. Le
indirizzò da principio qualche motto spiritoso, e[128]
prese in seguito un'aria di tenerezza di cui ella si
accorse benissimo, e che non la spaventò. Ella parlava
poco, ma la grazia e dolcezza delle sue maniere
l'incoraggirono a continuare; non fu interrotta se
non quando una giovine signora del circolo, che
parlava sempre, e di tutto, venne a mescolarsi ai
loro discorsi; questa signora, che spiegava tutta la
vivacità e la civetteria francese, affettava d'intender
tutto, o piuttosto non vi mettea nemmeno affettazione.
Non essendo mai uscita da una perfetta
ignoranza, s'immaginava che non avesse nulla da
imparare; obbligava tutti ad occuparsi di lei, divertiva
talvolta, stancava dopo un momento, e poi
era abbandonata.


Emilia, quantunque ricreata da tutto quanto aveva
veduto, si ritirò senza rincrescimento, e si abbandonò
volentieri di nuovo alle rimembranze che tanto le
piacevano.


Passarono quindici giorni in una folla di visite e
di dissipazioni; Emilia accompagnava per tutto la
Cheron, si divertiva di rado, e annoiavasi spesso.
Fu colpita dell'apparente istruzione e delle cognizioni
di cui facean mostra intorno a lei le persone
che componevano la conversazione; non fu se non
molto dopo che riconobbe l'impostura di tutti quei
pretesi talenti. Ciò che la ingannò maggiormente fu
quell'aria di brio continuato, e soprattutto di bontà
ch'ella osservava in ciascun personaggio. S'immaginava
che un'affabilità consueta e sempre pronta
ne fosse il vero fondamento. Finalmente, l'esagerazione
di qualcuno, meno abile degli altri, le fece sospettare
che, se il contento e la bontà sono i soli
principii d'una dolce amenità, gli eccessi smoderati
ai quali uno si abbandona ordinariamente sono il
risultato della più perfetta insensibilità.


Emilia passava i momenti più graditi nel padiglione
del terrazzo. Vi si ritirava con un libro, per
godere della sua malinconia, o col liuto, per vincerla.[129]
Assisa cogli occhi fissi sui Pirenei e sulla Guascogna,
essa cantava le ariette più interessanti del suo
paese, imparate nell'infanzia.


Una sera, Emilia suonava il liuto nel padiglione
con un'espressione che veniva dal cuore. Il sole all'occaso
illuminava ancora la Garonna, che fuggiva
a qualche distanza, e le cui acque erano passate
dinanzi alla valle. Emilia pensava a Valancourt; non
ne avea udito più parlare dopo il suo soggiorno a
Tolosa; ed ora, lontana da lui, sentiva tutta l'impressione
che aveva fatta sul proprio cuore. Prima
di aver conosciuto Valancourt, non aveva incontrato
alcuno, il cui spirito ed il gusto si accordassero
tanto bene col suo. La Cheron avevale parlato di
dissimulazione, di artifizi; pretendeva essa che quella
delicatezza, cui ammirava nell'amante, non foss'altro
che un laccio per piacerle, eppure essa credeva alla
di lui sincerità. Un dubbio nondimeno, per debole
che fosse, bastava opprimerle il cuore.


Il rumore d'un cavallo sulla strada, sotto la sua
finestra, la scosse da questi pensieri: vide un cavaliere
il cui personale ed il portamento le rammentavano
Valancourt, giacchè l'oscurità non le permetteva
di distinguerne i lineamenti. Si tirò indietro
temendo d'esser veduta, e desiderando al tempo
stesso di osservare. L'incognito passò senza guardare,
e quando si fu ravvicinata alla finestra, lo
vide nel viale che conduceva a Tolosa. Questo lieve
incidente la rese di cattivo umore, e, dopo alcuni
giri sul terrazzo, tornò presto al castello.


La Cheron rientrò più ruvida del solito; ed Emilia
non fu contenta se non quando le fu permesso
di ritirarsi nella sua cameretta.


Il giorno dopo essa fu chiamata dalla zia, la quale
ardeva di collera, e che, appena la vide, le presentò
una lettera.


« Conoscete voi questo carattere? » le disse con
voce severa, e guardandola fiso, mentre Emilia esaminava
la lettera con attenzione.[130]


— No, signora, io non lo conosco, » le rispose.


— Non mi fate perder la pazienza, » disse la zia;
« voi lo conoscete, confessatelo subito, esigo che
diciate la verità. »


Emilia taceva e stava per uscire. La Cheron la
richiamò.


« Oh! voi siete colpevole: vedo adesso che conoscete
il carattere.


— Ma se ne dubitavate, signora, » disse Emilia
con dignità, « perchè accusarmi di aver detto una
bugia?


— È inutile negarlo, » disse la signora Cheron;
« vedo dal vostro contegno che voi non ignorate
il contenuto di questa lettera. Son sicurissima che
in casa mia, e senza mia saputa, avete ricevute lettere
da quel giovine insolente. »


Emilia, indispettita dalla villania di quell'accusa,
ruppe il silenzio, e si sforzò di giustificarsi, ma
senza convincere la zia.


« Non posso supporre che quel giovine avrebbe
ardito scrivermi, se voi non l'aveste incoraggito.


— Mi permetterete di rammentarvi, signora, »
disse Emilia con voce timida, « alcune particolarità
d'un colloquio che avemmo insieme a casa mia: vi
dissi allora con franchezza di non essermi opposta
che il signor Valancourt s'indirizzasse alla mia famiglia.


— Non voglio essere interrotta, » disse la signora
Cheron; « io.... io... perchè non gliel'avete proibito? »
Emilia non rispose. « Un uomo sconosciuto
a tutti, assolutamente straniero; un avventuriere
che corre dietro ad una ricca fanciulla! Ma almeno,
sotto questo rapporto, si può dire ch'egli si è ingannato
d'assai.


— Ve l'ho già detto, signora, la sua famiglia era
conosciuta da mio padre, » disse Emilia modestamente,
e fingendo di non avere udita l'ultima frase.


— Oh! non mi fido niente affatto del suo giudizio[131]
favorevole, » replicò la zia colla sua solita leggerezza.
« Egli aveva idee così guaste! Giudicava
la gente alla fisonomia.


— Signora, poco fa mi credevate colpevole, eppur
lo giudicavate dalla mia fisonomia. »


Emilia si permise questo rimprovero per rispondere
in qualche modo al tuono poco rispettoso col
quale la Cheron parlava di suo padre.


« Vi ho fatta chiamare, » soggiunse la zia, « per
significarvi che non intendo essere importunata dalle
lettere o dalle visite di tutti i giovinastri che pretenderanno
adorarvi. Questo signor di Valla... non
so come lo chiamate, ha l'impertinenza di chiedermi
che gli permetta di offerirmi i suoi rispetti; ma gli
risponderò come va. Quanto a voi, Emilia, lo ripeto
una volta per sempre, se non vi uniformate alla mia
volontà, non m'inquieterò più per la vostra educazione,
e vi metterò in un convento.


— Ah! signora, » disse Emilia struggendosi in
lacrime, « come posso io aver meritato questo trattamento? »


La Cheron in quell'istante avrebbe potuto ottenere
da lei la promessa di rinunziare per sempre
a Valancourt. Colta dal terrore, non voleva più acconsentire
a rivederlo; temeva d'ingannarsi, e temeva
finalmente di non essere stata abbastanza riservata
nella conferenza avuta alla valle. Sapeva benissimo
di non meritare i sospetti odiosi formati
dalla zia, ma era tormentata da infiniti scrupoli.
Divenuta timida, e dubitando di far male, risolse di
obbedire a qualunque suo comando, e glie ne fece
conoscere l'intenzione; ma la Cheron non le prestava
fede, e non iscorgeva in lei che l'artifizio, o
la paura.


« Promettetemi, » disse alla nipote, « che non
vedrete quel giovine, e non gli scriverete senza mio
permesso.


— Ah! signora, » rispose Emilia, « potete voi
supporre ch'io fossi capace di farlo?[132]


— Io non so cosa supporre; la gioventù non si
capisce, chè manca troppo di buon senso per desiderar
di essere rispettata.


— Io mi rispetto da me stessa, » replicò Emilia;
« il padre mio me ne ha sempre insegnata la necessità.
Egli mi diceva che, colla mia propria stima,
otterrò sempre quella degli altri.


— Mio fratello era un buon uomo, » soggiunse
la Cheron, « ma non conosceva il mondo. Ma... in
somma, non mi avete fatta la promessa che esigo
da voi. »


Emilia fece la promessa, e andò a passeggiare in
giardino. Arrivata al suo padiglione favorito, sedette
vicino alla finestra che guardava in un boschetto.
La calma di quella solitudine le permetteva di raccogliere
i suoi pensieri e di giudicare da per sè
della sua condotta. Si rammentò il colloquio avuto
al castello, e si convinse con gioia, che nulla poteva
allarmare il suo orgoglio, nè la sua delicatezza; si
confermò nella stima di sè medesima, e della quale
sentiva tanto bisogno. In ogni caso, si decise a non
alimentare una corrispondenza segreta, e ad osservare
la medesima riserva con Valancourt allorchè
lo incontrerebbe. Nell'atto che faceva queste riflessioni,
versò alcune lacrime, ma le asciugò prontamente,
quando sentì camminare, aprire il padiglione,
e, girando la testa, ebbe riconosciuto Valancourt. Un
misto di piacere, di sorpresa e terrore s'impadronì
tanto del suo cuore, che ne fu vivamente commossa.
Impallidì, arrossì, e restò alcuni istanti nell'impossibilità
di parlare, e di alzarsi dalla sedia. Il volto
di Valancourt era lo specchio fedele di ciò che doveva
esprimere il suo: la di lui gioia fu sospesa
quando s'accorse dell'agitazione di Emilia. Rinvenuta
dalla prima sorpresa, essa rispose con un dolce
sorriso; ma una folla di contrari affetti assalirono
nuovamente il di lei cuore, e lottarono con forza
per soggiogar la sua risoluzione. Era difficile conoscere[133]
se la vinceva in lei o la gioia di veder Valancourt,
o la paura de' trasporti ai quali si abbandonerebbe
la zia allorchè saprebbe quest'incontro.
Dopo qualche parola altrettanto laconica che imbarazzata,
lo condusse in giardino e gli domandò se
avesse veduta la signora Cheron.


« No, » diss'egli, « non l'ho veduta, mi fu detto
ch'era occupata, e quando ho saputo ch'eravate in
giardino, mi sono affrettato di venirvi a trovare. »
Poi soggiunse: « Posso io arrischiare di dirvi il
soggetto della mia visita senza incorrere nel vostro
sdegno? Posso io sperare che non mi accuserete
di precipitazione, usando del permesso che mi accordaste,
d'indirizzarmi ai vostri parenti? »


Emilia non sapea che cosa rispondere, ma la sua
perplessità non fu di lunga durata, e fu di nuovo
assalita dal terrore allorchè, alla svolta del viale,
vide la signora Cheron. Ella aveva ripreso il sentimento
della propria innocenza, ed il suo timore
ne fu affievolito in guisa, che, in vece di evitare la
zia, le andò incontro tranquillissima con Valancourt.
Il malcontento e l'impaziente alterigia con cui li
osservava la Cheron sconcertarono però Emilia:
comprese che quell'incontro sarebbe stato creduto
premeditato; presentò il giovane, e, troppo agitata
per restar con loro, corse a chiudersi in casa, ove
aspettò lungamente e con estrema inquietudine il
risultato della conferenza. Non sapeva immaginarsi
come l'amante avesse potuto introdursi in casa
della zia prima di avere ottenuto il permesso che
domandava. Ignorava essa una circostanza che doveva
rendere inutile questo passo, nel caso ben anco
che la Cheron l'avesse accolto. Valancourt, nell'agitazione
del suo spirito, aveva obliato di datare la
sua lettera; in conseguenza, non avrebb'ella potuto
rispondergli.


La signora Cheron ebbe un lungo colloquio con
Valancourt, e quando rientrò in casa, il suo contegno[134]
esprimeva più cattivo umore che quell'eccessiva
severità di cui aveva fremuto Emilia.


« Finalmente, » disse la zia, « ho congedato quel
giovinetto, e spero che non riceverò più simili visite,
mi ha assicurata che il vostro abboccamento
non era concertato.


— Signora, » disse Emilia commossa, « voi glie
ne faceste domanda?


— Certo che glie l'ho fatta! non dovevate credermi
imprudente tanto da pensare che l'avrei
trascurata.


— Cielo » sclamò la fanciulla; « quale idea si farà
egli di me, signora, se voi stessa gli dimostrate
tali sospetti?


— L'opinione che si farà di voi, » ripigliò la zia,
« è d'or innanzi di pochissima conseguenza. Ho
messo fine a questa faccenda, e credo che avrà qualche
opinione della mia prudenza. Gli lasciai travedere
che non era una stolida, e soprattutto non
tanto compiacente da soffrire un commercio clandestino
in casa mia. Quanto fu indiscreto vostro padre, »
continuò poi, « d'avermi lasciata la cura
della vostra condotta! Vorrei vedervi accasata; se
dovessi trovarmi importunata più a lungo da quel
signor Valancourt, o da altri pari a lui, vi metterò
certamente in un chiostro. Ricordatevi dunque dell'alternativa.
Quell'audace ha avuto l'impertinenza
di confessarmi che la sua sostanza è tenuissima,
ch'egli dipende da suo fratello maggiore, e che
questa sostanza dipende dal suo avanzamento nella
carriera militare. Stolto! avrebbe almeno dovuto
nascondermelo se voleva persuadermi. Egli aveva
dunque la presunzione di supporre ch'io avrei
maritata mia nipote ad un uomo nullatenente, ad un
miserabile che lo confessa egli stesso... »


Emilia fu sensibile alla sincera confessione fatta
da Valancourt; e quantunque la sua povertà rovesciasse
le loro speranze, la franchezza della sua[135]
condotta le cagionò un piacere che superò momentaneamente
tutti i suoi affanni.


La Cheron continuò: « Egli ha altresì creduto
bene di dirmi che non avrebbe ricevuto il suo congedo
se non da voi, ciò ch'io negai positivamente.
Conoscerà così esser sufficientissimo che non lo aggradisca
io, e colgo questa occasione di ripeterlo:
se voi concerterete con lui il menomo abboccamento
a mia insaputa, preparatevi ad uscir di casa mia
all'istante.


— Come mi conoscete poco, se credete che sia,
necessario un ordine simile! »


La signora Cheron si mise alla toletta, essendo
invitata per quella sera ad una conversazione. Emilia
avrebbe voluto dispensarsi dall'accompagnarla,
ma non ardì domandarlo pel timore d'una falsa interpretazione.
Quando fu nella sua camera, diè libero
sfogo al proprio dolore: si ricordò che Valancourt,
sempre più amabile per lei, era bandito dalla
sua presenza, e forse per sempre. Essa impiegò nel
pianto quel tempo che la zia consacrava ad abbigliarsi.
Quando si rividero a tavola, i suoi occhi
tradivano le lacrime, e ne fu duramente rimproverata.
Fece grandi sforzi per parer lieta, nè le
riuscirono affatto infruttuosi.


Andò colla zia dalla signora Clairval, vedova di
certa età, e stabilita da poco tempo a Tolosa in
una villa del marito. Ella aveva vissuto diversi
anni a Parigi con molta eleganza: era naturalmente
allegra, e dopo il suo arrivo a Tolosa, aveva date
le più belle feste che vi fossero vedute.


Tutto ciò eccitava non solo l'invidia, ma anche
la frivola ambizione della signora Cheron, e non
potendo gareggiare nel fasto e nella spesa, voleva
almeno esser creduta l'intima amica della Clairval.


A tal uopo, le usava le maggiori cortesie; e quando
si trattava di essere invitata da lei, taceva qualunque
altro impegno. Ne parlava da per tutto, e si dava[136]
grandi arie d'importanza, facendo credere che fossero
amiche intrinseche.


Il divertimento di quella sera consisteva in una
festa da ballo ed una cena. Il ballo era d'un genere
affatto nuovo. Si danzava a diversi gruppi
in giardini estesissimi. I grandi e begli alberi sotto
i quali si dava la festa, erano illuminati da infiniti
lampioni disposti con tutta la varietà possibile. Le
diverse fogge aumentavano l'incanto di quella scena.
Mentre alcuni ballavano, altri, seduti sulle erbose
zolle, parlavano con libertà, criticavano le acconciature,
prendevano rinfreschi o cantavano ariette
accompagnandosi colla chitarra. La galanteria degli
uomini, le civetterie delle donne, la leggerezza e il
brio delle danze, il liuto, il flauto, il cembalo, e
l'aria campestre, che i boschi davano a tutta la
scena, facevano di questa festa un modello piccantissimo
dei piaceri e del gusto francese. Emilia considerava
questo quadro ridente con una specie di
diletto malinconico. Sarà facile comprendere la sua
sorpresa allorchè, gettando a caso gli occhi su di
una contraddanza, riconobbe l'amante che ballava
con una bella e giovine signora, e sembrava aver
per lei le più premurose attenzioni: si volse tosto
volendo condurre altrove la zia, che discorreva con
Cavignì senza avere veduto Valancourt. Un'improvvisa
debolezza l'obbligò a sedere, e l'estremo pallore
che comparve sul di lei volto, fece credere ai
circostanti ch'ella fosse incomodata. La Cheron continuava
a parlare con Cavignì, e il conte di Beauvillers,
che si era occupato di Emilia, le fece alcune
maligne osservazioni a proposito del ballo, alle quali
ella rispose quasi con incoerenza, tanto l'idea di Valancourt
la tormentava, tanto essa era inquieta di
restare sì a lungo vicino a lui. Le osservazioni del
conte sulla contraddanza l'obbligarono intanto a
fissarvi gli occhi, che nello stesso momento s'incontrarono
in quelli di Valancourt. Tremò e voltò[137]
via tosto gli sguardi, ma non senza aver distinta
l'alterazione di lui nel vederla. Si sarebbe volentieri
allontanata all'istante medesimo da quel luogo, se
non avesse pensato che questa condotta gli avrebbe
fatto conoscere troppo l'imperio ch'egli aveva sul
di lei cuore. Si provò a continuare il discorso col
conte, il quale le parlò della dama che ballava con
Valancourt: il timore di lasciar travedere il vivo
interesse ch'ella vi prendeva, l'avrebbe senza dubbio
tradita, se gli sguardi del conte non si fossero fissati
allora sulla coppia di cui parlava.


« Quel giovine cavaliere, » diss'egli, « sembra
un uomo compito in tutto, fuorchè nel ballo: la
sua compagna è una delle bellezze di Tolosa, e sarà
ricchissima. Voglio sperare che saprà fare una scelta
migliore per la felicità della sua vita, di quel che
non l'abbia fatto per la contraddanza; m'accorgo
ch'egli imbroglia tutti gli altri. Mi sorprende però
che quel giovane, col suo bel portamento, non abbia
imparato a ballare. »


Emilia, alla quale batteva forte il cuore ad ogni
parola, volle troncare il discorso informandosi del
nome di quella signora: prima che il conte potesse
risponderle, la contraddanza finì; ed Emilia, vedendo
che Valancourt si avanzava verso di lei, si
alzò tosto, e andò accanto alla zia.


« Ecco qua il cavaliere Valancourt, signora, » le
disse sottovoce; « di grazia ritiriamoci. » La zia si
alzò, ma il giovane le aveva raggiunte; egli salutò
la signora Cheron con rispetto, e sua nipote con
dolore. Siccome la presenza di quest'ultima gl'impediva
di restare, passò oltre con un contegno, la
cui tristezza rimproverava a Emilia di aver potuto
risolversi ad aumentarlo: se ne stava essa pensierosa,
allorchè il conte Beauvillers le tornò accanto.


« Vi domando perdono, signorina, » le disse egli,
« di un'inciviltà involontaria. Quando criticava
così liberamente il cavaliere nel ballo, ignorava ch'ei[138]
fosse di vostra conoscenza. » Emilia arrossì e sorrise.
La Cheron però gli rispose: « Se voi parlate
del giovane passato poco fa, posso assicurarvi che
non è, nè di mia conoscenza, nè di quella della signorina
Sant'Aubert.


— Gli è il cavaliere Valancourt, » disse Cavignì
con indifferenza.


— Lo conoscete voi? » riprese la signora Cheron.


— Non ho con lui nessuna relazione, » rispose
Cavignì.


— Non sapete i motivi che ho di qualificarlo
d'impertinente? Esso ha la presunzione di ammirare
mia nipote.


— Se, per meritare l'epiteto d'impertinente, basta
ammirare madamigella Emilia, » soggiunse Cavignì,
« temo che ve ne siano molti, ed io m'inscrivo
nella lista.


— Oh! signore, » disse la Cheron con sorriso
forzato, « mi accorgo che imparaste l'arte dei complimenti
dopo il vostro soggiorno in Francia; ma
non bisogna adulare le fanciulle, perchè esse prendono
l'adulazione per verità. »


Cavignì girò un momento la testa, e disse con
voce studiata: « A chi si possono dunque allora
far complimenti, signora? Perchè sarebbe assurdo
di rivolgersi ad una donna, il cui gusto è già formato:
essa è superiore a qualunque elogio. »


Terminando questa frase, egli guardava Emilia
di soppiatto, e l'ironia brillava nei di lui occhi.
Essa lo intese, ed arrossì per la zia; ma la Cheron
rispose: « Voi avete perfettamente ragione, signore;
una donna di gusto non può, nè deve soffrire
un complimento.


— Ho inteso dire al signor Montoni, » soggiunse
Cavignì, « che una donna sola ne meritava.


— Da vero, » esclamò la Cheron con un sorriso
pieno di fiducia; « e chi sarà mai?


— Oh! » replicò egli: « è facile conoscerla. Non[139]
vi è certo più di una donna al mondo che abbia
insieme il merito d'inspirare la lode e lo spirito di
ricusarla. » Ed i suoi occhi si voltavano ancora
verso Emilia, la quale arrossiva sempre più per
la zia.


— Ma bravo signore, » disse la Cheron, « io protesto
che voi siete Francese. Non ho mai udito uno
straniero esprimersi con tanta galanteria.


— È verissimo, signora, » rispose il conte cessando
dalla sua parte mutola; « ma la galanteria
dei complimenti sarebbe stata perduta, senza l'ingenuità
che ne scuopre l'applicazione. »


La Cheron non conobbe il senso satirico di
questa frase, e non sentiva la pena che Emilia provava
per lei.


« Oh! ecco qua il signor Montoni in persona, »
disse la zia; « voglio raccontargli tutte le belle
cose che mi avete dette. » Ma l'Italiano passò in
un altro viale. « Vi prego di dirmi che cosa può
occupar tanto stasera il vostro amico? Non si è
lasciato vedere neppur un momento, disse madama
Cheron con aria dispettosa.


— Egli ha, » disse Cavignì, « un affare particolare
col marchese Larivière, che, da quanto vedo,
l'ha occupato fino ad ora, perchè non avrebbe
mancato al certo di venire ad offrirvi i suoi
omaggi. »


Da tutto quel che intese, Emilia credè accorgersi
che Montoni corteggiava seriamente la zia, e che
non solo essa lo aggradiva, ma si occupava con gelosia
delle di lui menome negligenze. Che la signora
Cheron, alla sua età, volesse scegliere un secondo
sposo, sembrava partito ridicolo; pure, la di lei
vanità non lo rendeva impossibile; ma che, col suo
spirito, il suo volto e le sue pretese, Montoni potesse
scegliere la zia, ecco ciò che sorprendeva Emilia.
I suoi pensieri però non fissaronsi a lungo su
questo oggetto; essa era tormentata da interessi più[140]
pressanti. Valancourt, rifiutato dalla zia, Valancourt
aveva ballato con una bella giovine signora... Traversando
il giardino, essa guardava da tutte le parti,
sperando, e temendo di vederlo comparire nella
folla. Nol vide, e la pena che ne risentì le fece conoscere
aver ella più sperato che temuto.


Montoni le raggiunse di lì a poco, e balbettò
qualche parola sul dispiacere d'essere stato tanto
tempo occupato altrove. La zia ricevè questa scusa
coll'aria dispettosa d'una bambina, ed affettò di
parlar soltanto a Cavignì, il quale, guardando Montoni
ironicamente, parea volergli dire: « Io non
abuserò del mio trionfo, e sosterrò la mia gloria
con tutta umiltà. »


La cena fu servita nei vari padiglioni del giardino
ed in una gran sala del castello; la Cheron e la
sua comitiva vi cenarono insieme alla signora Clairval,
ed Emilia potè reprimere a stento l'emozione,
quando vide Valancourt prender posto alla medesima
tavola dov'era lei. La zia lo vide egualmente,
e chiese al vicino: « Chi è quel giovine?


— È il cavaliere Valancourt, » le fu risposto.


— So anch'io il suo nome, » soggiuns'ella; « ma
chi è mai cotesto cavaliere Valancourt che s'introduce
a questa tavola? »


L'attenzione della persona da lei interrogata fu
distratta prima di ottenerne risposta. La tavola era
lunghissima; Valancourt stava verso il mezzo colla
sua compagna, ed Emilia, ch'era in un angolo della
medesima, non l'aveva ancora veduta; ciò le diede
motivo di fare mille riflessioni tutte egualmente
per lei disgustose.


Le osservazioni su tal proposito facevano il tema
di una conversazione indifferente, e qualcuno si
compiaceva d'indirizzarle alla signora Cheron, sempre
intenta ad avvilire Valancourt.


« Ammiro quella bella signora, » diss'ella, « ma
condanno la sua scelta.[141]


— Oh! il cavaliere Valancourt è il giovine più
amabile ch'io conosca, » rispose la signora alla
quale era stato rivolto quel discorso; « si dice perfino
che la signora Demery lo sposerà quanto prima,
e gli porterà in dote le sue ricchezze.


— Ciò è impossibile, » sclamò la Cheron, facendosi
di fuoco; « egli ha sì poco l'aria d'un uomo
di qualità, che se non lo vedessi alla tavola della
signora Clairval, non mi sarei mai persuasa che potesse
esser tale; d'altra parte, ho forti motivi per
dubitare della voce che corre.


— Ed io non posso dubitarne, » disse l'altra signora,
alquanto piccata di quella contraddizione.


— Posso io domandarvi, » disse la Clairval,
« signore mie, quale è il soggetto della vostra
quistione?


— Vedete voi, » le disse la Cheron, « quel giovine
quasi in mezzo alla tavola, e che parla colla
signora Demery? Ebbene! quell'uomo, che non è
conosciuto da alcuno, ha pretese presuntuose su
mia nipote, e questa circostanza, almeno io lo temo,
ha dato luogo a credere ch'egli si spacciasse
per mio adoratore; considerate ora quanto una tal
ciarla sia offensiva per me.


— Ne convengo, mia buona amica, » rispose la
Clairval, « e potete esser certa ch'io lo smentirò
da per tutto. » E si voltò da un'altra parte. Cavignì,
che fino a quel punto era stato freddo spettatore
di quella scena, fu in procinto di rompere
in una risata, e lasciò il posto bruscamente.


« Vedo bene che voi ignorate, » disse alla Cheron
la dama seduta accanto a lei, « che il giovine
di cui parlaste alla signora Clairval è suo nipote!....


— È impossibile! » sclamò la Cheron, accorgendosi
del suo grossolano sbaglio; e da quel momento
cominciò a lodar Valancourt con altrettanta bassezza,
quanta malignità aveva impiegata fino allora per
denigrarlo.[142]


Emilia era stata assorta durante la massima parte
del discorso, e fu così preservata dal dispiacere di
udirlo; fu sorpresissima dunque nel sentire le lodi
delle quali sua zia colmava Valancourt, ed ignorava
ancora ch'egli fosse nipote della Clairval; epperò
vide senza rammarico la zia, più imbarazzata di
quello che volesse parere, cercar di ritirarsi subito
dopo la cena. Montoni venne allora a darle la mano
per condurla alla carrozza, e Cavignì, con ironica
gravità, la seguì accompagnando Emilia. Nel salutarli
e nel rialzar la portiera, essa vide l'amante
tra la gente, alla porta. Egli sparve prima della
partenza della vettura; la zia non disse nulla ad
Emilia, ed elleno si separarono giugnendo a casa.


La mattina seguente, essendo Emilia a colazione
colla zia, le fu presentata una lettera, di cui, al solo
indirizzo, riconobbe il carattere; la ricevè con mano
tremante, e la zia domandò tosto donde venisse.
Emilia la disigillò con suo permesso, e vedendo la
firma di Valancourt, gliela consegnò senza leggerla.
La Cheron la prese con impazienza, e mentre la
leggeva, Emilia procurava d'indovinarne il contenuto
nei di lei sguardi; gliela restituì quasi subito,
e siccome gli sguardi della nipote domandavano se
potesse leggere: « Sì, leggete, leggete, figliuola, »
le disse con minor severità di quello che si aspettava.
Emilia non aveva mai obbedito tanto volentieri.
Valancourt nella sua lettera, parlava poco dell'abboccamento
del dì prima; dichiarava che non
avrebbe ricevuto congedo se non da lei sola, e la
scongiurava di riceverlo quella sera medesima, mentre
leggeva, stupiva che la Cheron mostrasse tanta
moderazione, e, guardandola timidamente, le disse:
« Che debbo rispondergli?


— Eh! bisogna vederlo quel giovine, sì certo, »
disse la zia; « bisogna vedere ciò che può dire a
favor suo; fategli dire che venga. »


Emilia osava credere appena a' propri orecchi.[143]


« No, no, restate, gli scriverò io stessa, » aggiunse
la zia; e chiese carta e calamaio.


Emilia non ardiva fidarsi ai dolci motti che l'animavano;
la sorpresa sarebbe stata meno grande, se
avesse inteso la sera innanzi ciò che la zia non avea
scordato, cioè che Valancourt era nipote della signora
Clairval.


Ella non conobbe i segreti motivi della zia; ma
il risultato fu una visita, la sera stessa, di Valancourt,
che la Cheron ricevè sola nel suo gabinetto.
Ebbero essi insieme un lungo colloquio prima che
Emilia fosse chiamata: quando essa entrò, la zia
parlava con dolcezza, e gli occhi del giovane, il
quale alzossi prontamente, scintillavano di gioia e
di speranza.


« Noi parlavamo di affari, » disse la zia; « mi
diceva qui il cavaliere, che il fu signor Clairval era
fratello della contessa Duverney, sua madre: avrei
voluto ch'egli mi avesse parlato più presto della
sua parentela colla signora Clairval; l'avrei riguardato
come un motivo più che sufficiente per riceverlo
in casa mia. »


Valancourt s'inchinò, e voleva presentarsi ad Emilia,
ma la Cheron lo prevenne.


« Ho acconsentito che voi riceviate le sue visite,
e sebbene non intenda impegnarmi in alcuna promessa,
nè dire che lo considererò come mio nipote,
permetterò la vostra relazione e riguarderò l'unione
ch'egli desidera, come un fatto che potrà aver luogo
fra qualche anno, se il cavaliere avanzerà di grado,
e se le sue circostanze gli permetteranno di ammogliarsi;
ma il signor Valancourt osserverà, e voi
pure, Emilia, che, fino a quel punto, v'interdico positivamente
qualunque idea di matrimonio. »


La figura d'Emilia, durante questa brusca aringa,
cambiava ad ogni momento; e, verso la fine, la
sua confusione fu tale, che stava per ritirarsi. Valancourt,
intanto, quasi imbarazzato quanto lei, non[144]
osava guardarla. Allorchè la zia ebbe finito, egli le
rispose: « Per quanto lusinghiera possa essere per
me la vostra approvazione, per quanto mi trovi
onorato dalla vostra stima, nulladimeno temo tanto,
che oso appena sperare.


— Spiegatevi, » disse la Cheron. L'inattesa risposta
turbò talmente il giovine, che se fosse stato
spettatore di quella scena, non avrebbe potuto far a
meno di ridere.


« Fino a che la signora Emilia non mi permetta
di profittare delle vostre bontà, » diss'egli con voce
sommessa, « fintantochè ella non mi permetta di
sperare...


— Se non c'è altra difficoltà, m'incarico io di
risponder per lei. Sappiate, signore, ch'essa è sotto
la mia custodia, ed io pretendo ch'ell'abbia ad uniformarsi
in tutto alla mia volontà. »


Sì dicendo, si alzò, e ritirossi nella sua camera
lasciando Emilia e Valancourt in pari imbarazzo:
finalmente il giovine, la cui speranza era maggiore
del timore, le parlò colla vivacità e franchezza a
lui naturali: ma Emilia non si rimise se non dopo
qualche tempo prima di intendere le domande e le
preghiere sue.


La condotta della signora Cheron era stata diretta
dalla sua vanità personale. Valancourt, nel suo
primo abboccamento con lei, le aveva ingenuamente
confessata la sua posizione attuale, e le sue speranze
per l'avvenire; e con maggior prudenza che umanità,
aveva severamente ed assolutamente respinta
la sua domanda: desiderava che la nipote facesse
un gran matrimonio, non già perchè le augurasse
la felicità che si suppone unita al grado ed alla
opulenza, ma per voler dividere l'importanza che
un illustre parentado potea darle. Quando seppe
che Valancourt era nipote d'una persona come madama
Clairval, desiderò un'unione il cui splendore
per certo avrebbela avvolta nella sua aureola. Fondando[145]
le sue speranze sulla ricchezza della Clairval,
obliava ch'essa aveva una figlia. Valancourt però
non l'aveva dimenticato, e contava sì poco sopra l'eredità
della propria zia, che non aveva neppure parlato
di lei nel suo primo colloquio colla Cheron; ma
comunque potesse esser per l'avvenire la fortuna
d'Emilia, la distinzione che le procurava questo parentado
era certa, giacchè la brillante situazione della
Clairval formava l'invidia di tutti, ed era un oggetto
d'emulazione per quelli che potevano sostenerne
la concorrenza. Essa aveva dunque acconsentito
di abbandonar la nipote all'incertezza d'un impegno
la cui conclusione era dubbiosa e lontana; e
di tal modo poco combinata la sua felicità o col consenso,
o coll'opposizione: avrebbe però potuto render
questo matrimonio sicuro e vantaggioso insieme,
ma una tal generosità non entrava allora per nulla
nei suoi progetti.


Da quel punto, Valancourt fece frequenti visite
alla signora Cheron, ed Emilia passò nella sua società
i più felici momenti dei quali avesse goduto
dopo la morte del padre. Erano ambidue troppo
dolcemente occupati del presente, per interessarsi
molto del futuro: amavano, erano riamati, e non
sospettavano che quell'istesso attaccamento, il quale
formava la loro felicità, potesse cagionare un giorno
la disgrazia della loro vita. In questo intervallo,
la relazione della Cheron colla Clairval divenne
sempre più intima, e la vanità della prima si pasceva
di già bastantemente, pubblicando da per tutto
la passione del nipote della sua amica per Emilia.


Montoni divenne anch'egli l'ospite giornaliero del
castello, ed Emilia si accorse, col massimo dispiacere,
ch'egli era l'amante di sua zia, e amante
favorito.


I nostri due giovani passarono così l'inverno,
non solo nella pace, ma anche nella felicità. Il reggimento
di Valancourt era in guarnigione vicino a[146]
Tolosa, per cui potevano vedersi di frequente. Il
padiglione del terrazzo era il teatro favorito delle
loro conferenze; la zia ed Emilia vi andavano a lavorare,
e Valancourt leggeva loro opere di spirito.
Egli osservava l'entusiasmo d'Emilia, esprimeva il
suo, e si convinceva infine, ogni giorno più, che le
loro anime erano fatte l'una per l'altra, e che con
il medesimo gusto, la medesima bontà e nobiltà di
sentimenti, essi soli reciprocamente potevano rendersi
felici.


 
 


FINE DEL PRIMO VOLUME


 
 




1875. Milano, Tip. Ditta Wilmant.





NOTA DEL TRASCRITTORE


La presente edizione del libro è una traduzione abbreviata e priva di
quasi tutte le parti in poesia. La versione originale completa in
inglese è disponibile su Project Gutenberg:
The mysteries of Udolpho.


Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annnotazione minimi errori tipografici. In particolare, l'uso di
trattini e virgolette per introdurre il discorso diretto, molto
irregolare e incoerente, è stato per quanto possibile regolarizzato. Un indice è stato inserito all'inizio.


I seguenti refusi sono stati corretti [tra parentesi il testo
originale]:






































































































P.     5 -ora lasciando scorgere bizzarre [bizzare] forme, si mostravano
10 - senso per preferire le attrattive [attrattative] alla virtù
11 - gli oggetti che la colpivano, dava soprattutto [soprattuto]
14 - l'entusiasmo [l'entusiamo] del sentimento le diveniva
16 - trovò difatti i coniugi [cuniugi] Quesnel nel salotto.
19 - ma l'ira fe' presto luogo al disprezzo [disprezeo].
26 - è passato, e quando lo si prolunga all'eccesso [acesso],
36 - grandiose, internaronsi nell'angusta valle [vallea].
39 - altrove mi vergognerei [vergogneri] di offrirvelo.
42 - della più soave fragranza [fraganza].
54 - non sapeva pensare a sè medesima, e Valancourt [Valancorut],
62 - superficie [superfice] scorrevano molte vele sparse,
67 - d'un tal Motteville [Monteville] di Parigi, ma ignoravi che la
68 - Si scuopriva il lago di Leucate, il Mediterraneo [Meditarraneo],
73 - La carrozza [carozza] si fermò di nuovo; egli
76 - si adagiò sopra una specie [spece] di poltrona.
84 - alla finestra, sperando e temendo [tememdo] nel tempo istesso
85 - (e altre) Sant'Aubert [Sant'Auber]
93 - lenivano alquanto la di lei disperazione [dispezione].
96 - a lasciarla [lascirla] partire. Ella uscì dal convento
98 - perchè siete superstizioso [saperstizioso], n'è vero?
100 - fu deposto [doposto] nella tomba, quando udì gettar la terra
100 - avea provato scosse troppo violente [violenti]
103 - alla perfine [perfino] lasciò il convento colle lacrime
106 - La fanciulla rimase [rimasa] alcun tempo immersa in alta
114 - sebbene abbia avuto la fortuna [fotuna] d'incontrarvi
115 - poi, rimettendosi [rimettandosi], soggiunse: « Perdonate questa
121 - rapivano in dolce estasi l'anima sua e la portavano [porvano]
122 - il timore altresì [altresi] delle censure della zia
129 - di aver conosciuto [conasciuto] Valancourt,
130 - No, signora, io non lo conosco [conoscono],
138 - essa è superiore [superiora] a qualunque elogio.
141 - conosciuto da alcuno, ha pretese presuntuose [prosuntuose]

Grafie alternative mantenute:



  • colta / côlta

  • sopratutto / soprattutto



        

Comments on "I misteri del castello d'Udolfo, vol. 1 (Italian)" :

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