The Project Gutenberg eBook of I misteri del castello d'Udolfo, vol. 4
most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions
whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms
of the Project Gutenberg License included with this ebook or online
at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States,
you will have to check the laws of the country where you are located
before using this eBook.
Title: I misteri del castello d'Udolfo, vol. 4
Author: Ann Ward Radcliffe
Release date: September 20, 2010 [eBook #33784]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online
Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This
file was produced from images generously made available
by Biblioteca Sormani - Milano)
*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I MISTERI DEL CASTELLO D'UDOLFO, VOL. 4 ***
I MISTERI
DEL
CASTELLO D'UDOLFO
DI
ANNA RADCLIFFE
VOL. IV
MILANO
Oreste Ferrario
Sotterranei Galleria Nuova, via Silvio Pellico, 6, scala n. 18
e Santa Margherita

Funerali della Signora Montoni.
I lineamenti feroci, le bizzarre fogge di quegli scherani...
Cap. XXVIII
SOMMARIO
Capitolo XXXVIII
Capitolo XXXIX
Capitolo XL
Capitolo XLI
Capitolo XLII
Capitolo XLIII
Capitolo XLIV
Capitolo XLV
Capitolo XLVI
Capitolo XLVII
Capitolo XLVIII
Capitolo XLIX
Capitolo L
Capitolo LI
Capitolo LII
Capitolo LIII
Capitolo LIV
Capitolo LV
Capitolo LVI
[5]
CAPITOLO XXXVIII
Bianca, che intanto trovavasi sola, non vedea
l'ora di riveder la nuova amica, per dividere seco
lei il piacere dello spettacolo della natura. Non aveva
più nessuno cui esprimere l'ammirazione e comunicare
le sue idee. Il conte, accortosi del di lei dispiacere,
fece ricordare ad Emilia la visita promessa,
ma il silenzio prolungato di Valancourt inquietava
tanto la fanciulla, che fuggiva la società, ed avrebbe
voluto differire il momento di riunirvisi fin quando
non fosse calmata la sua ansietà. I Villefort la sollecitarono
però così vivamente, che non potendo
spiegare il motivo che l'attaccava alla solitudine,
temè il suo rifiuto non avesse l'aria del capriccio,
ed offendesse quegli amici dei quali voleva conservare
la stima. Ritornò dunque al castello di Blangy;
l'amicizia del conte la incoraggì a parlargli della
sua posizione relativamente ai beni della zia ed a
consultarlo sul modo di rivendicarli: non eravi
dubbio che la legge non fosse in suo favore. Il conte
la consigliò di occuparsene, e le offrì perfino di scrivere
ad un avvocato di Aix per averne il parere.
L'offerta venne accettata; le garbatezze che riceveva
giornalmente in quella casa, l'avrebbero resa ancora
felice, se avesse potuto esser certa che Valancourt
[6]stava bene e l'amava sempre. Aveva già passata più
d'una settimana al castello senza riceverne notizie;
sapeva benissimo che se Valancourt non fosse stato
dal fratello, era molto dubbio che la sua lettera
pervenisse, ed intanto l'inquietudine, il timore che
non poteva vincere turbavano continuamente il di
lei riposo. Le passavano per l'idea i tanti casi, che
potevano essere divenuti possibili dopo la sua cattività
nel castello di Udolfo; talvolta era colta da
tanto timore, o che Valancourt non esistesse più, o
che non esistesse più per lei, che la compagnia
istessa di Bianca le diveniva insopportabile. Passava
ore intiere sola nella sua stanza, quando le occupazioni
della famiglia le permettevano di farlo senza
inciviltà.
In uno di questi momenti di solitudine, aprì una
cassettina contenente le lettere di Valancourt, e qualcuno
dei disegni fatti in Toscana; ma questi ultimi
oggetti l'interessavano poco. Cercava in quelle lettere
il piacere di rammentarsi una tenerezza, che aveva formato
tutta la sua consolazione, ed avevale fatto qualche
volta obliare ogni affanno; ma esse non producevano
più l'istesso effetto, aumentando invece le
sue angoscie. Pensava, aver forse Valancourt potuto
cedere alla forza del tempo e della lontananza. Oppressa
da tai dolorosi pensieri, appoggiò la testa
sulle mani, lasciando libero sfogo alle lacrime. In
quel momento, Dorotea entrò per avvertirla che il
pranzo sarebbe stato anticipato di un'ora. Sussultò
Emilia, ed affrettossi a raccogliere le carte; ma la
vecchia notò le sue lagrime e la sua agitazione.
« Ah! signorina, » esclamò essa, « nella vostra
fresca età avete anche voi affanni? »
Emilia si sforzò di sorridere, ma non poteva
parlare.
« Oimè! cara fanciulla, quando avrete i miei anni,
non piangerete per inezie. Certo non dovete affliggervi
per qualcosa di serio?
[7]
— No, Dorotea, » rispose Emilia, « nulla d'importante. »
Dorotea, chinatasi per raccogliere qualcosa, esclamò
improvvisamente; « Cielo! che vedo? » Cominciò
a tremare, e si abbandonò su d'una sedia.
— Cosa avete veduto? » disse Emilia guardandosi
intorno.
— È ella stessa, » disse Dorotea, « è lei precisamente
com'era poco tempo innanzi la sua morte...
Questo ritratto, oh Dio! dove l'avete trovato? È
la mia cara padrona, è lei stessa! » E gettò sul tavolino
la miniatura trovata da Emilia tra le carte
che il padre le aveva ordinato di bruciare; era lo
stesso ritratto, sul quale l'aveva una volta veduto
piangere. Rammentandosi a tal proposito le circostanze
della sua condotta, che l'avevano tanto sorpresa,
l'emozione di Emilia fu tale, che non ebbe la
forza d'interrogare Dorotea: tremava delle risposte
che avrebbe potuto riceverne, e potè appena domandarle
s'era certa che quello fosse il ritratto della
marchesa.
« Ah! signorina, » rispose la vecchia, « come mi
avrebbe colpito in questo modo, se non fosse l'effigie
della mia padrona! O cielo, » soggiunse quindi
riprendendo la miniatura, « ecco i suoi begli occhi
azzurri, e quello sguardo così affabile e lusinghiero!
Ecco la sua espressione, quando aveva pianto sola
per qualche tempo! Ecco quell'aria di pazienza e
rassegnazione, che mi squarciava il cuore e me la
faceva adorare!
— Dorotea, » disse Emilia, « io prendo per la
vostra afflizione un interesse maggiore che non potete
supporre. Vi domando di non negarvi a soddisfar
la mia curiosità, che non è frivola. »
Sì dicendo, ella rammentossi delle carte, fra le
quali aveva trovato il ritratto, e si convinse quasi
che fossero relative alla marchesa di Villeroy. Ma
la supposizione le fece nascere uno scrupolo. Temeva
che fosse precisamente il segreto che suo padre
aveva voluto nasconderle, e pareale di mancare al[8]
suo dovere cercando di penetrarlo. Qualunque fosse
la sua curiosità sul destino della marchesa, è probabile
che vi avrebbe resistito tuttavia, se fosse
stata certa che quelle terribili parole rimastele impresse
appartenessero all'istoria di quella dama, o
che le particolarità che poteva confidarle Dorotea
potessero entrare nel divieto di suo padre. Ma ciò
che sapeva Dorotea poteano saperlo molti altri, e
non era presumibile che Sant'Aubert avesse il progetto
di nascondere alla sua figlia ciò ch'essa poteva
sapere in altra guisa. Emilia ne concluse che
se quelle carte erano relative alla marchesa, non
versavano su d'un oggetto che Dorotea potesse spiegarle;
per cui, bandito ogni scrupolo, cominciò ad
interrogarla.
« Ah! signorina, » disse la vecchia, « la è un'istoria
dolorosa, ed ora non posso raccontarvela; ma
che dico? Non ve ne parlerò mai. Son molti anni
ch'è accaduta, questa disgrazia, e non ho mai più
parlato della signora marchesa se non con mio marito.
Egli stava in questa casa come me, e sapeva
soltanto da me certi dettagli che gli altri ignoravano.
Io assisteva la padrona nell'ultima sua malattia,
e ne seppi più che non il marchese istesso.
Santa donna, quanto era paziente! Quand'essa morì,
credetti morir con lei.
— Dorotea, » la interruppe Emilia, « potete esser
certa che quanto mi dite non uscirà mai dalla
mia bocca. Vi ripeto che ho ragioni per cercar schiarimenti
in proposito, e m'impegno coi più sacri
giuramenti a non rivelar mai i vostri segreti. » Dorotea
parve commossa dalle parole di lei; la guardò
tacendo, e poi soggiunse: « Mia bella signorina, la
vostra fisonomia mi parla a vantaggio vostro. Voi
somigliate tanto alla mia cara padrona, che mi par
di vedermela innanzi agli occhi. Se foste sua figlia,
non potreste rammentarmela meglio di così. Ma l'ora
del pranzo si avvicina, e voi dovete andare ad unirvi
alla famiglia che vi attende.[9]
— Promettetemi prima di aderire alla mia domanda, »
disse Emilia.
— E voi, signorina, spero che mi direte in qual
modo quel ritratto è caduto nelle vostre mani, ed
i motivi della vostra curiosità a proposito della mia
padrona.
— No, Dorotea, » replicò Emilia ravvedendosi.
« Ho ancor io ragioni particolari per tacere, almeno
fin quando non ne sappia qualcosa di più. Ricordatevi
che non vi prometto nulla, e se volete compiacervi
di contentar la mia curiosità, non dovete
farlo coll'idea ch'io possa soddisfare la vostra. Ciò
ch'io non voglio rivelare, non interessa me sola,
altrimenti avrei meno riguardo a parlarne, e voi
non potete narrarmi quanto desidero, se non confidando
nel mio onore.
— Ebbene, madamigella, » disse Dorotea, dopo
averla per qualche tempo fissata, « voi mostrate
tanto interesse; quel ritratto, e la vostra fisonomia
in particolare, mi fanno pensare che potete sì realmente
prenderne, ch'io vi confiderò cose non mai
dette ad altri tranne a mio marito, sebbene molti
ne abbiano sospettata una parte. Vi descriverò la
morte della marchesa, e vi dirò le mie idee in proposito.
Ma promettetemi per tutti i santi... »
Emilia, interrompendola, le promise solennemente
di non rivelar mai, senza suo consenso, quanto le
avrebbe detto.
« Odo la campana che chiama a pranzo, » disse
la vecchia, « io non posso più trattenermi.
— Quando potrò dunque rivedervi? »
Dorotea riflettè, e riprese:
« Per non dar sospetto, verrò da voi allorchè tutti
dormiranno.
— Benissimo, ricordatevi di non mancare.
— Sì, sì, me ne rammenterò. Ma temo di non poter
venire stanotte, essendovi il ballo della vendemmia,
e quando cominciano non ismettono fino a
giorno. Io soglio assistervi, e non voglio mancarci... »[10]
Emilia affrettossi a scendere. La sera, il conte e
la sua famiglia, eccettuate la contessa e la Bearn,
andarono a passeggiare onde partecipare alla gioia
dei contadini. La festa si faceva in un'aia intorno
alla quale erano appesi lumi agli alberi, da cui pendeva
a festoni l'uva matura. Sotto una pergola vedeansi
imbandite tavole copiosamente provviste di
pane, vino, frutta e cacio. I suonatori, seduti appiè
degli alberi, parevano partecipare dell'allegria prodotta
dai loro strumenti. Un fanciullo suonava il
cembalo e ballava solo, e co' suoi gesti, veramente
ridicoli, raddoppiava le risa ed il brio di quella festa
campestre.
Il conte gioiva di que' piaceri cui aveva contribuito
la sua liberalità. Bianca prese parte al ballo
con un gentiluomo del vicinato. Dupont venuto a visitare
il conte a tenore della sua promessa, desiderava
danzare con Emilia, ma ella era troppo trista,
per prender parte a tanto brio. Questa festa le rammentava
quella dell'anno precedente, gli ultimi momenti
del padre, ed il caso terribile che l'aveva
troncata. Piena di tali rimembranze, si allontanò
insensibilmente, internandosi nel bosco; i suoni addolciti
dalla musica tempravano la sua malinconia;
la luna diffondea attraverso le foglie una luce misteriosa;
immersa ne' pensieri, senza accorgersi della
distanza si ritrovò nel viale, in cui la notte dell'arrivo
di suo padre colà, Michele aveva procurato di
trovargli un asilo. Il viale era sempre deserto e
selvaggio come allora.
Considerando il luogo, si rammentò le emozioni
ivi sofferte allo scorgere la figura ch'erasi dileguata
fra gli alberi, ed ebbe qualche paura; tornò tosto
indietro, in quella udì un rumor di passi, e fu
raggiunta da una persona, che riconobbe per Enrico,
il quale le manifestò qualche sorpresa di trovarla
così lontana: essa gli disse che il piacere di passeggiare
al chiaro della luna l'aveva fatta involontariamente[11]
inoltrare in quel viale. D'improvviso, udì
un'esclamazione d'un uomo che seguiva Enrico a
poca distanza, e le parve riconoscere Valancourt;
era lui stesso. L'incontro fu quale si può immaginarlo
tra due persone sì care l'una all'altra, e separate
per tanto tempo. Nell'ebbrezza del momento,
Emilia obliò tutti i suoi affanni: Valancourt stesso
pareva obliare che esistessero nel mondo altri fuor
di lei, ed Enrico, attonito, li considerava in silenzio.
Valancourt le fece tante interrogazioni in una volta,
che non ebbe tempo di rispondergli. Seppe che la
sua lettera eragli stata mandata a Parigi, mentre
partiva per la Guascogna; e che finalmente avendola
ricevuta era volato in Linguadoca. Giunto al monastero,
d'onde ella aveva datata la sua lettera, con
molto suo dispiacere trovò le porte chiuse per esser
già notte. Credendo di non poter vedere Emilia se
non il giorno dopo, tornava al suo alloggio, quando
incontrò Enrico, da lui conosciuto a Parigi, e per
caso infine si trovò presso colei che non si lusingava
di vedere se non la domane.
CAPITOLO XXXIX
Emilia, Valancourt e Enrico tornarono insieme
alla festa; quest'ultimo presentò Valancourt al conte;
Emilia credette accorgersi che questi non lo riceveva
coll'ordinaria cordialità, quantunque paresse che si
fossero già veduti. Fu invitato a godere i divertimenti
della sera: quand'ebbe fatti i debiti complimenti
al conte, andò a sedere accanto ad Emilia, e
potè parlarle senza riserbo. I lumi appesi agli alberi
permisero alla fanciulla di considerare quel
volto, di cui nella sua assenza aveva procurato di
rammentarsi tutti i lineamenti, e vide con pena che
non era più l'istesso. Brillava come pel passato, di
spirito e di fuoco, ma aveva perduto molto di quella
semplicità, ed un poco anche di quella franca bontà,[12]
che ne formava il carattere principale: era sempre
però una fisonomia interessante. Emilia credeva travedere
in lui un misto d'inquietudine e di malinconia.
Egli cadeva talvolta in un'astrazione passeggera, e
sembrava sforzarsi d'uscirne; tal altra guardava fiso
la fanciulla, ed una specie di fremito pareva agitare
la di lui anima. Ritrovava in Emilia la stessa bontà
e beltà semplice che l'aveva sedotto allorchè la conobbe.
Le guance erano un po' impallidite, ma la
di lei dolce fisonomia, sebbene alquanto malinconica,
la rendeva sempre più interessante.
Gli raccontò le più importanti circostanze di quanto
erale accaduto dopo la di lei partenza di Francia.
La pietà e lo sdegno penetravano a vicenda, Valancourt
al racconto delle atrocità di Montoni. Più di
una volta, mentr'essa parlava, egli alzossi dalla sedia
e passeggiò agitato. Non parlò se non dei mali da
lei sofferti, nelle poche parole che potè dirigerle,
non intese ciò ch'ella gli disse, quantunque con chiarezza,
del sacrifizio necessario dei beni della sua
zia, e della poca speranza di ricuperarli. Il giovane
che pareva agitato da qualche affanno segreto, la
lasciò bruscamente; quando tornò, ella si accorse
che aveva pianto, e lo pregò di rimettersi. « Le mie
pene sono finite, » gli disse Emilia, « io sono sfuggita
alla tirannia di Montoni. Vi ritrovo sano, lasciate
adunque ch'io vi veda anche felice. »
Valancourt, più agitato che mai, rispose: « Io
sono indegno di voi, Emilia, sono indegno di voi. »
Tali parole, e più ancora l'espressione colla quale
vennero pronunziate, afflissero vivamente Emilia.
« Non mi guardate così, » le diss'egli stringendole
la mano, « deh! non mi guardate così!
— Vi vorrei chiedere, » gli diss'ella con voce affettuosa
e commossa, « di spiegarvi chiaramente;
ma mi accorgo che in questo momento tal domanda
vi affliggerebbe: parliamo di tutt'altro: domani forse
sarete più tranquillo. Voi eravate una volta ammiratore[13]
della natura; vi rammentate il nostro viaggio
dei Pirenei?
— E posso obliarlo? Fu quella l'epoca più felice
della mia vita: allora io amava con entusiasmo tutto
ciò ch'era veramente buono e grande. Promettetemi
Emilia di non dimenticarlo mai, ed io sarò tranquillo.
— La mia condotta dipenderà dalla vostra, »
disse Emilia, « ma possiamo essere ascoltati. Viene
appunto madamigella Bianca; andiamole incontro. »
I due amanti, raggiunta Bianca, recaronsi dal
conte, e si misero a tavola sotto una pergola, ove
sedevano i più venerandi vassalli, e tutti stettero
allegri, tranne Emilia e Valancourt. Quando il conte
tornò al castello, non invitò questi a seguirlo; egli
prese dunque congedo da Emilia, e partì. La fanciulla,
tornando in camera, pensò a lungo alla condotta
di Valancourt ed all'accoglienza fattagli dal
conte, ed in mezzo a queste riflessioni, obliò Dorotea.
La mattina era già inoltrata quando se ne ricordò,
e pensando giustamente che la buona vecchia
non sarebbe venuta, pensò a riposare.
La sera seguente, il conte incontrò a caso Emilia
in un viale del giardino. Parlarono della festa, ed
il discorso cadde su Valancourt.
« Quel giovine ha talento, » disse Villefort. « Lo
conoscete voi da un pezzo?
— Da un anno circa.
— Mi fu presentato a Parigi, ed in principio ne
fui contentissimo. » E si fermò.
Emilia tremava, desiderava saperne di più, e temeva
di far conoscere l'interesse che vi prendeva.
« Posso io domandarvi, » soggiunse egli poscia,
« da quanto tempo vedete il signor Valancourt?
— Posso io domandarvi, o signore, il motivo di
questa interrogazione? » diss'ella; « e vi risponderò
immediatamente.
— Sicuro io vi dirò i miei motivi. È chiaro che[14]
Valancourt vi ama, e fin qui non vi è nulla di straordinario,
chè tutti quelli che vi vedono fanno altrettanto.
Non ve lo dico per complimento, parlo
con sincerità; ciò ch'io temo è ch'egli non sia amante
preferito e corrisposto.
— Perchè lo temete voi, signore? » disse Emilia,
cercando nascondere l'emozione.
— Perchè temo non ne sia degno. »
Emilia, agitatissima, lo pregò di spiegarsi meglio.
« Lo farò, » ripigliò egli, « se voi sarete convinta
che solo l'interesse ch'io prendo per voi, mi
ha indotto a parlarvene... Io mi trovo in una posizione
delicata, ma il desiderio di esservi utile deve
vincere tutto il resto. Volete voi aver la compiacenza
d'informarmi in qual modo conosceste il signor
Valancourt? »
Emilia raccontò brevemente come l'avesse incontrato,
e pregò poscia il conte di spiegarsi.
« Il cavaliere e mio figlio, » le disse egli, « fecero
amicizia nella casa di un loro compagno, ove
l'incontrai io stesso. L'invitai a venire in casa mia:
allora ignorava le sue relazioni con una specie di
uomini, rifiuto della società, che vivono della risorsa
del giuoco, e passano la vita nelle dissolutezze. Io
conosceva soltanto qualche parente del cavaliere, e
riguardava questo motivo come sufficiente per riceverlo
in casa mia. Ma mi accorgo che voi soffrite...
troncherò questo discorso.
— No, signore, » gli disse Emilia; « vi supplico
di continuare.
— In breve seppi, » soggiunse il conte, « che le
sue relazioni l'avevano trascinato in una vita di dissipazione
da cui pareva non aver nè il potere, nè la
volontà di ritirarsi. Perdè al giuoco grosse somme;
questo vizio divenne per lui una vera passione, e si
rovinò. Ne parlai con interesse ai di lui parenti, i
quali mi assicurarono che le loro ammonizioni essendo
state inutili, erano stanchi di farne. Seppi in[15]
seguito che pe' suoi talenti era stato iniziato nei segreti
della professione del giuoco, e che aveva avuta
la sua parte in certi ignominiosi profitti.
— È impossibile, » sclamò Emilia; « ma perdonatemi,
signore, non so quel che mi dico; perdonate
al mio dolore: io credo, e debbo credere che foste
male informato: il cavaliere ha senza dubbio nemici
che hanno esagerato questi rapporti.
— Vorrei crederlo, ma nol posso; mi son deciso
a parlarvene soltanto per l'interesse che prendo alla
vostra felicità, e dietro mia piena convinzione. »
Emilia taceva, e rammentavasi le parole di Valancourt,
che avevano scoperto tanti rimorsi, è sembravano
confermare i detti del conte; non aveva
però il coraggio di convincersene, ed il suo cuore
era oppresso dall'angoscia. Dopo una lunga pausa
Villefort soggiunse:
« Mi accorgo dei vostri dubbi, e li trovo naturali;
è giusto ch'io vi dia la prova di quanto ho
detto, eppure nol posso senza esporre qualcuno a me
sommamente caro.
— Cosa temete, signore? » disse Emilia; « se
posso prevenirlo; affidatevi al mio onore.
— Mi affido senza dubbio all'onor vostro, ma posso
io fidarmi egualmente del vostro coraggio? Credete
voi di poter resistere alle preghiere di un amante
corrisposto, che, nel suo dolore, vorrà sapere il nome
di chi lo priva della sua felicità?
— Non sarò esposta a questa tentazione, signore, »
disse Emilia, con nobile fierezza, pur reprimendo a
stento le lagrime; « non potrei continuare ad amare
una persona che non posso più stimare, e perciò vi
do la mia parola d'onore.
— Vi dirò dunque tutto; la convinzione è necessaria
alla vostra futura pace, e la mia intiera confidenza
è il solo mezzo per procurarvela. Enrico, il
figlio mio, è stato troppo spesso testimone della cattiva
condotta del cavaliere: vi fu quasi trascinato[16]
anche lui, e si abbandonò a mille stravaganze; ma
riuscii a preservarlo dalla perdizione. Giudicate ora,
signora Emilia, se un padre, a cui l'esempio del cavaliere
ha quasi traviato l'unico figlio, non abbia un
titolo bastante per avvertire quelli ch'egli stima, di
non affidare la loro felicità in tali mani. Ho veduto
io stesso il cavaliere impegnato nel giuoco con tai
persone, che fremo al solo rammentarle; se ne dubitate
ancora potete informarvi meglio da mio figlio.
— Non dubito, o signore, dei fatti dei quali foste
testimone, o che affermate, » disse Emilia, soccombendo
al suo dolore; « il cavaliere si sarà forse
abbandonato ad eccessi nei quali non cadrà più; se
aveste conosciuto la purità dei suoi primi principii,
potreste scusare la mia attuale incredulità.
— Aimè! quanto è difficile il credere ciò che ci
affligge! ma non voglio consolarvi con false speranze...
Noi sappiamo tutti quale attrattiva abbia la
passione del giuoco, e quanto sia difficile il vincerla.
Il cavaliere si correggerebbe forse per un certo tempo,
ma tornerebbe ben presto a ricadere nella funesta
sua inclinazione. Temo la forza dell'abitudine, temo
anzi che il suo cuore sia già corrotto. E perchè dovrei
nascondervelo? Il giuoco non è il suo unico
vizio; pare ch'egli abbia preso il gusto di tutti i
piaceri vergognosi. »
Qui il conte ammutolì; Emilia, addolorata, sentendosi
quasi mancare, aspettava ciò che aveva ancora
da dirle. Villefort, visibilmente agitato, continuò:
« Sarebbe una delicatezza crudele se persistessi
a tacerlo; per due volte, le stravaganze del
cavaliere lo trassero nelle carceri di Parigi, d'onde
è uscito, a quanto mi fu accertato da persone degne
di fede, la mercè d'una certa contessa notissima,
e colla quale viveva tuttavia quand'io partii da
Parigi. »
E cessò di parlare; guardando Emilia, si accorse
che cadeva svenuta, e s'affrettò a soccorrerla. Passò[17]
qualche tempo prima ch'ella potesse riaversi: allora
si trovò fra le braccia, non già del conte ma di Valancourt,
il quale l'osservava con occhio smarrito,
volgendole la parola con voce tremante. Al suono
di quella voce tanto nota, Emilia aprì gli occhi, ma
li rinchiuse tosto, e svenne di nuovo.
Il conte, con un'occhiata severa, fe' segno al giovane
di allontanarsi. Questi non fece che sospirare
e chiamare Emilia presentandole acqua. Il conte ripetè
il suo gesto, e l'accompagnò con qualche parola;
Valancourt rispose con uno sguardo risentito,
ricusò di abbandonare il suo posto, finchè Emilia
non fosse rinvenuta, e non permise ad alcuno di avvicinarsele;
ma nell'istante parve che la sua coscienza
l'informasse del soggetto dell'abboccamento
del conte e di Emilia: i suoi occhi si accesero di
sdegno, che fu tosto represso dall'espressione d'un
profondo dolore: il conte, osservandolo, fu mosso a
pietà più che ad ira. Emilia, ripreso l'uso dei sensi,
si mise a piangere amaramente, ma facendosi coraggio
ringraziò il conte ed Enrico, con cui Valancourt
era entrato nel parco, e s'avviò al castello,
senza dir nulla a quest'ultimo. Colpito nel cuore da
tal condotta, egli esclamò: « Gran Dio! In qual
modo ho io meritato questo trattamento? Che vi
hanno detto per cambiarvi a tal punto? » Emilia,
senza rispondere, ma sempre più commossa, raddoppiava
il passo.
« Accordatemi pochi minuti di colloquio, » le
diss'egli avanzandosi al di lei fianco, « ve ne scongiuro:
io sono infelice. »
Quantunque avesse parlato sottovoce, il conte lo
intese, e replicò che Emilia era troppo indisposta,
onde poter parlare con alcuno, ma che ardiva accertare
ch'ella avrebbe veduto il signor Valancourt
il dì seguente se fosse stata meglio. Il giovane arrossì,
guardò Villefort con fierezza, quindi Emilia
con espressione di dolorosa sorpresa, poi raccogliendosi
alquanto, soggiunse:[18]
« Ebbene, verrò, signora; approfitterò del permesso
del signor conte. »
E fatto un leggiero inchino, si allontanò.
Appena rientrata nel suo appartamento, Emilia fu
agitata da mille pensieri rammentandosi il racconto
di Villefort. Talora credea che avessero falsamente
accusato Valancourt, parendole impossibile che quel
carattere sì franco e leale avesse potuto avvilirsi e
cadere sì basso. Tal altra dubitava perfino della
buona fede del conte, supponendolo spinto da motivi
segreti a rompere la sua relazione con Valancourt;
ma, riflettendoci, respingeva di poi siffatto
pensiero. In ogni modo sentiva il peso della sua
sventura. In mezzo al tumulto de' contrari affetti,
si rammentò la semplicità dimostrata da Valancourt
la sera precedente. Se avesse potuto dar ascolto al
cuore, ne avrebbe sperato bene. Non poteva risolversi
ad allontanarsi da lui per sempre, prima di
avere acquistata una prova più convincente della
sua cattiva condotta.
Infine deliberò di tornare al convento per passarvi
due o tre giorni. Nello stato in cui si trovava,
la società le diveniva insopportabile. Sperava che
la solitudine del chiostro e la bontà della badessa
l'aiuterebbero a riprendere qualche impero su sè
medesima, ed a sostenere lo scioglimento che pur
troppo prevedeva. Le pareva che sarebbe stata meno
afflitta se Valancourt fosse morto, o s'egli avesse
sposato qualche rivale. Ciò che la riduceva alla disperazione,
era il vedere l'amante disonorato e coperto
d'obbrobrio, costringendola così a strapparsi
dal cuore un'immagine sì lungamente adorata.
Le triste riflessioni vennero interrotte da un biglietto
di Valancourt, il quale, dipingendo il disordine
dell'anima sua, la scongiurava di riceverlo
quella sera medesima, anzichè la mattina. Provò
essa tanta agitazione, che non ebbe la forza di rispondere:
desiderava vederlo, per uscire da quello[19]
stato d'incertezza. Recatasi dal conte, gli domandò
consiglio. Villefort le rispose che, se credeva avere
forza bastante da sopportare questa scena, credeva
utile ad ambedue di accelerarla.
La fanciulla rispose all'amante che acconsentiva
a vederlo, e procurò in seguito di raccogliere le
forze ed il coraggio di cui aveva tanto bisogno per
sostenere un colloquio che doveva distruggere le sue
più dolci e care speranze.
CAPITOLO XL
Allorchè vennero ad avvertire Emilia che Villefort
desiderava vederla, s'immaginò che vi fosse
Valancourt. Nell'avvicinarsi al gabinetto del conte,
la sua emozione divenne sì forte, che, non osando
mostrarsi, si trattenne in sala per riaversi. Rimessasi
alquanto, entrò, e trovò Valancourt seduto
presso il conte. Si alzarono ambidue, e quest'ultimo
si ritirò.
Emilia stava cogli occhi bassi, non potendo parlare,
e respirando appena. Valancourt le sedette vicino;
sospirava, e taceva. Finalmente, con voce tremante
disse: « Desiderai vedervi stasera per uscire
almeno dall'orribile incertezza in cui mi piombò il
vostro cambiamento. Alcune parole del conte mi
hanno spiegato qualcosa. Mi accorgo che ho nemici,
invidiosi della mia felicità, accaniti a distruggerla;
e m'accorgo parimente che il tempo e la lontananza
indebolirono i vostri sentimenti per me. »
Queste ultime parole furono pronunziate colla
massima commozione, ed Emilia non potè rispondere.
« Quale incontro è il nostro? » esclamò Valancourt
alzandosi, e camminando a gran passi per la
stanza; « quale incontro, dopo una sì lunga e barbara
separazione! » Tornò a sedere, poi soggiunse:
« Emilia crudele, voi non mi parlate? » Si coprì
la faccia come per nascondere l'agitazione, e prese[20]
la mano di lei, che non seppe ritirarla. Essa non
potè trattenere le lacrime: tutta la sua tenerezza
tornò. Il giovane se ne accorse, un raggio di speranza
gli surse nell'anima.
« E che! voi mi compiangete? » diss'egli; « voi
mi amate ancora! Siete sempre la mia Emilia! Soffrite
ch'io creda alle vostre lacrime.
— Sì, vi compiango, ma debbo io amarvi? Credete
voi di essere tuttavia quel medesimo stimabile
Valancourt ch'io amava pel passato?
— Che voi amavate pel passato? » sclamò egli.
« L'istesso, l'istesso... » Si fermò un istante per la
gran commozione, e continuò dolorosamente: « No,
non sono più lo stesso, io son perduto: non son
più degno di voi. » E si coprì di nuovo la faccia.
Emilia era troppo colpita da una confessione tanto
sincera per poter rispondere. Lottava contro il suo
cuore, e sentiva il pericolo di fidar troppo nella sua
risoluzione in presenza dell'amante. Le premea di
por fine ad un colloquio sì penoso per entrambi.
Ma, quando pensava che probabilmente sarebbe
stato l'ultimo, mancavale ogni coraggio per non
sentire più che il dolore e la tenerezza.
Valancourt intanto, divorato dai rimorsi e dall'affanno,
non aveva forza, nè volontà di esprimersi.
Sembrava appena sensibile alla presenza di Emilia,
e non faceva che piangere.
« Risparmiatemi, » gli disse la fanciulla, « il dispiacere
di riparlare dei dettagli della vostra condotta,
che mi obbligano a troncare la nostra relazione;
bisogna separarci, ed io or vi vedo per l'ultima
volta.
— No, » esclamò Valancourt, « il vostro cuore
non può essere d'accordo col labbro; non potete
pensare a respingermi per sempre da voi.
— Bisogna separarci, » ripetè Emilia, « e per
sempre; la vostra condotta ce ne impone la necessità.
— È la decisione del conte, ma non la vostra;[21]
ed io saprò con qual diritto egli si frappone tra
noi. » Ed alzatosi, percorrea a passi precipitosi la
camera.
— Disingannatevi, » disse Emilia non meno commossa.
« La decisione è mia, il mio riposo lo esige.
— Il vostro riposo esige che noi ci separiamo
per sempre! » sclamò Valancourt. « È vero ch'io
sono decaduto dalla mia propria stima: ma come
avreste potuto rinunziare così presto a me, se non
aveste già cessato di amarmi, o se non aveste ceduto
alle suggestioni d'un altro?... No, Emilia, voi
non vi acconsentirete, se mi amate ancora, e troverete
la vostra felicità nel conservare la mia.
— Come potrei essere scusabile, » rispos'ella,
« se io vi affidassi il riposo della mia vita? Come
potreste consigliarmelo, se vi fossi cara?
— Se mi foste cara? è egli possibile che dubitiate
dell'amor mio? Ma sì, avete ragione di dubitarne,
poichè io son meno disposto all'orrore di separarmi
da voi, che a quello d'avvolgermi nella mia
rovina. Sì, son rovinato, e rovinato senza risorsa;
sono oppresso dai debiti, e non so come pagarli. »
Sì dicendo, gli occhi di lui erano smarriti e pieni
di disperazione. Emilia fu costretta di ammirare la
sua franchezza, e parve essere per qualche minuto
in lotta con sè medesima.
« Io non prolungherò, » diss'ella alfine, « un abboccamento
il cui esito non può essere felice. Valancourt,
addio.
— No, voi non partirete, » gridò egli imperiosamente,
« non mi lascerete così prima che l'animo
mio abbia raccolta la forza necessaria per sopportare
la mia perdita. »
Emilia, spaventata dal suo disperato dolore, gli
disse con dolcezza:
« Riconosceste voi stesso la necessità di separarci;
se volete farmi vedere che mi amate, perchè
opporvi?[22]
— Io era uno stolto quando vi confessava... Emilia,
è troppo: voi non v'ingannate sulle mie colpe, ma
il conte è la barriera, e non sarà a lungo l'ostacolo
della mia felicità.
— Ora voi parlate veramente da stolto: il conte
non è vostro nemico, Valancourt; gli è mio amico,
e questa sola considerazione dovrebbe bastare per
farvelo riguardare come vostro.
— Vostro amico! » disse vivamente Valancourt;
« da quanto tempo è egli tale, per farvi obliare
così presto l'amante? È egli vostro amico colui che
vi suggerì di preferire Dupont? Dupont, che voi
dite avervi ricondotta dall'Italia? Dupont, ch'io dico
avermi rapito il vostro cuore? Ma io non ho diritto
d'interrogarvi. Siete padrona di voi stessa;
ma quel Dupont non trionferà a lungo della mia
sciagura. »
Emilia, più spaventata che mai dal furore di Valancourt,
gli disse:
« In nome del cielo, siate ragionevole; calmatevi;
Dupont non è vostro rivale, ed il conte non
è suo difensore; voi non avete altri nemici che voi
stesso, e mi convinco sempre più che non siete quel
Valancourt che ho amato tanto. »
Egli non rispose; coi gomiti appoggiati sul tavolino,
stava silenzioso. Emilia era muta e tremante,
e non osava lasciarlo.
« Infelice! » esclamò egli poco dopo; « io non
posso lagnarmi senza accusarmi! Perchè fui io trascinato
a Parigi? Perchè non seppi difendermi dalle
seduzioni che dovevano rendermi disprezzabile per
sempre? » Voltosi quindi vêr lei, le prese la mano,
e le disse affettuosamente: « Emilia, potete voi sopportare
l'idea della nostra separazione? Potete voi
abbandonare un cuore che vi ama come il mio? Un
cuore che, malgrado i suoi errori, apparterrà a voi
sola? » La fanciulla non rispondeva se non colle
lacrime. « Io non aveva, » soggiunse egli, « un solo[23]
pensiero che volessi nascondervi non un piacere, nè
un desiderio, ai quali voi non poteste prender parte.
Queste virtù potrebbero appartenermi tuttora, se la
vostra tenerezza, che le aveva alimentate, non fosse
cambiata senza rimedio; ma voi non mi amate più:
quelle ore felici passate insieme si presenterebbero
alla vostra immaginazione, e non potreste pensarvi
con indifferenza. Non vi affliggerò oltre, ma prima
ch'io parta, permettetemi di ripetervi, che qualunque
possa essere il mio destino ed i miei patimenti, non
cesserò mai d'amarvi teneramente. Io parto, Emilia,
vi lascio per sempre. »
La di lui voce s'indebolì, e cadde sulla sedia nel
massimo abbattimento. Emilia non poteva nè uscire,
nè dirgli addio. Tutte le di lui follie erano quasi cancellate
dal suo spirito, e non sentiva più che dolore
e pietà.
« Ditemi almeno, » disse Valancourt, « che mi
vedrete un'altra volta. » Il cuore di lei fu in certa
qual guisa sollevato da tale preghiera. Si sforzò di
persuadersi che non doveva negargliela; ma provava
nondimeno qualche imbarazzo pensando ch'era
in casa del conte, il quale avrebbe potuto offendersi
del ritorno di Valancourt; finì ad acconsentirvi a
patto che non avrebbe considerato il conte come
nemico, nè Dupont come rivale; allora egli partì
talmente consolato dalle ultime parole di lei, che
perdè il primiero sentimento della sua disgrazia.
Emilia tornò in camera per ricomporsi e nascondere
le orme delle lacrime: ella ebbe però difficoltà
a calmarsi, non potendo bandire la rimembranza
di quest'ultima scena, nè l'idea di rivedere
Valancourt, giacchè quest'ultimo abboccamento sembravale
dover essere più terribile del precedente.
Il giovane le aveva fatta grand'impressione, malgrado
quanto aveva saputo. Pareale impossibile
ch'egli avesse potuto depravarsi al punto che le
si voleva far credere, ed avrebbe ceduto forse[24]
alle lusinghiere persuasioni del suo cuore, senza
la prudenza di Villefort, il quale le rappresentò il
pericolo della sua situazione, e la poca speranza che
poteva offrire un nodo la cui felicità doveva consistere
nel ristabilimento d'un patrimonio scialacquato,
e nell'obblìo delle più viziose abitudini; e' fu perciò
afflittissimo, ch'ella avesse condisceso ad un secondo
colloquio.
Quella notte Emilia non potè chiuder occhio.
Valancourt intanto era in preda all'angosce della
disperazione. La vista di Emilia aveva rinnovata
l'antica fiamma, indebolita solo leggermente dall'assenza
e dalle distrazioni d'una vita tumultuosa. Allorchè,
ricevendo la sua lettera era partito per la
Linguadoca, sapeva pur troppo che le sue follie
l'aveano rovinato, nè pensava di nasconderlo all'amante;
si affliggeva solo del ritardo che la sua condotta
potrebbe cagionare al loro matrimonio, nè
prevedeva come tale informazione avrebbe potuto
indurla a rompere ogni loro legame. Oppresso all'idea
di questa eterna separazione, lacerato dai rimorsi,
attendeva il secondo abboccamento in uno stato quasi
di delirio; ma sperava però sempre di ottenere a
forza di preghiere qualche mutamento nella di lei
risoluzione.
La mattina le fece domandare a che ora avrebbe
potuto riceverlo: quand'essa ricevè il biglietto, era
col conte, che approfittò del nuovo pretesto per riparlarle
di Valancourt. Vedeva la disperazione della
giovine amica, e temeva che il coraggio l'abbandonasse.
Emilia rispose al biglietto, ed il conte ritornò
sul proposito dell'ultima conversazione. Egli
parve temere le tentazioni di Valancourt, e le disgrazie
alle quali si esporrebbe per l'avvenire, se
non resisteva ad un dispiacere presente e passaggiero:
queste ripetute ammonizioni potevano sole
premunirla contro gli effetti della sua affezione, ed
ella risolse di seguire i di lui consigli.[25]
Giunse alfine l'ora dell'abboccamento: Emilia
si presentò sostenuta nel contegno, ma Valancourt,
troppo agitato, restò qualche minuto senza poter
parlare; le sue prime frasi furono preghiere, lamenti,
rimproveri contro sè medesimo; in seguito
le disse: « Emilia, vi ho amata, e vi amo più di
me stesso; son rovinato per colpa mia, ma intanto
non posso negare ch'io preferissi trascinarvi in
un'unione infelice, anzichè soffrire, perdendovi il
castigo che merito... Io sono un infelice, ma non
voglio più esser un vile; non cercherò più di smovervi
dalla vostra risoluzione colle istanze d'una
passione egoista. Io rinunzio a voi, Emilia, e cercherò
di consolarmi, pensando che, se sono disgraziato,
voi potete almeno esser felice. Non ho, è vero,
il merito del sacrifizio, e non avrei mai avuta la
forza di farvi libera, se la vostra prudenza non l'avesse
esigiuto. »
La fanciulla procurava di rattenere le lagrime, e
stava per dirgli: « Voi parlate ora come facevate
una volta. » Ma restò in silenzio.
« Perdonatemi, Emilia, » ripigliò egli, « tutte le
inquietudini che vi ho cagionate. Pensate talvolta
al povero Valancourt, e ricordatevi, che la di lui
sola consolazione sarà di sapere che le sue follie
non vi resero infelice. »
Le lagrime sgorgarono in copia dagli occhi di
Emilia, la quale si sforzò di farsi coraggio e por
fine ad un colloquio che aumentava la loro comune
afflizione. Valancourt la vide piangere mentre si alzava;
fece un nuovo sforzo per contenere i propri
sentimenti, e calmare quelli di Emilia.
« La rimembranza di questo doloroso momento, »
le diss'egli, « sarà in futuro la mia salvaguardia.
L'esempio e la tentazione non potranno
più sedurmi. La memoria di quel pianto che versate
per me, mi darà la forza di superare ogni pericolo. »[26]
Emilia, alquanto consolata da tale assicurazione,
rispose:
« Noi ci separiamo per sempre; ma se la mia
felicità vi è cara, ricordatevi ognora che nulla vi
potrà maggiormente contribuirvi colla certezza che
voi riacquistaste la vostra propria stima. »
Valancourt le prese la mano, aveva gli occhi lagrimosi,
e l'addio che voleva pronunziare veniva
soffocato dai singulti. Dopo qualche momento, Emilia,
tutta commossa, disse:
« Addio, Valancourt, possiate essere eternamente
felice! Addio, » ripetè nuovamente volendo ritirare
la mano; ma egli la teneva stretta fra le sue, e la
bagnava di lacrime. « Perchè prolungare questi
momenti? » continuò ella, con voce inarticolata;
« essi son troppo penosi per noi.
— Troppo, sì, troppo, davvero, » sclamò Valancourt,
lasciandole la mano, e abbandonandosi
sulla sedia, celossi la faccia. Dopo un lungo intervallo,
durante il quale Emilia piangeva amaramente
e Valancourt lottava contro il suo dolore, egli si
alzò di nuovo, e prendendo un accento più fermo,
disse: « Io vi affliggo, ma l'ambascia che provo
dev'essere la mia scusa. Addio, Emilia, voi sarete
sempre l'unico oggetto della mia tenerezza. Pensate
qualche volta all'infelice Valancourt, almeno per
compassione, se non per istima, giacchè cosa sarebbe
per me il mondo intiero senza di voi e senza la
vostra stima? Cara Emilia, addio per sempre. »
Le baciò la mano, la guardò per l'ultima volta
e fuggì precipitosamente.
Emilia restò nell'atteggiamento in cui l'aveva
lasciata, col cuore così oppresso, che poteva appena
respirare; udì il rumore dei di lui passi indebolirsi
mano mano. Fu scossa da tale stato dalla voce
della contessa che parlava in giardino. Allora versò
lagrime che la sollevarono, e così, ripreso vigore,
ebbe la forza di recarsi alla sua camera.
[27]
CAPITOLO XLI
Torniamo a Montoni, la cui sorpresa e rabbia per
la fuga di Emilia fecero tosto luogo ad interessi
più urgenti. Le sue depredazioni eransi talmente
moltiplicate, che il senato di Venezia, malgrado la
sua debolezza e l'utilità, che all'occasione avrebbe
potuto ritrarre da Montoni, non volle sopportarle
più a lungo. Fu decretato pertanto di distruggere
le di lui forze e punire il suo brigandaggio. Un
grosso stuolo di milizie accingevasi a marciare contro
il castello di Udolfo. Un giovane ufficiale, animato
contro Montoni dal risentimento di qualche
ingiuria particolare, o fors'anco dal desiderio di
distinguersi, chiese udienza al ministro che dirigeva
quest'impresa. Gli rappresentò che Udolfo era un
forte situato in un luogo troppo formidabile per
essere preso d'assalto. Un corpo di truppe non poteva
avvicinarvisi senza che Montoni ne fosse avvertito.
L'onore della repubblica si opponeva al
piano d'assediare quel castello con un esercito regolare.
Bastava un pugno di gente risoluta, ed era
probabilissimo d'incontrare ed attaccare Montoni ed
i suoi fuori delle mura, ovvero avvicinandosi al
castello colla cautela compatibile con pochi soldati,
sarebbe stato facile trar vantaggio da qualche tradimento
o negligenza, per penetrare d'improvviso
nell'interno.
Il piano, seriamente meditato, fu affidato allo
stesso ufficiale che l'aveva concepito. Dapprincipio
egli usò l'astuzia; si accampò nei dintorni di Udolfo
e procurò guadagnarsi l'assistenza de' vari condottieri.
Non ne trovò neppur uno che non fosse pronto
a tradire un padrone imperioso, per assicurarsi così
il perdono del senato. Informatosi del numero delle
truppe di Montoni, seppe che i suoi ultimi successi
le avevano aumentate d'assai. Non iscoraggitosi per[28]
questo, appiccò intelligenze nell'interno della piazza,
che gli procurarono la parola d'ordine, e mescolatosi
colla sua gente ai seguaci di Montoni, potè
introdursi nel castello e sorprenderlo, mentre un
altro stuolo de' suoi, dopo una lieve resistenza, faceva
cedere le armi alla guarnigione. Tra le persone
prese con Montoni, trovavasi Orsino: avendo saputo,
dopo l'inutile sforzo fatto per rapire Emilia,
che quello scellerato aveva raggiunto Montoni ad
Udolfo, Morano ne aveva avvertito il senato. Il desiderio
di prendere quest'uomo, autore dell'assassinio
d'un senatore, fu uno dei motivi che fecero
accelerare l'impresa, il cui successo riuscì gradito
tanto, che, malgrado i sospetti politici e l'accusa
segreta di Montoni, il conte Morano fu rimesso in
libertà. La celerità e facilità di questa spedizione
prevennero il chiasso e le dicerie, sicchè Emilia, in
Linguadoca, ignorò la disfatta e l'umiliazione del
suo crudele persecutore.
Il di lei spirito era sì oppresso da tanti affanni,
che verun sforzo della sua ragione, valea a superarne
l'effetto. Villefort non risparmiava alcun mezzo
per consolarla. L'invitava spesso a passeggiare con
lui e colla figlia, e tenevale acconci discorsi sperando
sradicare gradatamente il soggetto del suo
dolore e risvegliare in lei nuove idee. Emilia, vedendo
in lui un vero amico, il protettore della sua
gioventù, lo prese ad amare con affetto figliale.
Il di lei cuore si apriva con Bianca come con
una sorella. La bontà e semplicità di questa fanciulla
compensavala abbastanza della privazione di
qualche vantaggio più lusinghiero. Passò qualche
tempo prima che Emilia potesse distrarsi tanto dal
pensiero di Valancourt, per ascoltare l'istoria promessale
dalla vecchia Dorotea, la quale in fine, premurosa
di narrargliela, glie ne fece sovvenire, e
Emilia l'aspettò l'istessa sera.
Infatti, dopo mezzanotte, giunse Dorotea, e dopo[29]
pochi minuti di riposo cominciò così il suo racconto:
« Sono ormai venti anni che la signora marchesa
arrivò in questo castello. Quanto era bella
allorchè entrò nella sala ov'eravamo riuniti per riceverla!
Quanto sembrava felice il signore marchese!
Chi l'avrebbe potuto indovinare! Ma che dico?
Signora Emilia, mi parve che la marchesa fosse un
poco afflitta. Lo dissi a mio marito, ed egli mi rispose
che sbagliava: non glie ne parlai più, e tenni
per me le mie osservazioni. La signora marchesa aveva
all'incirca la vostra età, e, come l'ho spesso notato,
vi somigliava moltissimo. Il signor marchese
diede feste splendide, e pranzi così magnifici, che
da quel tempo il castello non fu mai così brillante.
Io allora era giovine ed allegra quanto chicchessia.
Mi rammento che ballava con Filippo il cantiniere;
era vestita in gran gala. Vi giuro che faceva la mia
figura. Il signor marchese allora mi osservava. Ah!
egli era pur allora il bravo signore. Chi avrebbe
potuto mai supporre che lui...
— Ma la marchesa cosa faceva? » interruppe
Emilia.
— Ah! sì, è vero. La marchesa mi pareva che
non fosse felice. Io la sorpresi una volta a piangere.
Allorchè mi vide, si asciugò gli occhi sforzandosi
di ridere. Non osai domandarle che avesse, ma
la seconda volta che la trovai in quello stato, glie
ne chiesi il motivo, e parve offendersene. Non le
dissi più nulla, ma però indovinai qualcosa. Pareva
che il padre l'avesse costretta a sposare il marchese
per le sue ricchezze. Essa amava un altro signore,
grandemente invaghito di lei. M'immaginai dunque
che si affliggesse d'averlo perduto, ma però non
me ne ha parlato mai. La mia padrona procurava
di nascondere le sue lacrime al marito. Io la vedeva
spesso dopo i suoi trasporti di dolore, prendere
un'aria tranquilla quand'egli entrava. Il mio
padrone divenne d'improvviso pensieroso e severo[30]
colla moglie, la quale se ne afflisse, senza però lagnarsene
mai. Allora parve disposta a tornare di
buon umore, ma il marchese era così salvatico, e
le rispondeva con tanta durezza, che fuggiva piangendo
nella sua stanza. Io ascoltava tutto nell'anticamera.
Povera signora! qualche volta credeva che
il marchese fosse geloso: la mia padrona, benchè
ammirata da tutti, era troppo onesta per meritare
il più lieve sospetto. Fra tutti i cavalieri che frequentavano
il castello eravene uno che mi pareva
fatto per lei. Egli era così gentile, così galante! Ho
osservato sempre che, quando veniva in casa il signor
marchese era più malcontento del solito, e la
padrona più pensierosa. Mi venne allora in idea
che fosse quello il gentiluomo amante e riamato da
lei, ma non ho potuto mai assicurarmene.
— Quale era il nome di quel cavaliere? » disse
Emilia.
— Non posso dirvelo, signorina, perchè non conviene.
Una persona morta poco tempo fa mi ha assicurato
che la marchesa non era in buona regola
la moglie del marchese, avendo ella prima sposato
segretamente il cavaliere che amava. Non ardì confessarlo
al padre, uomo brutale, ma non è verosimile,
ed io non l'ho mai creduto. Come vi diceva,
il marchese era quasi fuori di sè, allorchè quel
cavaliere veniva qui. Il trattamento che faceva del
continuo alla moglie la rese alfine infelicissima. Non
voleva più che vedesse alcuno, e la costringeva a
vivere affatto isolata. Io l'ho sempre servita: vedeva
i suoi patimenti, ma ella non se ne doleva
mai. Dopo un anno di questa vita, la padrona si
ammalò: credei da principio che il suo male derivasse
dagli affanni; ma, ohimè! temo molto che
quella malattia non avesse un motivo più terribile.
— Più terribile! » sclamò Emilia; « ed in qual
modo?
— Io ne dubito molto; vi furono circostanze[31]
strane davvero, ma vi dirò solo ciò che accadde. Il
signor marchese...
— Zitto! Dorotea. »
La vecchia mutò colore. Ascoltarono tuttaddue
attentamente, e udirono cantare.
« Mi pare di aver già sentita questa voce, » disse
Emilia.
— L'ho intesa spesso anch'io, e sempre precisamente
a quest'ora, » disse Dorotea con gravità.
« Se gli spiriti possono cantare, certo questa musica
non può venire che da loro. »
A misura che la musica si avvicinava, Emilia la
riconobbe per l'istessa già intesa all'epoca della
morte del padre. La custode soggiunse:
« Mi pare d'avervi già detto, signorina, che cominciai
a sentire questa musica poco dopo la morte
della mia cara padrona.
— Zitto, » disse Emilia, « apriamo la finestra ed
ascoltiamo. » Ma la musica si allontanò insensibilmente,
e tutto rientrò nel silenzio. Il paese intiero
era avvolto nelle tenebre, e lasciava scorgere solo
indistintamente qualche parte del giardino.
Emilia, appoggiata alla finestra, considerava quel
tenebrore con rispettoso silenzio, ed alzava gli occhi
al cielo adorando i decreti del Supremo Fattore.
Dorotea allora continuò con voce sommessa:
« Vi diceva adunque, signorina, che mi rammentava
della prima sera in cui intesi questa musica:
ciò avvenne una notte poco dopo la morte della
mia cara padrona. Non so per qual motivo non era
andata ancora a dormire, e pensava dolorosamente
alla marchesa, ed alla trista scena ond'era stata
testimone. Tutto era tranquillo, e la mia camera era
lontana da quelle degli altri domestici; in quella
solitudine, e colla fantasia piena di tristi idee, mi
trovava isolata, e bramava udire qualche rumore,
giacchè sapete che quando si ode movimento, non
si ha tanta paura. Io mi asteneva perfino dal girare[32]
gli occhi per la camera, temendo sempre di
vedere la faccia moribonda della mia povera padrona,
che mi stava presente: quando d'improvviso
intesi una dolce armonia, la quale pareva essere
sotto la mia finestra; non ebbi la forza di alzarmi,
ma credei fosse la voce della marchesa, e piansi di
tenerezza. Da quella notte, intesi spesso quest'armonia,
la quale però era cessata da qualche mese,
ma ora è tornata di nuovo.
— È strano, » disse Emilia, « che non siasi ancora
scoperto il cantore.
— Oh! signora, se fosse una persona naturale,
si conoscerebbe da molto tempo; ma chi può avere
il coraggio di correr dietro ad uno spirito? E quand'anco
avesse tal coraggio, cosa si scoprirebbe?
Gli spiriti, come sapete, possono prender la figura
che vogliono: ora son qui, ora son là, e poco dopo
sono cento miglia distanti.
— Di grazia, riprendiamo l'istoria della marchesa, »
disse Emilia; « informatemi del genere
della sua morte.
— Sì, signora... Il marchese divenne sempre più
burbero, e la signora peggiorava tutti i giorni. Una
notte vennero a chiamarmi; corsi da lei, e fui spaventata
dallo stato in cui la trovai. Qual cambiamento!
Mi guardò in modo da muovere a compassione
i sassi. Mi pregò di chiamar il marchese,
che non si era fatto vedere per tutto il giorno,
avendo cose segrete da comunicargli. Venne; parve
afflittissimo di vederla così malata, e parlò poco. La
mia padrona gli disse che si sentiva moribonda,
e desiderava parlargli senza testimoni; io uscii, e
non mi dimenticherò mai l'occhiata che mi lanciò
in quel momento. Allorchè rientrai, dissi al padrone
di mandar a chiamare un medico, immaginando che
il dolore gl'impedisse di pensarvi; la signora rispose
ch'era troppo tardi: ma egli pareva non crederle,
e riguardare la sua malattia come leggera.[33]
Di lì a poco cadde in terribili convulsioni; urlava
orrendamente. Il marchese fece partire un uomo a
cavallo per cercar il medico. Io restai presso la
marchesa, procurando di sollevarla. In un intervallo
molto doloroso mandò a cercar di nuovo il padrone:
egli venne, ed io voleva ritirarmi, ma ella desiderò
che non m'allontanassi. Oh! io non mi scorderò
mai quella scena. Il marchese perdeva quasi la ragione;
ma la signora gli parlava con tanta bontà,
e si dava tanta pena per consolarlo, che se mai egli
avesse avuto qualche sospetto, doveva cancellarlo in
quel momento. Sembrava oppresso dalla rimembranza
de' suoi maltrattamenti, ed ella ne fu tanto
commossa, che svenne fra le mie braccia. Io feci
subito uscire il marchese, il quale corse nel suo
gabinetto, e si gettò per terra, non volendo più
veder nessuno. Quando la signora fu alquanto rimessa,
chiese sue nuove, e disse in seguito che il
di lui dolore l'affliggeva troppo, e che bisognava
lasciarla morire in pace. Spirò nelle mie braccia
colla dolcezza d'un angelo, giacchè la crisi violenta
era già passata. »
Dorotea versò un torrente di lagrime. Emilia
pianse con lei, intenerita dalla bontà della marchesa,
e dalla rassegnazione colla quale aveva
sofferto.
« Il medico giunse, » continuò Dorotea, « ma
troppo tardi. Parve stupefatto nel vedere il cadavere
della mia padrona, la cui faccia era divenuta
livida e nera. Fece uscire tutti, e mi volse singolari
domande a proposito della marchesa e della sua
malattia. Scuoteva la testa alle mie risposte, e pareva
giudicare sinistramente. Io lo compresi pur
troppo, ma non comunicai le mie congetture se non
a mio marito, che mi raccomandò di tacere: alcuni
altri domestici ebbero però gli stessi sospetti che
circolarono nel vicinato. Allorchè il marchese seppe
che la signora era morta, si rinchiuse nel suo appartamento,[34]
e non volle vedere che il medico. Restarono
insieme più di un'ora, e il dottore non mi
parlò più della marchesa, la quale fu sepolta nella
chiesa del convento. Tutti i vassalli assistettero
piangendo al suo funerale, perchè era molto caritatevole.
Quanto al signor marchese, io non ho
mai veduto un'afflizione come la sua, e talvolta
nell'eccesso del dolore perdeva l'uso dei sensi. Non
restò molto tempo nel castello, e partì pel suo reggimento.
Poco dopo, tutti furono congedati, tranne
mio marito e me, nè l'ho riveduto mai più.
— La morte della marchesa pare straordinaria! »
disse Emilia, desiderando saperne qualcosa di più.
— Sì, signora, fu straordinaria. Vi dico tutto
ciò che ho veduto, e voi potete indovinar quel
che ne penso; non posso dir altro per non diffondere
ciarle che potrebbero offendere il signor conte.
— Avete ragione; sapete voi dove sia morto il
marchese?
— Nell'Alsazia, a quanto credo, » rispose Dorotea.
« Mi rallegrai molto quando seppi che arrivava
il signor conte. Questo luogo è stato lunga
pezza in una trista desolazione. Noi vi udimmo rumori
straordinari, poco dopo la morte della padrona,
ed io, con mio marito, ci ritirammo in una casuccia
poco lontana. Adesso, signora Emilia, che vi ho raccontato
questa tragica istoria, vi rammenterò la
vostra promessa di non lasciarne traspirar nulla ad
alcuno.
— Sarò fedele alla mia parola, » rispose Emilia;
« ciò che mi narraste m'interessa assai più di
quanto potete supporre. Vorrei solo pregarvi di nominarmi
il cavaliere che, secondo voi, s'interessava
tanto per la marchesa. »
Dorotea negò assolutamente di acconsentirvi, e
tornò a parlare della somiglianza di lei colla marchesa.
— « Vi è un altro ritratto di questa, » soggiunse,[35]
« ed è in una delle stanze chiuse. Fu fatto prima
del suo matrimonio, e voi le somigliate assaissimo. »
La fanciulla mostrò desiderio di vederlo, e Dorotea
rispose che non aveva coraggio di entrare in
quell'appartamento. Emilia le rammentò che, il dì
innanzi, il conte aveva parlato di farlo aprire. La
custode convenne allora d'andarlo prima a vedere
con lei.
La notte era molto avanzata, e Emilia troppo
commossa dal racconto inteso per visitare così tardi
quel luogo. Pregò dunque la vecchia di tornare la
notte seguente. Oltre il desiderio di vedere il ritratto,
sentiva un'ansiosa curiosità di visitare la
camera ov'era morta la marchesa, e che, secondo
Dorotea, era rimasta nel primiero stato. La commozione
che le cagionava l'aspettativa di una tale
scena, era allora conforme allo stato del di lei spirito.
Oppressa dal cambiamento della sua sorte, gli
oggetti piacevoli aumentavano la sua malinconia in
vece di dissiparla; forse aveva torto di piangere sì
amaramente un infortunio inevitabile; ma veruno
sforzo della ragione valeva a lasciarle scorgere con
indifferenza l'avvilimento di colui che aveva già
stimato ed amato con tanto trasporto.
Dorotea promise di tornare la notte seguente colle
chiavi dell'appartamento, e si ritirò.
Emilia restò alla finestra, meditando tristamente
sul destino dell'infelice marchesa, ed aspettando
ansiosa il ritorno della musica notturna. La calma
non fu turbata se non dallo stormir delle frondi
agitate da lieve brezzolina. La campana del convento
suonò mattutino, e Emilia se ne andò a letto
cercando nel sonno l'oblio della dolorosa storia
della marchesa di Villeroy.
[36]
CAPITOLO XLII
La notte seguente, all'istessa ora circa, Dorotea
venne a prendere Emilia e portò le chiavi dell'appartamento
della marchesa, che si trovava dalla
parte opposta, al nord. Dovevano passare vicino
alle stanze della servitù, e Dorotea desiderava sfuggire
alle loro osservazioni. Volle dunque aspettare
un'altra mezz'ora ond'assicurarsi che tutti i servitori
dormissero. Era quasi un'ora dopo mezzanotte
allorchè si misero in cammino. Dorotea andava
innanzi e portava il lume; ma il suo braccio,
indebolito dal timore e dalla vecchiaia, tremava sì
forte, che Emilia, presa ella stessa la lucerna, s'offrì
a sostenere i di lei passi mal sicuri. Bisognava
scendere lo scalone, traversare gran parte del castello,
e salire l'altro situato al nord. Non incontrarono
nulla che alterasse vie maggiormente la
loro agitata fantasia, e giunte in cima alla scala
Dorotea mise la chiave nella serratura. « Ah! »
diss'ella sforzandosi di girarla; « è chiusa da tanto
tempo, che forse la ruggine non ci permetterà di
aprirla. » Emilia però, più destra di lei, girò la
chiave, aprì la porta, ed entrarono in una stanza
antica e spaziosa.
« Dio buono! » disse Dorotea nell'entrare; « l'ultima
volta che son passata da questa porta, io seguiva
la salma della mia povera padrona! »
Traversarono una fila di stanze, e giunsero in un
salotto adorno ancora con magnificenza.
« Riposiamo qui un momento, » disse Dorotea;
« quella è la porta della camera, in cui è morta
la padrona. Ah! signorina, perchè mi avete fatto
venir qua? »
Emilia, vedendo la povera vecchia in uno stato
compassionevole, la fece sedere e procurò di tranquillarla.[37]
« Come la vista di questo appartamento mi richiama
alla memoria l'immagine del tempo passato!
Mi pare che fosse ieri. »
— Zitto! qual rumore è questo? » disse Emilia.
Dorotea, spaventata, guardò per tutta la camera;
ascoltarono ma non intesero nulla. La vecchia allora
riprese il soggetto del suo dolore: « Questo
salotto era, al tempo della signora, la più bella
stanza del castello. Era mobiliato all'ultimo gusto.
Tutti questi mobili vennero da Parigi; quei grandi
specchi sono di Venezia. Questi arazzi erano in
ispecie ammirati da tutti; rappresentano essi un'istoria
che si trova in un libro, di cui ora non mi
ricordo il nome. »
Emilia si alzò per esaminarli. Alcuni versi in
provenzale, in fondo ai medesimi, le fecero riconoscere
la storia di Coriolano.
Dorotea essendosi alquanto rimessa, aprì finalmente
la porta fatale. Entrarono in una camera cupa
e spaziosa. La custode si abbandonò tosto su d'una
sedia esalando profondi sospiri, e ardiva appena alzar
gli occhi. Emilia osservò il letto ove dicevasi
morta la marchesa. Era parato di damasco verde.
Un gran panno di velluto nero lo cuopriva fino a
terra. Mentre la fanciulla, col lume in mano, girava
intorno alla camera: « Dio buono! » esclamò Dorotea;
« mi par di veder la mia padrona distesa su
quel letto, come la vidi per l'ultima volta. Ah! »
soggiunse ella piangendo ed appoggiandosi al letto;
« io era qui quella notte terribile: le teneva la
mano; intesi le sue ultime parole, vidi tutti i suoi
patimenti, e spirò fra le mie braccia.
— Non vi abbandonate a queste funeste rimembranze, »
disse Emilia; « usciamo e mostratemi il
ritratto di cui mi parlate.
— Egli è nel gabinetto, » rispose Dorotea, mostrandole
un uscio. L'aprì, ed entrarono ambedue
nel gabinetto della marchesa.[38]
« Aimè! eccola là, » disse la custode, additando
un quadro. « Ecco com'era allorchè giunse qui.
Vedete bene ch'era fresca quanto voi. »
Mentr'ella continuava a smaniarsi, Emilia osservava
attenta il ritratto, che somigliava moltissimo
alla miniatura trovata fra le carte di Sant'Aubert:
eravi soltanto una piccola differenza nell'espressione
della fisonomia, e le parve riconoscere nel quadro
un'ombra di quella malinconia pensierosa che caratterizzava
sì forte il ritratto in miniatura.
« Vi prego, signorina, » disse Dorotea, « di situarvi
presso questo quadro, affinchè io possa confrontarvi. »
Emilia la compiacque, e la vecchia rinnovò gli
atti di sorpresa sulla di lei somiglianza. La fanciulla
tornò a guardare, e le parve d'aver veduta
in qualche parte una persona simigliante al ritratto;
ma non potè rammentarselo bene. In quel gabinetto
eranvi tuttavia molte cose d'uso della defunta, un
abito, una sottana, un cappello, scarpe e guanti gettati
là sul tavolino, come se li avesse cavati poco
prima: eravi inoltre un gran velo nero ricamato;
Emilia lo prese in mano per esaminarlo, ma si avvide
tosto che cadeva in pezzi per vetustà; lo depose,
e scorrendo il gabinetto, tutti gli oggetti le
pareano parlar della marchesa.
Rientrata nella camera, Emilia volle vedere di
nuovo il letto; osservando la punta bianca del guanciale
che usciva di sotto al velluto nero, le parve
scorgere un movimento. Senz'aprir bocca prese il
braccio di Dorotea, la quale, sorpresa dall'azione e
dal terrore di lei, rivolse gli occhi verso il letto,
e vide il velluto sollevarsi ed abbassarsi; Emilia
volle fuggire, ma la vecchia, cogli occhi fissi sul
letto, le disse: « E il vento, signorina; abbiamo
lasciato tutte le porte aperte. Vedete come l'aria
agita anche il lume; è il vento sicuramente. »
Appena ebbe detto così, il panno si agitò con[39]
maggior violenza. Emilia, vergognandosi del suo
timore, si riavvicina al letto, volendo assicurarsi se
il vento solo le avesse impaurite: osserva attentamente,
il velluto si agita ancora, si solleva e lascia
vedere... una figura umana. Misero entrambe un
grido spaventoso, e lasciando le porte aperte, fuggirono
a precipizio. Allorchè giunsero alla scala,
Dorotea aprì una camera, in cui dormivano due
serve, e cadde svenuta sul letto. Emilia, abbandonata
dalla sua solita presenza di spirito, fece un
debole sforzo per nascondere alle donne stupefatte
la vera cagione del suo terrore. Dorotea, riavendosi,
si sforzò di ridere del suo timore; ma quelle serve,
giustamente allarmate, non poterono risolversi a
passare il resto della notte in vicinanza del terribile
appartamento.
La custode condusse Emilia alle sue stanze, ove
parlarono con più calma del caso strano. Quest'ultima
avrebbe quasi dubitato di quella visione, se la
vecchia non glie ne avesse attestata la realtà. Le
domandò dunque se era ben sicura che qualcuno
non si fosse introdotto segretamente colà: essa le
rispose che le chiavi non erano mai uscite dalle
sue mani, e facendo spesso la ronda, aveva più volte
esaminata quella porta, e trovatala sempre chiusa.
« È dunque impossibile, » soggiunse ella, « che
nessuno siasi introdotto in quelle stanze, e quando
avessero potuto farlo, com'è probabile che abbiano
scelto d'andar a dormire in un luogo così freddo
e solitario! »
Emilia le fece osservare che la loro gita notturna
poteva essere stata spiata; che forse qualcuno, per
burla, le aveva seguite coll'intenzione di far loro
paura, e che, mentre esaminavano il gabinetto, erasi
nascosto nel letto. Dorotea convenne da principio
che la cosa era possibile, ma si rammentò quindi
che, entrando, aveva per precauzione levata la chiave
della prima porta, e chiusala di dentro. Non eravi[40]
dunque potuto penetrare alcuno, e Dorotea affermò
che il fantasma veduto non aveva nulla d'umano,
ed era una spaventevole apparizione.
Emilia era molto commossa; di qualunque natura
fosse quell'apparizione, umana o soprannaturale, il
destino della marchesa era una verità incontrastabile.
L'inesplicabile incidente accaduto nel luogo
istesso dov'era morta, incusse ad Emilia un timore
superstizioso. Scongiurò Dorotea di non parlare di
quel caso a chicchessia, perchè il conte non fosse
importunato da rapporti che avrebbero potuto spargere
l'allarme in tutta la casa.
La vecchia acconsentì, ma si rammentò allora
che l'appartamento era rimasto aperto, e non si
sentì il coraggio di tornar sola a chiuderlo. Emilia,
vincendo i suoi timori, le offrì di accompagnarla
sino in fondo alla scala, ed ivi aspettarla. Rianimata
da tale compiacenza, Dorotea andò nel modo proposto,
e si contentò di chiuder la prima porta e
poi raggiungere Emilia. Avanzandosi lungo l'andito
che conduceva nella sala, udirono sospiri e lamenti
che sembravano venire dal salone medesimo. Emilia
ascoltò attenta, e riconobbe subito la voce di
Annetta, che, spaventata dal racconto fattole dalle
due serve, e non credendosi sicura che vicino alla
padrona, andava a rifugiarsi da lei. Emilia cercò
indarno di tranquillarla; ebbe pietà del suo spavento,
ed acconsentì a lasciarla dormire nella sua
camera.
CAPITOLO XLIII
Gli ordini precisi dati ad Annetta da Emilia, di
tacere, cioè, sull'occorso, non produssero verun effetto.
Il soggetto del di lei terrore aveva sparso un
allarme così vivo tra la servitù, che tutti affermavano
allora di aver sentito nel castello i rumori più
straordinari. Il conte ne fu ben presto informato, e[41]
gli disser che la parte del nord era indubbitatamente
frequentata dagli spiriti. Ne rise in principio, e mise
la cosa in ridicolo, ma accorgendosi quindi che produceva
confusione nel castello, proibì di parlarne
sotto pena di castigo. L'arrivo di qualche amico lo
distrasse intieramente, ed i suoi medesimi servi non
avean tempo di parlare di quest'affare se non dopo
aver cenato. Riuniti allora nel tinello, raccontavano
del continuo istorie di morti, di maghi, di spiriti e
d'ombre fino al punto che non ardivano più alzar
gli occhi, tremavano tutti al più piccolo rumore, e
ricusavano di andar soli in qualunque luogo della
casa.
Annetta si distingueva raccontando non solo i
prodigi, ond'era stata testimone, ma anche tutto ciò
che aveva immaginato nel recinto del castello di
Udolfo. Non obliava la strana scomparsa della signora
Laurentini, che faceva una forte impressione
sull'animo degli ascoltanti. Annetta avrebbe anche
chiacchierato de' sospetti concepiti su Montoni, se
il prudente Lodovico, allora al servizio di Villefort,
non l'avesse sempre a tal punto interrotta.
Tra i forestieri venuti a visitare il conte nel suo
castello, eranvi il barone di Santa-Fè suo amico, e
il di lui figlio, cavaliere amabilissimo e sensibile.
Egli aveva conosciuto Bianca a Parigi l'anno precedente,
e concepita per lei una vera passione. L'antica
amicizia del conte per suo padre, e le reciproche
convenienze di cotesto parentado, aveanlo fatto
internamente desiderare al conte. Ma trovando la
figlia ancor troppo giovine per fissare la scelta della
sua vita, e volendo d'altronde provar la costanza del
cavaliere, aveva differito di approvare quest'unione,
senza però toglierne la speranza. Or il giovine veniva
col barone suo padre a reclamare il premio
della sua perseveranza; il conte acconsentì, e Bianca
non vi si oppose.
Il castello, così bene abitato, divenne ridente e[42]
magnifico. Il casino sulla riva del mare era spessissimo
visitato da tutta la compagnia, che vi cenava
quasi sempre quando permettevalo il tempo,
e la sera finiva regolarmente con un'accademia di
musica. Il conte e la contessa erano buoni filarmonici.
Enrico, il giovine Santa-Fè, Bianca ed Emilia
avevano tutti bella voce, ed il gusto suppliva alla
mancanza del metodo. Parecchi suonatori di corni
e strumenti a fiato, posti nel bosco, rispondevano
con soavi armonie a quella che partiva dal casino.
In ogni altro tempo quei luoghi sarebbero stati
deliziosi per Emilia, ma troppo oppressa allora dalla
sua malinconia, trovava che nessun divertimento poteva
riuscire a distrarla, e spesso l'interessantissima
melodia di quelle accademie accresceva invece la sua
tristezza. Preferiva perciò di passeggiar sola ne' boschi
circostanti. La calma che vi regnava influiva
sul suo cuore, e non tornava al castello se non costrettavi
dall'assoluta oscurità. Una sera vi si trattenne
più del solito: assisa su d'un masso, vide
la luna sorgere sull'orizzonte a poco a poco, e rivestir
successivamente della sua debole luce il mare,
il castello ed il convento di Santa Chiara poco distante.
Pensierosa, contemplava e meditava, quando
d'improvviso una voce e la musica, già udita a
mezzanotte, venne a colpirle l'orecchio. Il sentimento
che provò fu un misto di sorpresa e terrore,
considerando il suo isolamento. La musica si avvicinò;
si sarebbe alzata per fuggire, ma i suoni parevan
venire dalla parte per cui doveva passare, e
tutta tremante ristette ad aspettar gli eventi; d'improvviso
la musica cessò, e vide uscir dal bosco e
passare una figura molto vicino a lei, ma così ratto,
e l'emozione di lei fu si grande, che non distinse
quasi nulla. Finalmente tornò al castello, risoluta
di non venir più sola e così tardi in quel luogo.
Questo leggiero avvenimento produsse grand'impressione
sul di lei spirito. Rientrata in camera, si[43]
rammentò sì bene l'altra circostanza spaventosa di
cui era stata testimone pochi di prima, che appena
ebbe coraggio di restar sola. Vegliò a lungo, ma
nessun rumore venendo a rinnovare i suoi timori,
andò a letto per cercar di gustare un po' di riposo.
Fu breve però; un chiasso spaventoso e singolare
parve sorgere dal corridoio: s'udirono gemiti
distinti; un corpo pesante urtò l'uscio che fu scosso
dalla violenza del colpo: essa chiamò per sapere
che fosse: non le fu risposto, ma ad intervalli udiva
cupi gemiti. Il terrore la privò sulle prime della
favella; ma quando intese strepito di passi nella
galleria, gridò più forte. I passi fermaronsi al di lei
uscio; ella distinse la voce di alcune fantesche, che
pareano troppo occupate per poter risponderle. Annetta
entrò a prender acqua, ed Emilia seppe allora
come una donna fosse svenuta; la fece portare in
camera per prestarle soccorso. Quando colei ebbe
ricuperato i sensi, affermò che, salendo le scale per
andar a dormire, aveva visto un fantasma sul secondo
ripiano. Essa tenea la lampada abbasso a
motivo dei gradini rovinati; sollevando gli occhi,
scorse lo spettro, il quale dapprima immobile in un
cantuccio, erasi poscia cacciato sulla scala, scomparendo
alla porta dell'appartamento visitato ultimamente
da Emilia. Un suono lugubre era susseguito
a questo prodigio.
La fante tornò a scendere e correndo spaventata,
era andata a cadere con un grido dinanzi all'uscio
d'Emilia.
« Il diavolo senza dubbio, » disse Dorotea, accorsa
al chiasso, « ha preso una chiave di quell'appartamento;
non può essere altri; ho chiusa la
porta io stessa. »
La fanciulla sgridò la donna dolcemente, e cercò
di farla vergognare del suo spavento. La fante persistè
a sostenere d'aver visto una vera apparizione.
Tutte le altre donne accompagnaronla alla di lei[44]
stanza, tranne Dorotea, che Emilia trattenne seco.
La vecchia, tutta paurosa, narrolle antiche circostanze
in appoggio del caso occorso. Di tal novero
era una consimile apparizione da lei vista nel medesimo
sito; tal rimembranza aveala fatta esitare
prima di salir la scala, ed avea accresciuta la di lei
ripugnanza ad aprir l'appartamento del nord. Emilia
s'astenne dall'esternare la sua opinione intorno
a ciò; ma ascoltò attentamente la ciarliera, e ne
risentì vie maggiore inquietudine.
Da quella notte il terrore de' servi crebbe al punto,
che gran parte di essi risolse d'accommiatarsi. Se
il conte prestava fede ai loro timori, aveva cura di
dissimularlo, e volendo prevenire gl'inconvenienti
che lo minacciavano, impiegava il ridicolo ed i ragionamenti
per distruggere quei timori e quegli
spaventi soprannaturali. Nondimeno, la paura aveva
reso tutti gli spiriti ribelli alla ragione. Lodovico
scelse quel momento per provare al conte il suo
coraggio e la riconoscenza pe' di lui buoni trattamenti.
Si offrì di passare una notte nella parte del
castello, cui pretendevano abitata dagli spiriti, ch'egli
assicurava di non temere; e se fosse comparso
qualche essere vivente, disse che avrebbe fatto vedere
che nol temea egualmente.
Il conte riflettè alla proposta; i domestici che
lo udirono si guardarono l'un l'altro muti per la
sorpresa e la paura. Annetta, spaventata per Lodovico,
impiegò lagrime e preghiere per dissuaderlo
da tale disegno.
« Tu sei un bravo giovane, » disse il conte sorridendo;
« pensa bene alla tua impresa prima di
accingerviti, ma se vi persisti, accetto la tua offerta,
e la tua intrepidezza sarà generosamente ricompensata.
— Eccellenza, » rispose Lodovico, « io non desidero
ricompense, ma la vostra approvazione. Vostra
eccellenza ha già avuto molta bontà per me.[45]
Desidero soltanto aver qualche arme per difendermi
in caso di bisogno.
— Una spada non potrà difenderti contro gli
spiriti, » disse ironicamente il conte, guardando i
servi; « essi non temono nè porte, nè catenacci:
un fantasma, voi lo sapete, passa tanto dal buco
d'una serratura, come da una porta aperta.
— Datemi una spada, signor conte, » disse Lodovico,
« ed io m'incarico di cacciare nel mar Rosso
tutti gli spiriti che volessero attaccarmi.
— Ebbene, » rispose il conte, « avrai una spada,
e di più una buona cena. I tuoi camerati avranno
forse il coraggio di restare ancora per istanotte
nel castello: certo è che almeno per questa notte
il tuo ardire attirerà su di te tutti i malefizi dello
spettro. »
Una estrema curiosità contrastò allora colla paura
nello spirito degli uditori, i quali risolsero d'aspettare
l'esito della temeraria impresa del loro collega.
CAPITOLO XLIV
Il conte avea ordinato che l'appartamento del nord
fosse aperto e preparato, ma Dorotea, rammentandosi
quanto ci aveva veduto, non ebbe coraggio di
obbedire: nessuno dei servitori volle prestarvisi, ed
esso restò chiuso fino al momento in cui Lodovico
doveva entrarvi, momento aspettato da tutti con
impazienza.
Dopo cena, il giovane seguì il conte nel suo gabinetto,
e vi rimasero quasi mezz'ora; nell'uscire,
il conte gli consegnò una spada. « Questa ha servito
nelle guerre mortali, » diss'egli ridendo; « tu
ne farai senza dubbio uso onorevole in una mischia
affatto spirituale; e domattina sentirò con piacere
che non resta più un solo fantasma nel castello. »
Lodovico ricevè la spada con un saluto rispettoso,
e rispose: « Sarete obbedito, signor conte, e m'impegno[46]
da ora in avanti che veruno spettro non
turbi ulteriormente il riposo di questa dimora. »
Recaronsi nel salotto, ove gli ospiti del conte
aspettavano per accompagnarlo all'appartamento del
nord. Dorotea consegnò le chiavi a Lodovico, e
s'incamminò a quella volta in compagnia della maggior
parte degli abitanti. Giunti a' piè della scala,
parecchi servitori, impauriti, non vollero andar più
innanzi, e gli altri la salirono sino al pianerottolo.
Lodovico mise la chiave nella serratura, ed intanto
tutti lo guardavano con tanta curiosità, come se
fosse occupato di qualche operazione magica; e
siccome egli non era pratico di quella serratura,
Dorotea l'aprì pian piano; ma quando i di lei
sguardi ebbero penetrato nell'interno oscuro della
stanza, mise un grido e si ritirò. A questo segnale
d'allarme, la maggior parte degli spettatori fuggirono
a precipizio giù per la scala; il conte, Enrico
e Lodovico, rimasti soli, entrarono nell'appartamento;
Lodovico teneva in mano la spada nuda,
il conte portava una lampada, ed Enrico un paniere
pieno di provvisioni pel bravo avventuriere. Traversando
quella fila di stanze, il conte restò sorpreso
del loro stato rovinoso, ed ordinò al servo di dire
il giorno dopo a Dorotea, d'aprire tutte quelle
finestre, volendo far restaurare quel magnifico appartamento;
indi gli chiese dove facesse conto di stabilirsi.
« Dicono esserci un letto in una stanza; è là che
voglio dormire, se per caso mi sentissi stanco di
vegliare. »
Giunti alla camera indicata, v'entrarono tutti: il
conte fu colpito nel vederne l'aspetto funebre; accostossi
al letto commosso, e trovandolo coperto col
panno di velluto nero, sclamò: « Che cosa significa
ciò? — Mi fu detto che la marchesa di Villeroy è
morta in questo luogo stesso, e vi giacque sino all'ora
del seppellimento. Quel velluto ricopriva per
certo il feretro. »[47]
Il conte non rispose nulla, ma divenne pensieroso;
voltossi quindi verso Lodovico, gli domandò con
serietà se realmente avrebbe coraggio di restar lì
solo tutta la notte. « Se hai paura, » soggiunse,
« non arrossire di confessarmelo; io saprò scioglierti
dal tuo impegno senza esporti ai sarcasmi
degli altri. »
L'orgoglio e qualche poco di paura parevan tenere
perplessa l'anima di Lodovico. Finalmente l'orgoglio
trionfò e rispose:
« No, signore, no, finirò l'impresa che ho cominciata,
e sono commosso della vostra attenzione. Accenderò
un bel fuoco nel camino, e spero passare
bene il tempo colle provvisioni del paniere.
— Benissimo, ma come farai a difenderti dalla
noia, se tu non potessi dormire?
— Quando sarò stanco, eccellenza, non avrò
paura di dormire; ma in tutti i casi ho meco un
libro che mi divertirà.
— Spero che non sarai sturbato; ma se nel corso
della notte tu potessi concepire qualche serio timore,
vieni a trovarmi nel mio appartamento. Confido
troppo nel tuo giudizio e coraggio, per temere che
tu possa spaventarti per qualche frivolezza. Domani
io t'avrò l'obbligo d'un servigio importante.
Si aprirà l'appartamento, e tutta la servitù sarà
convinta della sua stoltezza. Buona notte, Lodovico;
vieni a trovarmi di buon'ora, e ricordati ciò che ti
ho detto.
— Sì, signore, me ne rammenterò. Buona notte,
eccellenza; permettete che vi faccia lume. »
Accompagnò il conte ed Enrico fino all'ultima
porta, e siccome qualche servitore, nel fuggire,
aveva lasciato un lume sul pianerottolo, il contino
lo prese, e augurò la buona notte a Lodovico, il
quale rispose con molto rispetto, e chiuse la porta.
Cammin facendo per tornare nella camera da letto,
esaminò con iscrupolosa cura tutte le stanze per le[48]
quali doveva passare, temendo vi si potesse essere
nascosto qualcuno per ispaventarlo. Non vi trovò
nessuno. Lasciò aperti tutti gli usci, e giunse nel
salone, la cui muta oscurità lo fece gelare. Voltandosi
indietro a guardare la lunga fila di stanze
percorse, nel procedere innanzi scorse un lume e la
propria figura riflettuti in uno specchio; rabbrividì.
Altri oggetti pingeansivi oscuramente; non si fermò
a considerarli; avanzandosi ratto nella camera da
letto, vide la porta dell'oratorio. L'aprì, tutto era
tranquillo. Colpito alla vista del ritratto della defunta,
lo considerò lungo tempo con sorpresa ed
ammirazione. Esaminato quindi il luogo, rientrò in
camera, ed accese un buon fuoco, la cui vivida
fiamma rianimò il di lui spirito, che cominciava a
indebolirsi per l'oscurità e pel silenzio. Non si sentiva
allora se non il vento soffiare attraverso le finestre,
prese una sedia trascinò un tavolino presso
al fuoco, cavò una bottiglia di vino con alcune provvisioni
dal paniere, e cominciò a mangiare. Allorchè
ebbe cenato, pose la spada sul tavolino, e non essendo
disposto a dormire, trasse di tasca il libro
ond'aveva parlato. Era una raccolta di antiche novelle
provenzali. Attizzò il fuoco, smoccolò la lampada,
e si mise a leggere. La novella che scelse
attirò in breve tutta la sua attenzione........
Il conte frattanto era tornato nel tinello ove tutti
l'aspettavano. Ciascuno era fuggito al grido penetrante
di Dorotea, e gli fecero mille domande sullo
stato dell'appartamento. Il conte li beffò per quella
fuga precipitata e la superstiziosa loro debolezza.
Quando la compagnia si fu separata, il conte si
ritirò nel suo quartiere. La rimembranza delle scene
onde la casa era stata il teatro, l'affannava singolarmente.
Alla fine fu scosso da' suoi pensieri dal
suono d'una musica che intese vicino alla finestra.
« Cos'è quest'armonia? » diss'egli al suo cameriere;
« chi suona e canta a quest'ora sì tarda? »[49]
Pietro rispose, quella musica aggirarsi spesso intorno
al castello verso mezzanotte, e credere averla
udita anch'egli altre volte.
« Che bella voce! » soggiunse il conte; « che
suono melodioso è mai questo! sembra qualcosa di
sovrumano. Ma ora si allontana... »
E fatto cenno al servo di ritirarsi, stette assorto
un pezzo in dubbiosi pensieri.
Lodovico intanto, nella sua camera isolata, sentiva
tratto tratto il rumore lontano di una porta
che si chiudeva. L'orologio del salone, da cui era
molto distante, suonò dodici colpi. « È mezzanotte, »
diss'egli, e guardò per la camera. Il fuoco
era quasi spento; l'alimentò con nuove legna, bevve
un buon bicchier di vino, e avvicinandosi sempre
più al caminetto, procurò di esser sordo al rumorio
del vento che fischiava da tutte le parti. Infine, per
resistere alla malinconia che gradatamente s'impadroniva
di lui, riprese la sua lettura.
Dopo qualche tempo, depose il libro avendo sonno;
accomodatosi alla meglio sulla sedia, si addormentò.
Gli parve vedere in sogno la camera, ove si trovava
realmente; due o tre volte si svegliò dal sonno
leggero, sembrandogli scorgere la faccia d'un uomo
appoggiata alla sua sedia. Quest'idea fece su di
lui tanta impressione, che, alzando gli occhi, gli
parve quasi di vederne altri che si fissassero nei
suoi. Si alzò e andò a fare una visita scrupolosa
della camera, prima di convincersi appieno non esservi
nessuno dietro la sedia.
CAPITOLO XLV
Il conte dormì pochissimo, si alzò di buon'ora,
e premuroso di parlar con Lodovico, corse all'appartamento
del nord. La prima porta era chiusa di
dentro, e fu perciò costretto a batter forte, ma nè[50]
i suoi colpi, nè la sua voce vennero ascoltati. Considerando
la distanza che separava quella porta dalla
camera da letto, credè che Lodovico, stanco di vegliare,
si fosse profondamente addormentato. Poco
sorpreso adunque di non ricevere veruna risposta,
si ritirò e andò a passeggiare pe' boschi.
Il tempo era oscuro; i fiochi raggi del sole combattevano
i vapori che sorgevano dal mare, ricoprendo
la cima degli alberi dalle frondi gialleggianti
per la stagione autunnale. La bufera era calmata,
ma l'onde, sempre commosse, muggivano tuttora.
Emilia erasi egualmente alzata di buon'ora, ed
aveva diretto i passi verso il promontorio alpestre
dal quale scoprivasi l'Oceano. Gli avvenimenti del
castello occupavano il suo spirito, e Valancourt formava
eziandio l'oggetto de' suoi tristi pensieri; non
poteva esserle ancora indifferente. La sua ragione le
rimproverava sempre una tenerezza che sopravviveva
nel suo cuore alla stima; rammentavasi l'espressione
de' suoi sguardi allorchè l'avea abbandonato,
l'accento con cui le disse addio, e se qualche
caso aumentava l'energia de' suoi pensieri, struggevasi
in amare lacrime. Giunta all'antica torre, si
riposò su di un gradino mezzo rovinato, osservando
le onde che venivano lentamente a frangersi sulla
riva, cospargendo gli scogli dalla bianca loro spuma.
Il monotono loro fragore, e le grige nubi che velavano
il cielo, rendeano la scena più misteriosa ed
analoga allo stato del suo cuore. Tale stato le divenne
troppo penoso; si alzò, e traversando una
parte delle ruine, guardando a caso su d'un muro
vide alcune parole malamente scolpite colla punta
d'un coltello; le esaminò, e riconobbe il carattere
di Valancourt: le lesse tremando.
Chiaro dunque appariva che Valancourt aveva visitato
quella torre, ed era anzi probabile che fosse
stato nella notte precedente ch'era stata burrascosa,
e quei versi descrivevano un naufragio: inoltre parea[51]
che non avesse abbandonato quelle rovine se non
da poco tempo, chè il sole essendo sorto allora,
non poteva avere scolpiti quei caratteri all'oscuro.
Era dunque probabilissimo che Valancourt fosse
nelle vicinanze.
Mentre tutte queste idee si presentavano con rapidità
all'immaginazione di Emilia, tante emozioni
la combatterono, che ne fu quasi oppressa; ma ebbe
la prudenza di sfuggire un incontro pericoloso alla
sua virtù, e s'incamminò in fretta alla volta del
castello. Ricordandosi allora della musica già sentita
e della figura passatale così vicino quella sera,
fu quasi tentata di credere nella sua agitazione che
fosse lo stesso Valancourt. Fatti pochi passi, incontrò
il conte, che per distrarla dall'afflizione in cui la
vide, le fece conoscere la risposta dell'avvocato di
Aix, suo amico, a proposito della cessione dei beni
della signora Montoni.
Ritornati al castello, Emilia si ritirò nella sua camera,
ed il conte andò all'appartamento del nord.
La porta n'era peranco chiusa. Il conte chiamò
forte Lodovico, senza ricevere risposta. Sorpreso di
tale silenzio, cominciò a temere non fosse accaduta
qualche disgrazia all'infelice, o che la paura di
qualche oggetto immaginario l'avesse fatto svenire.
Cercò alcuni servitori, ai quali chiese se avessero
veduto Lodovico, ma tutti risposero che, dalla sera
precedente, nessuno erasi più avvicinato all'appartamento
del nord.
« Egli dorme profondamente, » disse il conte,
« è così lontano dalla porta d'ingresso, che non può
sentire; bisognerà gettarla a terra. Prendete una
leva e seguitemi. »
I servi rimasero muti e confusi; nessuno si movea.
Dorotea parlò di un'altra porta che dalla galleria
dello scalone metteva nell'anticamera del salotto,
ed era per conseguenza assai più vicina alla
camera da letto. Il conte vi andò, ma tutti i suoi[52]
sforzi furono inutili; per cui la fece atterrare. Esso
entrò pel primo; Enrico lo seguì co' più coraggiosi,
e gli altri aspettarono sulla scala. Regnava in quel
luogo il più cupo silenzio. Entrato nel salotto, il
conte chiamò Lodovico, ma, non ricevendo risposta,
aprì egli stesso, ed entrò. Il silenzio assoluto regnante
colà confermò i suoi timori; Enrico fece
aprire le imposte d'una finestra, ma Lodovico non
fu trovato, malgrado le più esatte ricerche nell'oratorio,
nel letto, ed in tutte le altre stanze. Tutte le
porte che comunicavano al di fuori, erano chiuse
internamente come pure tutte le finestre. Lo stupore
del conte fu inesprimibile; rientrò nella camera,
ove tutto era al suo luogo. La spada stava
sul tavolino, colla lucerna, un libro ed un mezzo
bicchier di vino. Accanto al caminetto eravi il paniere
con un resto di provvisioni, e legna col fuoco
spento. Il conte parlava poco, ma il di lui silenzio
esprimeva molto. Pareva che Lodovico avesse dovuto
fuggire per qualche uscio segreto ed ignoto. Il
conte non poteva risolversi ad ammettere una causa
soprannaturale; e poi, quando anche vi fosse, quest'uscio
segreto, come spiegare i motivi della sua
fuga?
Villefort aiutò egli stesso a staccare il parato di
tutte le stanze, per iscuoprire se nascondeva qualche
apertura, ma tutto indarno. Egli si ritirò dunque
dopo aver chiuso il salotto, e messasene la chiave
in tasca. Diede ordini pressanti perchè si cercasse
Lodovico fino ne' dintorni, e si ritirò con Enrico
nel suo gabinetto, ove restarono un'ora circa. Qualunque
fosse stato il soggetto della loro conferenza,
Enrico da allora perdè tutto il brio, e diveniva
grave e riservato allorchè trattavasi il soggetto che
allarmava tutta la famiglia. La paura dei servi crebbe
al punto che la maggior parte di essi partì immediatamente,
e gli altri restarono finchè il conte non
li avesse surrogati. Le ricerche più esatte sul destino[53]
di Lodovico furono inutili. Dopo molti giorni
d'indagini, la povera Annetta si abbandonò alla disperazione,
e la sorpresa generale fu al colmo.
Emilia, il cui spirito era stato vivamente commosso
dalla strana fine della marchesa, e dalla misteriosa
relazione ch'essa immaginava aver esistito
fra lei e Sant'Aubert, era colpita in ispecie da un
caso sì straordinario. Era inoltre afflittissima della
perdita di Lodovico, la cui probità, fedeltà ed i
servigi meritavano tutta la sua stima e riconoscenza.
Desiderava trovarsi nella placida solitudine del suo
convento; ma tutte le volte che ne parlava al conte,
questi ne la dissuadea teneramente; ella sentiva per
lui l'affetto, l'ammirazione ed il rispetto di una
figlia; e Dorotea consentì alfine ch'ella l'informasse
dell'apparizione da loro veduta nella camera da
letto della marchesa. In tutt'altro momento avrebbe
sorriso della di lei relazione, ma allora ascoltolla
sul serio, ed allorchè ebbe finito, le raccomandò il
più scrupoloso segreto. « Qualunque possa essere
la causa di questi avvenimenti singolari, » disse il
conte, « il tempo solo può spiegargli. Io veglierò
con cura su quanto accadrà nel castello, ed impiegherò
ogni mezzo per iscuoprire il destino di
Lodovico. Intanto usiamo prudenza e circospezione.
Andrò io stesso a passare una notte intiera
in quell'appartamento, ma fintantochè ne determini
l'istante, voglio che l'ignorino tutti. » La vecchia
Dorotea gli raccontò allora le particolarità della
morte della marchesa, che cagionarongli alta sorpresa.
La settimana seguente, tutti gli ospiti del conte
partirono, eccettuato il barone, suo figlio ed Emilia.
Quest'ultima ebbe l'imbarazzo di un'altra visita
del signor Dupont, che la fece risolvere a tornar
subito al convento. La gioia manifestata da
quell'uomo appassionato nel rivederla, la persuase
come non avesse rinunziato alla speranza di farla[54]
sua, Emilia però fu seco lui molto riservata. Il
conte lo ricevè con piacere, glielo presentò sorridendo,
e parve ritrarre buon augurio dall'impaccio
in cui la vedea.
Dupont però lo comprese meglio, perdè d'improvviso
ogni brio, e ricadde nel languore e nello
scoraggiamento.
Il giorno seguente, nondimeno, spiò l'occasione
di spiegare il motivo della sua visita, e rinnovò
la domanda. Questa dichiarazione fu ricevuta da
Emilia con visibile dispiacere: procurò di addolcirgli
la pena d'un secondo rifiuto, coll'assicurazione
reiterata della sua stima e amicizia. Più persuasa
che mai dell'inconvenienza d'un più lungo
soggiorno nel castello, andò subito ad informare il
conte della sua volontà di tornare al convento.
« Cara Emilia, » le diss'egli, « vedo con dispiacere
che incoraggite le illusioni pur troppo comuni
ai giovani cuori: il vostro ha ricevuto un
colpo violento, e credete non doverne guarir più.
Cercate di respingere queste idee; scacciate le illusioni,
e svegliatevi al sentimento del pericolo. »
Emilia sorrise forzatamente, e rispose: « So che
cosa volete dire, o signore, e son preparata a rispondervi.
Sento che il mio cuore non proverà mai
un secondo affetto, e perderei la speranza di ricuperare
ancora la pace e la tranquillità, se mi lasciassi
trascinare a nuovi impegni.
— So bene che voi sentite tutto questo, ma so
eziandio che il tempo indebolirà tale sentimento;
io posso parlarvene in proposito, e so compatire i
vostri affanni, chè conosco per esperienza cosa vuol
dire amare e piangere l'oggetto amato, » soggiunse
commosso assai; « giudicate dunque s'io debbo
premunir voi contro i terribili effetti di un'inclinazione,
che può influire su tutta la vita, e abbreviare
quegli anni che avrebbero potuto esser felici.
Il signor Dupont è uomo amabile e sensibile; vi[55]
adora da lungo tempo, la sua famiglia e le sue sostanze
non son suscettibili d'alcuna obiezione. Or
è superfluo aggiungere ch'io credo il signor Dupont
capace di fare la vostra felicità. Non piangete,
mia cara Emilia, » continuò il conte, prendendole
una mano; « io non voglio indurvi a sforzi violenti
per domare i vostri affetti, ma pregarvi solo a
star lontana da tutte le occasioni, che possono rammentarvi
gli oggetti della vostra tristezza, pensando
qualche volta all'infelice Dupont, senza condannarlo
a quello stato di disperazione da cui bramerei veder
guarita voi stessa.
— Ah! signore, » disse Emilia, versando un
torrente di lacrime, « non vorrei che i vostri voti
a tal proposito ingannassero il signor Dupont, colla
speranza ch'io possa accordargli la mia mano. Se
consulto il cuore, ciò non accadrà mai, ed io posso
sopportar tutto fuorchè l'idea che possa mai cambiar
di pensiero.
— Soffrite ch'io mi faccia interprete del vostro
cuore, » ripigliò il conte con un sorriso; « se mi
fate l'onore di seguire i miei consigli sul resto, vi
perdonerò l'incredulità sulla vostra condotta futura
verso Dupont. Non vi solleciterò di restar qui più
a lungo che non vi piaccia; ma astenendomi adesso
dall'oppormi alla vostra partenza, reclamo dalla
vostra amicizia qualche visita per l'avvenire. »
Emilia ringraziollo di tante prove d'affetto, e
promise di seguire i suoi consigli, uno solo eccettuato,
assicurandolo del piacere con cui profitterebbe
del suo grazioso invito, allorchè Dupont non fosse
più al castello.
Villefort, sorridendo di questa condizione, riprese:
« Vi acconsento, il monastero è qui vicino;
mia figlia ed io potremo venire spesso a vedervi.
Se però qualche volta ci permettessimo di associare
un compagno alla nostra passeggiata, ce lo perdonereste
voi? »[56]
Emilia parve afflitta, e non rispose.
« Ebbene, » soggiunse il conte, « non ne parliamo
più; vi domando perdono d'essermi spinto
troppo oltre. Vi supplico di credere che il mio
unico scopo è un vero interesse per la vostra felicità
e per quella del mio buon amico. »
La fanciulla scrisse alla badessa, e partì la sera
del giorno seguente. Dupont la vide partire con
rammarico; ma il conte cercò incoraggiarlo colla
speranza che col tempo essa gli sarebbe stata più
favorevole.
Emilia fu contentissima di trovarsi nel placido
ritiro del chiostro, ove la badessa le rinnovò le
maggiori prove di materna bontà, avvalorate dall'amicizia
veramente fraterna delle altre monache.
Sapevano esse di già l'avvenimento straordinario
del castello, e la stessa sera, dopo cena, pregarono
Emilia di raccontarne i dettagli; essa lo fece con
circospezione, estendendosi assai poco sulla scomparsa
di Lodovico. Tutte le ascoltanti convennero
unanimemente a darle una causa soprannaturale.
« Fu creduto per molto tempo, » disse una monaca
chiamata suor Francesca, « che il castello fosse
frequentato dagli spiriti, e rimasi assai sorpresa
quando seppi che il conte aveva la temerità di venire
ad abitarlo. Credo che l'antico proprietario
avesse qualche peccato da espiare. Speriamo che le
virtù dell'attual possessore possano preservarlo dal
castigo riserbato al primo, se realmente era reo.
— E di qual delitto lo sospettano? » disse una
certa Feydeau, educanda.
— Preghiamo per l'anima sua, » rispose una
monaca, la quale fin allora non avea aperto bocca.
« Se fu reo, il suo castigo quaggiù bastò ad espiarne
la colpa. »
Eravi nell'accento di tai detti un misto di serio
e di singolarità che colpì Emilia. L'educanda ripetè
l'inchiesta senza badare alle parole della monaca.[57]
« Non oso dire qual fu il suo delitto, » ripigliò
suor Francesca. « Intesi racconti strani a proposito
del marchese di Villeroy. Dicono, tra altri, che dopo
la morte della moglie partì da Blangy, e non vi
tornò più. A quell'epoca io non era qui, e non posso
dir nulla di preciso; la marchesa era morta già da
molto tempo, e la maggior parte delle nostre suore
non potrebbe dirne di più.
— Io lo potrei, » ripigliò la monaca che avea già
parlato, e che si chiamava suor Agnese.
— Voi sapete dunque, » disse l'educanda, « le
circostanze che vi fanno giudicare s'egli fosse colpevole
o no, e qual delitto gli venisse imputato?
— Sì, » rispose suor Agnese; « ma chi potrebbe
mai indagare i miei pensieri? Chi oserà mescolarsi
ne' miei segreti? Dio solo è il suo giudice, ed egli
è già al cospetto di quel giudice terribile.
— Vi domandava soltanto la vostra opinione, se
questo discorso vi spiace, lo cambieremo subito.
— Spiacevole! » rispose la monaca con affettazione.
« Noi parliamo a caso, senza pesare il valore
delle parole. Spiacevole! è un'espressione miserabile.
Io vado a pregare Iddio. »
Ed alzatasi sospirando, se ne andò.
« Che significa ciò? » chiese Emilia.
— Non è straordinario, » rispose suor Francesca;
« ella è spesso così. La sua ragione è alterata;
vaneggia.
— Povera donna! » soggiunse Emilia; « pregherò
Dio per lei.
— Le vostre preci in tal caso si uniranno alle
nostre, giacchè ne ha bisogno.
— Signora, » disse la Feydeau, « fatemi la grazia
di dirmi la vostra opinione sul marchese di
Villeroy. Lo strano avvenimento del castello ha
tanto eccitato la mia curiosità, che mi rende ardita
a tal segno: qual è dunque il delitto che gli viene
imputato?[58]
— Non si può, » rispose la badessa con aria
grave, « non si può avventurare veruna proposizione
sopra un soggetto così delicato. Quanto al
castigo di cui parla suor Agnese, non so che ne
abbia sofferto alcuno, ed avrà voluto di certo alludere
al crudele rimordimento di coscienza. Guardatevi
bene, figliuole, di provare questo terribile
castigo, ch'è il purgatorio della nostra vita. La
marchesa è stata un modello di virtù e rassegnazione,
ed il chiostro istesso non avrebbe arrossito
d'imitarla. La nostra chiesa ha ricevuto la di lei
spoglia mortale, e la sua anima è volata senza dubbio
in grembo al Creatore. Andiamo, figliuole, a
pregare per gl'infelici peccatori. »
Ella si alzò, e la seguirono tutte alla cappella.
CAPITOLO XLVI
Villefort ricevè alfine una lettera dell'avvocato
di Aix, che incoraggiava Emilia ad affrettare le sue
istanze pel ricupero dei beni della zia. Poco dopo
ricevè un simile avviso per parte di Quesnel; ma
il soccorso della legge non pareva più necessario,
giacchè la sola persona che avesse potuto opporsi
non esisteva più. Un amico di Quesnel, che risiedeva
a Venezia, aveagli mandato la relazione della
morte di Montoni, processato con Orsino, come supposto
complice dell'assassinio del nobile veneziano.
Orsino, trovato reo, fu giustiziato; Montoni ed i
suoi compagni, riconosciuti innocenti di quel delitto,
furono tutti rilasciati tranne il primo. Il senato
vide in lui un uomo pericolosissimo, e, per
diversi motivi, fu ritenuto in carcere. Vi morì in
modo molto segreto e sospettossi che il veleno
troncasse i suoi giorni. La persona dalla quale
Quesnel aveva ricevuto la notizia, meritava tutta la
fede. Egli diceva dunque a Emilia che bastava reclamare
i beni della zia per andarne al possesso,[59]
aggiungendo l'avrebbe aiutata a non trascurar veruna
formalità. L'affitto della valle volgea al suo
termine, per cui la consigliava di recarsi a Tolosa.
L'aumento del patrimonio d'Emilia aveva risvegliato
in Quesnel un'improvvisa tenerezza per la
nipote, e pareva avere più rispetto per una ricca
fanciulla, di quel che non avesse sentito compassione
per un'orfanella povera e senza amici.
Il piacere provato da Emilia a tale notizia, fu
mitigato dall'idea che colui, pel quale aveva desiderato
tanto di essere nell'agiatezza, non era più
degno di lei. Nonpertanto ringraziò il cielo del benefizio
inaspettato, e scrisse a Quesnel che sarebbe
stata a Tolosa pel tempo indicato.
Quando Villefort andò al convento in compagnia
di Bianca per far leggere ad Emilia il consulto dell'avvocato,
fu istruito delle informazioni di Quesnel,
e ne felicitò sinceramente la fanciulla. Tornò quindi
a riparlare delle sue inquietudini sulla sorte di Lodovico;
e disse che, volendo far cessare tutte le
ciarle e le paure, aveva l'intenzione decisa di passare
una notte intiera nell'appartamento del nord.
Emilia seriamente allarmata, unì le sue preghiere
a quelle di Bianca per distoglierlo da tale progetto.
« Che cos'ho io da temere? » rispos'egli; « non
credo aver a combattere nemici soprannaturali, e
quanto agli attacchi umani, sarò parato a riceverli;
d'altronde, vi prometto di non vegliar solo. Mio
figlio mi terrà compagnia; e se stanotte non isparirò
come Lodovico, domani saprete il risultato
della mia avventura. »
Il conte e Bianca, congedatisi poco dopo da Emilia,
tornarono al castello.
La sera, dopo cena, Villefort s'incamminò con
Enrico all'appartamento del nord, accompagnato
dal barone, da Dupont e da alcuni domestici, che
gli augurarono la buona notte alla porta. Tutto era
in quelle stanze nel medesimo stato come dopo la[60]
sparizione di Lodovico. Essi furon costretti ad accendere
il fuoco da sè, poichè nessuno si era arrischiato
a venire fin là. Esaminarono scrupolosamente
la camera e l'oratorio, e sedettero vicino al fuoco.
Deposero le spade sul tavolino, e parlarono a lungo
di varie cose. Enrico era spesso distratto e taciturno,
e fissava tratto tratto un occhio diffidente e curioso
sulle parti oscure della camera. Il conte cessò a poco
a poco di parlare, e, per sottrarsi a' pensieri che
l'assalivano, si mise a leggere un volume di Tacito,
ond'erasi prudentemente munito.
CAPITOLO XLVII
Il barone di Santa-Fè, inquieto per l'amico, non
avendo potuto chiuder occhio in tutta notte, erasi
alzato di buonissima ora. Andando per notizie passò
vicino al gabinetto del conte, ed udì camminare:
bussò, e venne lo stesso Villefort ad aprirgli: lieto
di vederlo sano e salvo, il barone non ebbe tempo
di osservarne la fisonomia straordinariamente grave;
le sue risposte riservate però ne lo resero ben
presto accorto. Il conte affettando di sorridere, rispose
evasivamente alle di lui interrogazioni; ma il
barone divenne serio e così pressante, che Villefort,
preso allora un tuono deciso di gravità, gli
disse:
« Amico caro, non mi domandate nulla di più, ve
ne scongiuro. Vi supplico inoltre di tacere su tutto
ciò che la mia condotta avvenire potrà avere di
sorprendente. Non ho difficoltà a dirvi che sono infelice,
e che il mio esperimento non mi fece trovare
Lodovico. Scusate la mia riserva sugl'incidenti
di stanotte.
— Ma dov'è Enrico? » disse il barone, sorpreso
e sconcertato dal rifiuto.
— È nelle sue stanze; mi farete il piacere a non
interrogarlo. Potete esser certo che il motivo che[61]
m'impone silenzio verso un amico di trent'anni,
non può derivare da un caso ordinario. La mia riserva,
in questo momento, non deve farvi dubitare
nè della stima, nè dell'amicizia mia. »
Troncato così il discorso, scesero per la colazione.
Il conte mosse incontro alla sua famiglia con aria
allegra: si schermì dalle molteplici interrogazioni
con risposte scherzose, ed assicurò, ridendo, l'appartamento
del nord non essere poi tanto da paventarsi,
se lui e suo figlio n'erano usciti sani
e salvi.
Enrico fu però meno felice ne' suoi sforzi per
dissimulare; la sua faccia portava ancora l'impronta
del terrore. Era muto e pensieroso, e quando voleva
rispondere, celiando, alle pressanti dimande
della Bearn, si vedeva bene il suo brio non esser
naturale.
Dopo pranzo, il conte, a tenore della sua promessa,
andò a trovare Emilia, la quale fu sorpresa
di trovare ne' suoi discorsi sugli appartamenti del
nord un misto di motteggio e riservatezza. Non
disse però nulla dell'avventura notturna; e quand'essa
ardì favellargliene, e chiedergli se si fosse
accorto che gli spiriti frequentassero l'appartamento,
si fece serio e rispose sorridendo:
« Cara Emilia, non vi guastate il cervello con simili
idee che v'insegnerebbero a trovar uno spettro
in tutte le stanze oscure. Ma credetemi, » soggiunse
con un lungo sospiro, « i morti non appariscono
per soggetti frivoli, nè all'unico scopo di
spaventare i paurosi. » Tacque, pensò alquanto, indi
ripigliò: « Ma via, non parliamone più. »
E s'accomiatò poco dopo. La fanciulla andò a
raggiungere le monache, e restò sorpresa nel sentire
come sapessero già l'avventura. Ammiravano esse
l'intrepidità del conte a passar la notte nell'istesso
appartamento ov'era sparito Lodovico, Emilia non
considerava con qual rapidità circola una notizia[62]
superstiziosa. Le monache l'avevano saputa dal giardiniere,
ed i loro sguardi dopo la scomparsa di Lodovico,
stavano sempre fissi sul castello di Blangy.
Emilia ascoltava tacendo tutte le loro dissertazioni
sulla condotta del conte. La maggior parte la
condannarono come temeraria e presuntuosa. Suor
Francesca sosteneva che il conte aveva mostrato
tutta la bravura di un'anima grande e virtuosa.
Non erasi macchiato di verun delitto, e non poteva
temere lo spirito maligno, avendo diritti alla protezione
di colui che comanda ai cattivi e protegge
l'innocenza.
« I colpevoli non possono reclamare questa protezione, »
disse suor Agnese sospirando e fissati gli
occhi in Emilia, la prese per la mano dicendole:
« Voi siete giovine, siete innocente, ma avete passioni
in cuore... veri serpenti. Essi dormono ora:
guardate che non si sveglino perchè vi ferirebbero
a morte. »
La fanciulla, colpita da tali parole, e dal modo
con cui venivano pronunziate, non potè trattener le
lacrime.
« Ah! è dunque vero! » sclamò allora suor
Agnese con tenerezza; « così giovine, ed essere infelice!
Noi siamo adunque sorelle? Esistono dunque
teneri rapporti fra i colpevoli? » Quindi, con occhi
smarriti: « No, non c'è più riposo! non più
pace! non più speranza. Le ho gustate per l'addietro;
allora poteva piangere. La mia sorte è decisa.
— C'è speranza per tutti quelli che si pentono
e si correggono, » disse suor Francesca.
— Per tutti, fuorchè per me, » replicò suor
Agnese. « Ma la testa mi bolle, credo esser malata.
Oh! perchè non posso cancellare il passato
dalla memoria! Quelle ombre che sorgono come
furie per tormentarmi, le veggo sempre in sogno;
quando mi sveglio mi stanno dinanzi! Ed ora le
vedo là, là... »[63]
Restò qualche tempo nell'atteggiamento dell'orrore:
i di lei sguardi erravano per la camera, come
se avessero seguito qualche oggetto. Una monaca
la prese dolcemente per la mano onde condurla
fuori. Suor Agnese si calmò, mise un sospiro, e
disse:
« Esse sono sparite, sì, sono sparite. Ho la febbre,
e non so quel ch'io dica. Talvolta mi trovo
in questo stato, ma presto passa. Fra poco starò
meglio. Addio, care sorelle; vo' ritirarmi in cella;
sovvengavi di me nelle vostre orazioni. »
Appena fu uscita, suor Francesca vedendo l'emozione
di Emilia, le disse:
« Non vi sorprenda. La nostra sorella ha spesso
la testa alterata, sebbene io non l'abbia mai veduta
in un delirio così grande come oggi, ma spero che
la solitudine e l'orazione la calmeranno.
— La sua coscienza pareva oppressa, » disse Emilia;
« sapete voi per qual motivo sia ridotta in uno
stato così deplorabile?
— Si, » rispose suor Francesca; poi soggiunse
sottovoce: « In questo momento non posso dirvi
nulla. Se volete saperne qualcosa, venite a trovarmi
in cella dopo cena. Ma rammentatevi che a mezzanotte
io devo andare al mattutino; venite dunque
o prima, o dopo. »
Emilia promise di esser puntuale; sopraggiunse
la badessa, e non si parlò più dell'infelice suor
Agnese.
Il conte tornando al castello, trovò Dupont in
un trasporto di disperazione, cagionatogli dal suo
amore per Emilia; amore nato in lui da troppo tempo
ond'esser vinto facilmente. Egli avea conosciuta la
fanciulla in Guascogna; il di lui padre, cui erasi
confidato, trovando ch'essa non era abbastanza ricca,
lo dissuase dal pensare a cercarla in isposa.
Finchè visse suo padre, gli fu obbediente, ma non
potendo vincere la sua passione, cercava di addolcirla[64]
visitando i luoghi frequentati da Emilia, ed
in ispecie la peschiera. Una volta o due aveale manifestato
i suoi sentimenti in versi, ma giammai
palesato il suo nome per non trasgredire agli ordini
paterni. Colà aveva cantato quella canzone patetica,
di cui Emilia era stata tanto sorpresa, e vi
aveva trovato a caso quel ritratto che servì ad alimentare
una passione troppo fatale al suo riposo.
Abbracciata la carriera militare, scese a guerreggiare
in Italia; intanto suo padre morì, ed egli
aveva riacquistata la libertà quando l'unico oggetto
che poteva rendergliela preziosa non poteva più
corrispondergli. Si è veduto in qual modo ritrovasse
Emilia, e come l'avesse aiutata a fuggire. Si è veduto
finalmente a qual debole speranza appoggiasse
il suo amore, e l'inutilità di tutti i di lui sforzi
per vincerlo. Il conte procurò consolarlo collo zelo
dell'amicizia, lusingandolo che forse la pazienza e
la perseveranza potrebbero un giorno cattivargli
l'affetto di Emilia.
Appena le monache si furono ritirate, la fanciulla,
recatasi da suor Francesca, la trovò inginocchiata
dinanzi ad un crocifisso; appena la vide, le fece
segno di entrare, ed Emilia aspettò in silenzio
ch'essa finisse la sua orazione, allora la monaca
si alzò, e postasi a sedere sul letticciuolo, così cominciò:
« La vostra curiosità, sorella cara, vi ha resa
esatta, ma non c'è nulla di notevole nell'istoria
di suor Agnese. Non ho voluto parlare di lei in
presenza delle altre, perchè non mi garba che conoscano
il suo delitto.
— La vostra confidenza mi onora, » disse Emilia,
« ma io non ne abuserò.
— Suor Agnese, » soggiunse la monaca, « è d'una
famiglia nobile; la dignità della sua fisonomia ve lo
avrà forse già fatto sospettare; ma non voglio disonorare
il suo nome rivelandolo. L'amore fu cagione[65]
delle sue follie e del suo delitto. Fu amata
da un gentiluomo poco ricco, e il di lei padre, da
quanto mi fu detto, avendola maritata ad un signore
ch'ella odiava, accelerò la sua perdita: obliò i suoi
doveri e la virtù, e profanò i voti del matrimonio;
questo delitto fu scoperto, ed il marito l'avrebbe
sacrificata alla sua vendetta, se il di lei padre non
avesse trovato il mezzo di sottrarla al suo potere.
Non ho mai potuto scoprire in qual modo potè
riuscirvi. La chiuse in questo convento, e la decise
a prendere il velo. Si fece spargere la voce ch'essa
era morta; il padre, per salvar la figlia, concorse a
confermare questa notizia, e fece credere perfino al
marito ch'era stata vittima del suo geloso furore.
Parmi che quest'istoria vi sorprenda, e per vero
non è comune, ma non è però senz'esempio. Ora
sapete tutto; aggiungerò soltanto che il contrasto
nel cuore di Agnese fra l'amore, i rimorsi ed il
sentimento dei doveri claustrali, cagionò alla perfine
il disordine delle sue idee. In principio era alteratissima;
prese in seguito una malinconia abituale,
ma da qualche tempo cade in accessi di delirio
più forti e frequenti del solito. »
Emilia fu commossa da quest'istoria, che le parve
aver molta analogia con quella della marchesa di
Villeroy, e sparse qualche lacrima sugli infortunii
d'entrambe. « È strano, » soggiunse ella, « ma
vi sono momenti in cui credo rammentarmi la sua
figura; io non ho per certo veduta mai suor Agnese
prima di entrare in questo convento; bisogna che
abbia visto in qualche parte una persona che le somigli,
eppure non ne ho nessuna memoria. » E rimase
sovrappensieri. Quando suonò mezzanotte, congedossi
e tornò nella sua camera.
Per molti giorni consecutivi, Emilia non vide nè
il conte, nè alcuno della sua famiglia; quand'egli
comparve, essa notò con pena l'eccesso della sua
agitazione.[66]
« Non ne posso più, » rispos'egli alle di lei
premurose interrogazioni; « voglio assentarmi per
qualche tempo, onde ricuperare un poco di tranquillità.
Mia figlia ed io accompagneremo il barone
di Santa-Fè al di lui castello, situato alle falde dei
Pirenei in Guascogna. Ho pensato, cara Emilia, che
se voi andaste alla vostra terra della valle si potrebbe
fare insieme parte del viaggio, ed io sarei
lietissimo di potervi scortare fin là. »
Essa lo ringraziò, facendogli conoscere il dispiacere
di non poter godere della sua compagnia, essendo
obbligata di trasferirsi prima a Tolosa. « Allorchè
sarete dal barone, » soggiunse, « vi troverete
poco distante da' miei beni. Mi lusingo pertanto
che non ripartirete di colà senza venire a trovarmi,
credendo inutile dirvi qual piacere io proverò a ricevervi
in compagnia di Bianca.
— Ne son convinto appieno, » rispose Villefort;
« ed approfitterò molto volentieri delle vostre gentili
profferte. »
E dopo i soliti complimenti, se ne partì.
Pochi giorni dopo, Emilia ricevè una lettera di
Quesnel che l'avvisava di esser già a Tolosa, che
la terra della valle era libera, e la pregava d'affrettarsi,
perchè i suoi affari lo chiamavano in
Guascogna. Essa non esitò più; andò a fare i saluti
al conte, che non era ancora partito, e si
mise in viaggio per Tolosa, in compagnia dell'infelice
Annetta, e d'un fido servo della famiglia del
conte.
CAPITOLO XLVIII
Emilia compì il viaggio felicemente. Avvicinandosi
a Tolosa, d'onde era partita colla zia, riflettè
sul tristo fine di lei, la quale, senza la sua imprudenza,
avrebbe potuto vivere ancora felice in
quella città. Anche Montoni le si presentava spesso[67]
al pensiero; parevale di vederlo ne' dì de' suoi trionfi,
ardito, intraprendente, altiero, vendicativo; ed
ora ecco che, scorsi pochi mesi, non aveva più il
potere, nè la volontà di nuocerle, nè esisteva nemmen
più; i di lui giorni erano svaniti come ombra
fugace...
Giunta a Tolosa, scese al palazzo di sua zia, ora
divenuto suo, ed invece d'incontrarvi Quesnel, vi
trovò una sua lettera, colla quale, oltre a parecchie
istruzioni circa i di lei beni, l'informava essere
stato obbligato di partire due giorni prima
per un affare importante. Il poco interesse che
Quesnel mostrava di rivederla, non occupò a lungo
i di lei pensieri, i quali si volsero alle persone vedute
in quel palazzo, e sopratutto all'imprudente
ed infelice signora Montoni; essa aveva fatta colazione
secolei la mattina della sua partenza per l'Italia.
Il salotto in cui ritrovavasi, rammentavale più
che mai tutto quel che aveva sofferto allora, e le
belle speranze di cui pascevasi a quell'epoca la zia.
Affacciandosi alla finestra del giardino, vide il viale
in cui la vigilia del suo viaggio erasi separata da
Valancourt. La di lui ansietà, il premuroso interesse
dimostrato per la sua felicità, le pressanti
sollecitazioni fattele, affinchè non si abbandonasse
all'autorità di Montoni, e la sincerità della sua tenerezza,
tutto tornavale in mente. Le parve quasi
impossibile che Valancourt si fosse reso indegno di
lei, dubitava di tutti i rapporti, e perfino delle di
lui proprie parole, confermanti quelle di Villefort.
Oppressa dalle idee destatele da quel viale, si ritirò
dalla finestra, e buttossi in una poltrona inabissata
nel più vivo dolore. Annetta, entrando di lì
a poco con qualche rinfresco, la trasse dai tristi
pensieri.
Dal dì dopo, serie occupazioni la divagarono dalla
sua malinconia; desiderava partir presto da Tolosa
per recarsi alla valle: prese informazione dello[68]
stato de' suoi possessi, e finì di regolarsi dietro le
istruzioni di Quesnel. Abbisognò d'un grande sforzo
per interessarsi in simili oggetti, ma se ne trovò ben
compensata, e si convinse ognor più che la continua
occupazione è il miglior rimedio contro la tristezza.
Tutta la giornata la consacrò agli affari; s'informò
degli abitanti più poveri dei dintorni, e distribuì
loro soccorsi copiosi. Andata a passeggiare in giardino,
si diresse verso il padiglione dov'erasi abboccata
con Valancourt. Il desiderio di rivedere un
luogo in cui era stata felice, vinse in lei l'estrema
ripugnanza di rinnovare la sua ambascia entrandovi;
ne spinse l'uscio: le finestre erano chiuse. Una
sedia stava presso al terrazzino, come se vi avesse
seduto qualcuno di recente. Il silenzio e la solitudine
del luogo secondavano in quel momento le sue
malinconiche disposizioni. Postasi a sedere presso
una finestra, si rammentò la scena dell'abboccamento
avuto quivi coll'amante. In quel luogo aveva
passati seco lui i più bei momenti, quando la zia
favoriva i loro progetti. « Come è mai possibile, »
sclamò Emilia, « che un cuore così sensibile abbia
potuto darsi in preda al vizio! » Si alzò, e volendo
sfuggire alle chimere d'una felicità che non esisteva
più, tornò verso casa. Traversando il viale,
vide da lungi una persona passeggiare lentamente
sotto gli alberi. Il crepuscolo non le permise di
distinguere chi fosse: credè da principio che fosse
un servitore, ma nell'avanzarsi egli volse la testa,
e le parve riconoscere Valancourt; ma tosto sparve
nel boschetto. Emilia, cogli occhi fissi al punto dove
era sparito, restò immobile e tremante. Infine, fattasi
animo, rientrò in casa, e temendo di lasciar
conoscere la sua alterazione, si astenne dal chiedere
chi fosse andato in giardino. Quando fu sola, si
rammentò la figura veduta; era sparita così presto,
che non aveva potuto distinguer nulla; pure
quell'improvvisa partenza le faceva credere che fosse[69]
Valancourt. Passò quella sera nell'incertezza e nei
continui sforzi che faceva per cancellarlo dalla memoria.
Vani tentativi: essa era agitata da mille contrari
affetti; temeva al tempo istesso che fosse lui,
oppure un'illusione. Voleva persuadersi che non desiderava
più di rivedere Valancourt, ed il suo cuore
con altrettanta costanza contraddiceva la ragione.
Passò una settimana prima d'arrischiarsi nuovamente
a passeggiare in giardino. Infine, non volendo
esporsi sola, si fece accompagnare da Annetta,
la quale, dopo un lungo silenzio, le disse:
« Signora Emilia, perchè mai siete così afflitta?
Parrebbe quasi che voi sapeste che cosa è accaduto.
— Cos'è accaduto? » rispose Emilia con voce
tremante.
— La scorsa notte v'era un ladro nel giardino.
— Un ladro! » sclamò Emilia con vivacità.
— Così suppongo; chè altrimenti chi poteva
essere?
— Dove l'hai tu veduto, Annetta? » rispose
Emilia guardandosi attorno.
— Non l'ho veduto io, ma Giovanni il giardiniere.
Era mezzanotte: Giovanni traversava il cortile
per andarsene a dormire, allorchè vide una
figura nel viale in faccia alla porta d'ingresso; indovinò
chi era, ed andò a prendere lo schioppo.
— Lo schioppo!
— Sì, signora. Tornò nel cortile per osservarlo
meglio; lo vide avanzare lentamente nel viale e
guardare attento il castello. Vedendo che il ladro
entrava nel cortile, Giovanni credè bene allora domandargli
chi fosse e cosa volesse, ma colui non
rispose e tornò indietro. Giovanni allora gli sparò
addosso. Gran Dio! Voi impallidite! Quell'uomo
non fu ucciso, ve ne assicuro; o almeno i suoi compagni
l'hanno portato via. Giovanni, di buon mattino,
andò a cercare il di lui cadavere, e non lo
trovò; non vide altro che una striscia di sangue;[70]
la seguì per iscuoprire da qual parte erano usciti,
ma essa si perdeva sull'erba, e... »
Emilia svenne, e sarebbe caduta in terra se Annetta
non l'avesse sostenuta, ed appoggiata ad un
sedile di pietra. Allorchè, dopo un lungo deliquio,
Emilia ebbe ripreso l'uso dei sensi, si fece condurre
al suo appartamento, non volendo udir altro per
timore di riconoscere che l'incognito era Valancourt.
Allorchè si credè abbastanza forte per sentir Giovanni,
lo mandò a cercare; egli non potè dare nessuno
schiarimento. Essa gli fece forti rimproveri
per aver tirato a palla, ed ordinò di fare esatte ricerche
per iscoprire chi fosse il ferito, ma indarno.
Più essa vi riflettea, e più convincevasi che fosse
Valancourt. Alfine l'inquietudine le cagionò un'ardentissima
febbre, che l'obbligò a letto per qualche
giorno.
La sua indisposizione e gli affari avevano già
prolungato il di lei soggiorno a Tolosa al di là del
tempo prefisso. La sua presenza ormai era necessaria
alla valle: ricevè una lettera da Bianca, nella
quale l'informava che il conte e lei, essendo tuttavia
presso il barone di Santa-Fè, si proponevano
al loro ritorno di andare a trovarla al di lei castello,
se vi fosse stata, aggiungendo che le avrebbero
fatta questa visita colla speranza di ricondurla
a Blangy.
Emilia, rispose all'amica che fra pochi giorni sarebbe
stata alla valle; fece in fretta i preparativi
di viaggio, e partì sforzandosi di credere che se
fosse accaduto qualche sinistro a Valancourt, ne
sarebbe stata in qualche modo informata.
CAPITOLO XLIX
Il dì dopo, Emilia arrivò al suo castello della valle
verso il tramonto. Alla malinconia inspiratale dal
luogo già abitato da' suoi genitori, e dove aveva[71]
passato anni felici, si unì tosto un tenero infinito
piacere. Il tempo aveva smussato i dardi del suo
dolore, ed allora rivedeva con compiacenza tutto
ciò che rinnovavale la memoria de' suoi cari; le
pareva che respirassero ancora in tutti quei luoghi
ove li aveva veduti, e sentiva che la valle era
per lei il più delizioso soggiorno. La prima stanza
che visitò fu la sua libreria, ove, seduta sulla poltrona
del padre, riflettè con rassegnazione al quadro
del passato.
Poco dopo il suo arrivo ricevè la visita del venerabile
Barreaux, che venne con premura ad accogliere
l'unica figlia del suo rispettabile vicino, in
una casa troppo lungamente derelitta. La presenza
del vecchio amico fu di grande conforto per Emilia;
la loro conversazione fu per amendue interessante,
e si comunicarono reciprocamente le circostanze
principali di quanto era accaduto. La mattina
di poi, la giovine andò a passeggiare nel giardino
gustando con tenera avidità il piacere di vagare
sotto quegli alberi, piantati dal diletto genitore,
ciascuno dei quali le ne rammentava la bontà i discorsi,
il sorriso. Prima sua cura fu d'informarsi
della vecchia Teresa, stata crudelmente licenziata
da Quesnel senza veruna pensione, quando affittò
quei beni. Avendo saputo ch'ella viveva in una casuccia
poco lontana, vi andò subito, e fu lieta di
trovarla sana ed allegra; essa si occupava a potar
viti, ed appena la povera vecchia riconobbe Emilia,
le saltò al collo, gridando:
« Ah! mia cara padroncina, io credeva di non
rivedervi più; ma ora son contenta. Sono stata
maltrattata assai; non aspettava certo nella mia età
di essere scacciata in tal guisa. »
Entrate nell'abituro rustico, ma decentissimo,
Emilia si congratulava seco lei di averla trovata in
quell'abitazione passabilmente bella nella sua sventura.
Teresa la ringraziò colle lagrime agli occhi.[72]
« Sì, signora, » le disse, « è anche troppo bella
per me, grazie all'amico caritatevole che mi ha
strappato dalla miseria. Voi eravate troppo lontana
per aiutarmi: egli mi ha messa qui, ed io credeva
quasi... ma non parliamone più.
— Chi è dunque quest'ottimo amico? chiunque ei
sia diverrà anche il mio.
— Ah! signora padrona, egli mi ha proibito di
palesare la sua buon'azione, e perciò non posso
nominarvelo. Ma come siete cambiata dacchè non
vi ho veduta! Siete pallida e magra! Ma, a proposito,
che fa adesso quel caro signor Valancourt?
Sta bene? »
Emilia, agitatissima, non le rispose; Teresa continuò:
« Dio lo ricolmi di benedizioni! Mia cara padrona,
di grazia, non siate meco così riservata; credete
voi ch'io non sappia ch'egli vi ama? Quando
foste partita, veniva sempre al castello. Com'era afflitto!
Voleva entrare in tutte le stanze, qualche
volta stava a sedere colle braccia incrociate sul
petto, senza dir verbo, tutto pensieroso. A un tratto
si scuoteva e mi parlava di voi! e con che fuoco,
con qual passione! Io lo amava appunto per questo...
Quando poi il signor Quesnel ebbe affittato
il castello, io credeva che il cavaliere impazzisse dal
dolore.
— Teresa, » disse Emilia con serietà, « non mi
nominate più il cavaliere.
— Non nominarvelo più! e per qual ragione! Io
amo il cavaliere quasi quanto voi.
— Potrebbe anche darsi che spendeste male il
vostro amore, » soggiunse Emilia cercando di nascondere
le lacrime; « ma, checchè ne sia, noi non
ci rivedremo mai più.
— Gran Dio, che ascolto! Il mio amore non può
esser più giusto. È lo stesso signor Valancourt che
mi regalò questa casa, e sorresse la mia vecchiaia[73]
dal momento che il signor Quesnel mi bandì da
casa vostra.
— Il cavalier Valancourt? » disse Emilia tutta
tremante.
— Sì, signora, lui appunto, sebbene gli abbia
promesso di non nominarlo. Fu egli che mi comprò
questa casetta, e mi diè il denaro necessario per
istabilirmivi. Ordinò inoltre al fattore di suo fratello
di pagarmi regolarmente trenta franchi al
mese. Ora, giudicate, signora padrona, se posso
dirne male? Temo solo che la sua generosità abbia
oltrepassato le sue forze; sono ormai tre mesi
che non ricevo nulla. Ma non piangete, signorina;
mi lusingo che non sarete meco in collera per avervi
raccontato i benefizi del cavaliere?
— In collera! » sclamò Emilia, e versava lagrime
in copia. « Quanto tempo è che non l'avete veduto?
— Oimè! non ne ho più avuta notizia dacchè
egli partì improvvisamente per la Linguadoca; veniva
allora da Parigi, e, come vi diceva poc'anzi,
son tre mesi che il fattore non mi manda la mia
pensione. Comincio a temere che gli sia accaduta
qualche disgrazia. Se non fossi così lontana da Estuvière,
e potessi camminare, sarei già andata ad informarmi
di lui. »
L'ansietà d'Emilia era divenuta insopportabile;
essa non poteva convenientemente mandare dal fratello
di Valancourt; ma pregò Teresa di far partire,
a nome suo però, un espresso per informarsi dal
fattore sul destino del cavaliere. Si fece promettere
dalla vecchia di non nominarla mai in questo affare,
e di non parlarne neppure al giovane. Teresa
trovò subito il mezzo di contentar la padrona. Emilia
le diè qualche denaro, e tornò al castello più
afflitta che mai: non poteva persuadersi che un
cuore benefico come quello di Valancourt si fosse
lordato di vizi, e sentivasi commossa dalla sua prova
di bontà per la povera Teresa.
[74]
CAPITOLO L
Nell'intervallo, il conte di Villefort e Bianca avevano
passato quindici giorni nel castello del barone
di Santa-Fè. Avevan fatte molte gite ne' Pirenei ed
ammiratene le bellezze. Il conte erasi separato dagli
amici con dispiacere, quantunque dovessero in
breve formare una sola famiglia, essendosi stabilito,
che il giovane Santa-Fè, il quale l'accompagnava in
Guascogna, avrebbe sposato Bianca appena giunti a
Blangy. La strada che andava alla valle era nella
parte più alpestre de' Pirenei ed impraticabile alle
carrozze. Il conte noleggiò muli per sè e per tutto
il suo seguito; prese due guide bene armate e pratiche
di quelle montagne, le quali vantavansi di conoscere
tutti i sentieri, non che la posizione delle
scarse capanne di pastori, presso le quali dovevano
passare.
Il conte partì di buon'ora coll'intenzione di passar
la notte in un'osteriuccia a mezza strada dalla
valle, di cui avevangli parlato le guide, e dove solevan
riposare i mulattieri spagnuoli.
Dopo una giornata d'ammirazione e di fatiche, i
viaggiatori trovaronsi in una valle coperta di boschi,
e circondata da alture scoscese. Avevano già
percorse molte leghe senza incontrare una sola abitazione,
e udendo solo tratto tratto i campanelli
degli armenti, quando intesero da lontano una musica
bizzarra, e videro sopra un'eminenza un gruppo
di montanari che ballavano allegramente. Il conte
si fermò per godere di quella festa campestre. Erano
contadini spagnuoli e francesi che abitavano in un
villaggio poco distante. Villefort sospirava pensando
che le grazie ed i piaceri innocenti fiorivano nella
solitudine, rifuggendo dalle città incivilite. Il sole
aveva già percorsa metà della sua carriera, ed i
viaggiatori, riflettendo che non avevan tempo da
perdere, si rimisero in cammino.[75]
Strada facendo, Bianca osservava in silenzio quelle
solitudini, sentiva il lene stormir degli abeti, ed a
misura che il sole scendeva all'occaso, sentivasi
colta da insolita malinconia. Domandò al padre,
quanto fosse ancor distante l'osteria, e se la strada
era sicura di notte. Il conte ripetè alle guide la
prima di queste due domande: n'ebbe risposta ambigua;
e soggiunsero che se la notte si avanzava,
sarebbe stato meglio fermarsi, finchè sorgesse la
luna. « Ma adesso non si può forse viaggiare con sicurezza? »
disse il conte. Le guide l'assicurarono
che non eravi nessun pericolo, ed andarono innanzi.
Bianca, tranquillata da tale risposta, si compiaceva
ad osservare i progressi della notte. Il giovine
Santa-Fè, la cui immaginazione, scevra da timore,
vedeva in ogni cosa oggetti d'ammirazione, faceva
osservare a Bianca i punti di vista più interessanti.
La notte diveniva più cupa, e negre nubi ne raddoppiavano
l'oscurità; le guide proposero di aspettare
il sorger della luna, aggiungendo che il tempo
minacciava. Guardando intorno per trovare un ricovero,
scorsero un oggetto sulla punta d'una rupe.
La curiosità li spinse ad andar a veder cosa fosse,
e quando furono a poca distanza scorsero una gran
croce piantata colà a mo' di monumento per attestare
ch'eravi stato commesso un omicidio. L'oscurità non
permise di leggerne l'iscrizione; ma le guide si
rammentarono allora esservi stata eretta in memoria
del conte Beliard, stato ucciso da una banda
di malfattori che infestavano i Pirenei qualche anno
addietro. Bianca fremè all'udir raccontare alcune
orribili particolarità sul destino delle sventurato
conte. Una delle guide le narrava con voce sommessa,
come se i suoi propri accenti gli facessero
paura. Mentre i viaggiatori ascoltavano quel racconto
cominciò a lampeggiare, laonde ripartirono tosto
in traccia di qualche ricovero. Tornati sulla strada,
le guide si misero a narrare molte istorie di rapine,[76]
e d'assassinii commessi in quei luoghi medesimi,
aggiungendo molte ciarle e millanterie sul
loro coraggio, e sul modo maraviglioso con cui
n'erano sfuggiti. La guida meglio armata cavò dalla
cintura una delle sue quattro pistole, e giurò che
quell'arme aveva purgata la terra in quell'istesso
anno da tre assassini. Sguainò quindi uno stile lunghissimo,
accingendosi a raccontare le prodezze in
cui aveva figurato; ma Santa-Fè, accortosi che
cotesto racconto affliggeva Bianca, cercò d'interromperlo.
Infine, minacciando il tempo ognor più,
rifugiaronsi in una grotta che scorsero appiè dei
dirupi al chiaror de' baleni. Una guida accese un
buon fuoco, e quella fiamma, insieme al riposo, fu
di gran sollievo ai viaggiatori.
I servi del conte trassero fuori alcune provvigioni,
ed imbandirono una buona cena. Dopo essersi
rifocillati, Santa-Fè ascese la rupe dirimpetto. Tutto
era tenebre, e nulla turbava in quel punto il silenzio
notturno, meno il mormorio del vento, il
rimbombo lontano dei tuoni e le voci della carovana.
Il giovine osservava il quadro che formavano i
viaggiatori sotto la grotta. La figura elegante di
Bianca contrastava colla maestà del conte, assiso
accanto a lei sopra una pietra. Gli abiti grotteschi
e le figure spiccate delle guide e dei servi situati
in fondo alla grotta, producevano un bellissimo effetto.
La luce della fiamma faceva parer pallida la
faccia dei circostanti, e scintillare le armi, imporporando
al contrario le foglie d'un castagno gigantesco,
che ombreggiava la grotta, e questa tinta si
confondeva gradatamente coll'oscurità del resto della
scena.
La luna spuntò alfine ad oriente; e mentre Santa-Fè
contemplava con ammirazione il suo disco atraverso
le nubi, fu scosso dalle voci delle guide
che lo chiamavano. Tornò subito alla grotta, e la
di lui presenza calmò Bianca ed il conte, inquieti
per la sua assenza.[77]
La burrasca che cominciava ad imperversare li
obbligò a trattenersi colà. Il conte in mezzo alla
figlia ed a Santa-Fè, procurava distrarre la prima,
parlandole dei fatti celebri avvenuti in que' monti.
D'improvviso, udirono latrare un cane. I viaggiatori
ascoltarono con qualche speranza; il vento soffiava
forte, e le guide parvero non dubitar più, a
quel segno, di essere vicini all'osteria che cercavano.
Il conte allora si decise a proseguire il suo cammino.
I viaggiatori, diretti dai latrati del cane, costeggiarono
nuovamente il precipizio, preceduti da una
torcia a vento, che le guide avevano per mero caso.
Si udiva il cane ora più, ora meno; talvolta cessava,
e le guide cercavano dirigersi verso quella
parte. Tutt'a un tratto il fracasso, spaventoso d'una
cascata giunse al loro orecchio, e trovaronsi in
faccia ad un burrone. Bianca scese dalla mula; il
conte e Santa-Fè fecero altrettanto, le guide andarono
in traccia di un ponte che potesse condurli
dalla parte opposta, dove chiaro appariva trovarsi
il cane; e confessarono alfine che avevano smarrita
la strada. Trovarono da ultimo un passaggio pericolosissimo
formato da due grossi abeti con rami
d'albero e terra sopra. Tutta la comitiva fremeva
all'idea di traversare un ponte di quella sorta. I
mulattieri nondimeno si disposero a passare con le
loro bestie. Bianca, tremante sull'orlo del torrente,
ascoltava il mormorio dell'acqua, che a quel debolissimo
chiaro di luna si vedeva precipitare dalle
rupi in mezzo ad abeti d'altezza smisurata, e inabissarsi
quindi in un'immensa voragine. Le povere
mule traversarono il ponte colla precauzione lor
dettata dall'istinto naturale. Quell'unica torcia, di
cui fino a quel momento non era stato conosciuto
il prezzo, fu pe' viaggiatori un tesoro inestimabile.
Bianca, fattasi coraggio, preceduta dall'amante, ed
appoggiata al braccio del padre, all'incerta luce
della torcia, toccò finalmente l'opposta riva.[78]
Nell'avanzarsi, le montagne si ristringevano, non
formando più che una gola angustissima, in fondo
alla quale scorreva con fragore il torrente. I viaggiatori
intanto si consolavano nell'udire del continuo
abbaiare il cane, che forse vegliava all'ingresso di
qualche capanna. Guardando attorno, videro in distanza
scintillare un lume a considerevole altezza.
Si vedeva esso e si perdeva a misura che i rami
degli alberi ne intercettavano o ne scoprivano i
raggi. I mulattieri chiamarono ad alta voce, ma
nessuno rispose. Finalmente, credendo di non poter
essere intesi a quella distanza, spararono una pistola.
Il rumore dell'esplosione, ripetuto dagli echi,
fu la sola risposta, cui successe assoluto silenzio. Il
lume però si vedeva più distintamente. Poco dopo
udirono un suono confuso di voci. I mulattieri
rinnovarono le loro grida; ma le voci tacquero, ed
il lume sparì.
Bianca soccombeva quasi all'inquietudine ed alla
stanchezza. Il conte e Santa-Fè andavano incoraggiandola,
allorchè distinsero una torre dalla parte
ov'erasi veduto il lume. Villefort, alla di lei situazione
ed a qualche altra circostanza, non dubitò
più non fosse una torre d'osservazione, e persuaso
che il lume venisse di là, procurò di rianimare la
figlia colla prospettiva dell'imminente riposo in un
luogo fortificato, ancorchè senza comodi.
« Nei Pirenei fu fabbricato un gran numero di
queste torri, » disse il conte, procurando distrarre
l'attenzione di Bianca. « Il metodo che s'impiega
per avvisare dell'avvicinarsi del nemico come voi
sapete, è di accendere un gran fuoco in cima di
esse. Gli antichi forti e le torri che difendono i
passi più importanti son custoditi con molta cura.
Alcune vennero abbandonate, e son divenute per
lo più l'abitazione pacifica di qualche cacciatore o
pastore. Dopo una giornata faticosa, la sera, accompagnati
dai loro fedeli cani, tornano presso un buon[79]
fuoco a gustare il frutto della caccia, od a contare
gli armenti. Qualche volta servono anche d'asilo
ai contrabbandieri, i quali fanno un immenso commercio
in queste montagne; talvolta si spediscono
truppe per distruggerli. Il coraggio disperato di
questi avventurieri li fa affrontare impavidamente
i soldati; ma non sono mai i primi ad attaccare,
quando possono farne a meno. I militari poi, i quali
non ignorano che, in simili scaramucce, il pericolo
è certo, e la gloria molto dubbia, non si danno
gran premura di combatterli. Ma ecco la torre che
cerchiamo. »
Bianca, osservando attentamente, si vide appiè
di una rupe sulla quale sorgea la torre. Non vi si
scorgeva alcun lume: i cani non latravano più, e
le guide cominciarono a dubitare di essersi nuovamente
ingannate. Al fioco chiaror della luna,
quasi sempre coperta dalle nubi, riconobbero che
quell'edifizio aveva un'estensione maggiore d'una
semplice torre d'osservazione. Tutta la difficoltà
dunque consisteva allora nel salire lassù, nè si vedeva
nessuna traccia di strada.
Le guide presero la torcia per iscuoprirne il
sentiero. Il conte, Bianca e Santa-Fè restarono appiè
della rupe, e gli uomini deliberarono in segreto,
se, trovandone anche la strada, la prudenza,
permetteva d'entrare in un edifizio che poteva anche
essere un covo d'assassini. Rifletterono nondimeno
che il loro seguito era numeroso e ben armato,
e calcolando il pericolo di passar la notte a cielo
scoperto, esposti alla pioggia ed alla burrasca, risolsero
cercare ad ogni costo di farsi ricevere.
Un grido delle guide fissò la loro attenzione. Un
servo tornò ad annunciare la scoperta della strada;
si affrettarono dunque raggiungerle salendo un angusto
sentiero in mezzo ai cespugli ed ai rovi. Dopo
molta fatica, ed anche con pericolo, giunsero sullo
spianato. Alcune torri rovinate, circondate da un[80]
grosso muro, si offersero ai loro sguardi. L'esteriore
di quell'edifizio annunziava un totale abbandono;
ma il conte, conservando tutta la sua prudenza,
disse sottovoce: « Camminate piano finchè
abbiamo esaminato questi luoghi. » Si trovarono
tosto in faccia ad un'immensa porta rovinata. Dopo
qualche incertezza penetrarono in un recinto dove
sorgea il fabbricato. Riconobbero allora che non era
un semplice posto, ma un'antica fortezza abbandonata,
di stile gotico; le sue torri erano enormi e le
fortificazioni in proporzione. L'imponenza dell'edifizio
risaltava ancor più per la rovina e la degradazione
dei muri quasi distrutti, e pel disordine
delle macerie sparse qua e là nell'immenso recinto
solitario e coperto d'erbe selvatiche. Nel cortile
d'ingresso un'annosa querce giganteggiava. La fortezza
era stata importantissima: essa dominava il
vallone, poteva arrestare il nemico e difendersi con
facilità. Il conte, esaminandola attentamente, restò
sorpreso di vederla negletta. Tanto abbandono e
tanta solitudine gl'inspiravano malinconia. Mentre
continuava le sue osservazioni, gli parve di distinguer
voci nell'interno. Considerò la facciata, e non
vide alcun lume. Fatti alcuni passi, udì latrare un
cane, e parvegli riconoscer quello la cui voce li
aveva guidati fin là, non si poteva più dunque dubitare
che il luogo non fosse abitato; ma il conte,
titubante, consultossi di nuovo con Santa-Fè. Dopo
un secondo esame, le ragioni che li avevano decisi
in principio, gli parvero convincentissime per tentar
di passare la notte al coperto.
Bussarono dunque al portone: i cani ricominciarono
ad abbaiare, ma nessuno rispose: tornarono a batter
più forte, ed allora udirono un mormorio di
voci lontane; pareva adunque che gli abitanti di
quel luogo avessero udito battere, e le precauzioni
che prendevano per rispondere, ne fecero concepire
un'opinione favorevole. « Io credo che siano cacciatori, »[81]
disse il conte, « i quali abbiano cercato
come noi un asilo in queste mura: sembra che temano
in noi de' veri banditi: convien dunque rassicurarli.
Noi siamo amici, » gridò ad alta voce,
« e cerchiamo asilo per istanotte. » Allora udì
camminare, ed una voce dimandò: « Chi va là? »
« Amici, » rispose il conte; « aprite, e saprete tutto. »
Fu tirato il catenaccio, si presentò sulla porta
un uomo col lume in mano, vestito ed armato come
un cacciatore, e disse: « Che cercate ad ora sì
tarda? » Il conte rispose che aveva smarrita la
strada, e che, se caso mai non potessero accordargli
ricovero per poche ore, lo pregava ad insegnargli
la via dell'abitazione o capanna più vicina. « Conoscete
poco le nostre montagne, » rispose colui;
« non se ne trova se non a qualche lega distante: io
non posso insegnarvene la strada; e giacchè c'è
la luna, cercatela da per voi. » Sì dicendo, accingevasi
a chiuder la porta, quando parlò un'altra
voce, ed il conte vide un altro lume, ed un uomo
alla ferriata d'una finestra di sopra al portone. « Restate,
amici, » disse questi; « vi siete smarriti, e
senza dubbio siete cacciatori come noi. » Allora gli
fu aperta la porta: alcuni uomini si presentarono
all'ingresso dicendo al conte che entrasse ed invitandolo
a passar la notte nella loro abitazione. Gli
fecero un'accoglienza cortese, e gli offrirono di divider
seco la loro cena già preparata. Il conte li osservava
attentamente, e benchè circospetto, ed anche
sospettoso, la stanchezza, il timore della tempesta,
e sopra tutto la sicurezza che inspiravagli il suo
numeroso corteggio, l'indussero ad accettar l'offerta.
Fece entrar la sua gente, e furono condotti
tutti insieme in un'immensa sala, illuminata in
parte da un gran fuoco, intorno al quale stavano
seduti due uomini in abito da cacciatore, che facevano
arrostire carne sulla graticola, con alcuni cani
accovacciati ai loro piedi. In mezzo alla sala eravi[82]
una gran tavola. Quando il conte si avvicinò, coloro
si alzarono, ed i cani ricominciarono a latrare, ma,
ad un cenno dei padroni, tornarono al loro posto.
Bianca osservava minutamente quella sala oscura
e spaziosa, quegli uomini, e suo padre che sorrideva.
« Ecco, » disse il conte, « un buon fuoco
adattatissimo per l'ospitalità; la fiamma fa piacere
dopo aver viaggiato molto per questi deserti selvaggi.
I vostri cani sembrano stanchi: avete fatta
una buona caccia?
— Secondo il solito, » rispose uno di coloro;
« noi torniamo quasi sempre carichi di cacciagione.
— Son cacciatori come noi, » disse uno di quelli
che avevano introdotto il conte; « eransi smarriti,
ed io li accolsi dicendo che c'era posto per tutti.
— È vero, è vero, » rispose il suo compagno.
— V'ingannate, amico, » disse il conte; « noi
siamo viaggiatori. Trattateci però come cacciatori,
che ne saremo contenti, e sapremo ricompensare la
vostra cortese accoglienza.
— Sedete dunque, » rispose un altro. « Giacomo,
metti legna sul fuoco: mi pare che l'arrosto sia
all'ordine. Dà una sedia a questa signorina: di
grazia, assaggiate la nostra acquavite, ch'è di Barcellona,
e di prima qualità. »
Bianca sorrise con timidezza, e non voleva accettarla,
ma suo padre la prevenne prendendo egli
stesso il bicchiere. Santa-Fè, seduto vicino a lei,
stringendole la mano, la incoraggi con un'occhiata;
ma ella occupavasi d'un uomo che taciturno vicino
al fuoco, fissava costantemente Santa-Fè.
« Voi fate una vita deliziosa, » disse il conte;
« la vita del cacciatore è piacevole e salubre, ed
il riposo è più caro allorchè succede alla stanchezza.
— Sì, » rispose uno degli ospiti, « la nostra vita
è piacevolissima, ma solamente nella stagione d'estate
e d'autunno; nell'inverno, questi luoghi sono
orribili, e non si può fare veruna caccia.[83]
— È una vita libera ed amena, » soggiunse il
conte; « passerei volentieri un mese con voi.
— A proposito, » disse Giacomo, « non mi rammentava
che abbiamo tordi; Pietro, va a prenderli;
li cuoceremo per questi tre signori. »
Il conte fece alcune interrogazioni sul loro modo
di cacciare, ed ascoltava attento e con molta compiacenza
i loro curiosi dettagli, quando si udì il
suono d'un corno. Bianca guardò il padre: ma egli
continuava il suo discorso, quantunque girasse
spesso gli occhi verso la porta con qualche inquietudine.
« Sono i nostri compagni, » disse negligentemente
uno di quegli uomini.
Comparvero di lì a poco due altri col moschetto
in ispalla e le pistole alla cintura.
« Ebbene, fratelli, avete fatto buona caccia? Se
portate nulla, non avrete da cena.
— Chi diavolo son costoro? » dissero essi in cattivo
spagnuolo, accennando il conte ed il suo seguito.
« Sono Spagnuoli o Francesi? Dove li avete
incontrati?
— Son loro che hanno incontrato noi, » disse
Giacomo in francese, « e l'incontro è gradevolissimo.
Il cavaliere e la sua comitiva s'erano smarriti
in queste montagne, e ci hanno chiesto di passar
la notte nel forte. »
Gli altri non risposero nulla, e cavarono da una
bisaccia una gran provvisione di uccelli: quindi
lasciarono cascare in terra la bisaccia, che risuonò
facendo conoscere che conteneva una quantità non
indifferente di monete. Il conte allora, insospettito,
considerò colui che la portava. Era un uomo grande
e robusto, di faccia audace, ed invece di un abito
da cacciatore, vestiva una divisa militare logora; i
suoi sandali laceri erano affibbiati sulle gambe nude
e nerborute; portava in testa una specie di berretto
di cuoio somigliante molto ad un antico elmo romano.
Il conte alla perfino abbassò gli occhi, e restò[84]
muto e pensieroso. Nel rialzarli, vide in un
canto della sala l'uomo che non cessava di guardare
Santa-Fè, il quale parlava con Bianca e non
gli badava. Poco dopo, vide quell'istesso uomo battere
sulla spalla del soldato, egualmente attento ad
osservare Santa-Fè; egli, vedendo che il conte lo
guardava, volse gli occhi altrove, ma Villefort concepì
qualche diffidenza, che però non volle esternare,
e facendo ogni sforzo per sorridere, si mise
a parlar con Bianca. Poco dopo rialzò gli occhi, ma
il soldato ed il suo compagno erano scomparsi.
Colui che si chiamava Pietro ritornò quasi nell'istesso
momento dicendo: « Il fuoco è acceso, e gli
uccelli son pelati. Ceneremo in un'altra stanza più
piccola ma più calda di questa. » Tutti i compagni
applaudirono, ed invitarono gli ospiti a seguirli.
Bianca parve afflitta di cotesto cambiamento, e se ne
stava al suo posto. Santa-Fè guardò il conte, il quale
dichiarò che avrebbe preferito di non uscir dalla sala. I
cacciatori però reiterarono le loro istanze con tanta
cortesia, che Villefort, malgrado i suoi dubbi e temendo
di manifestarli, acconsentì finalmente ai loro
inviti. Gli anditi lunghi e rovinati pei quali li fecero
passare lo spaventarono; ma il rumoreggiar
del tuono, che aveva già cominciato a farsi udire,
non permetteva più di uscire da quel luogo a notte
così avanzata, ed il conte temeva di provocare i suoi
conduttori, lasciando travedere la sua diffidenza.
I cacciatori lo precedevano. Il conte e Santa-Fè,
desiderando amicarseli, affettando famigliarità, portavano
una sedia per ciascheduno, e Bianca li seguiva
lentamente. Il di lei abito si attaccò ad un
chiodo d'un uscio, e fu costretta a fermarsi per liberarsene.
Il conte, che parlava con Santa Fè, non
se ne accorse, e svoltando essi da un'altra parte
dietro i cacciatori, Bianca restò sola in perfetta oscurità.
Chiamò il padre; ma la burrasca aumentava,
e lo scroscio dei fulmini impedì loro di udirla. Appena[85]
ebbe staccato l'abito dal chiodo, seguitò con
celerità il cammino per dove credeva fossero andati.
Un lume che vide da lontano la confermò in quest'idea.
Si avanzò verso una porta aperta, credendo
trovare la stanza ove dovevano cenare. Sentì alcune
voci, e s'arrestò a qualche distanza per assicurarsi
di non essersi ingannata. Al debole chiarore d'una
lampada vide quattro uomini intorno ad una tavola,
i quali sembravan tener consiglio, e riconobbe fra
loro colui che aveva fissato Santa-Fè con tanta attenzione:
egli parlava con veemenza, benchè sottovoce.
Un altro pareva contraddirlo, rispondendo con
piglio imperioso. Bianca, inquieta di non trovarsi
vicina nè al padre, nè a Santa-Fè e spaventata dall'aspetto
di coloro, stava per allontanarsi, allorchè
udì dire ad uno di coloro:
« Non litighiamo più. Seguite il mio consiglio, e
svanirà ogni pericolo. Assicuratevi di quei due; il
resto è una preda facilissima. »
Bianca allarmata da queste parole, volle sentire
qualche cosa di più.
« Non si guadagnerebbe nulla col resto, » disse
un altro; « io non son mai di parere di versare il
sangue, quando si può risparmiarlo. Sbrigatevi di
quei due, e il nostro affare è fatto; gli altri potranno
andarsene.
— Oibò! » disse il primo, bestemmiando orribilmente;
« andrebbero a dire ciò che abbiamo fatto
dei loro padroni, verrebbero le truppe reali, e ci
trarrebbero al supplizio. Bravo! tu dai sempre di
buoni consigli; ma io però mi rammento il giorno
di san Tommaso dell'anno scorso. »
Bianca fremè d'orrore. Il suo primo sentimento
fu quello di fuggire, ma pensò che, ascoltando ancora,
avrebbe forse potuto esser a tutti di qualche
utilità, ed intese il dialogo seguente:
« E perchè non ammazzarli tutti?[86]
— Giuraddio! La nostra vita è cara più della
loro; se non li ammazziamo, ci faranno impiccare.
— Sì, sì, » gridarono tutti.
— Commettere un omicidio è il mezzo più sicuro
per iscansare la ruota, » disse il primo brigante.
— Dove diavolo sono andati stasera gli altri nostri
compagni? » disse un altro con impazienza; « se
erano qui, a quest'ora la faccenda era già spicciata.
Non potremo far il colpo stanotte, perchè il seguito
è più numeroso di noi. Appena farà giorno vorranno
partire; e come impedirlo senza impiegar la forza?
— Ho formato un bel piano, » disse un altro.
« Se possiamo sbrigare cheti cheti i due padroni,
tutto il resto ci darà poca pena.
— È un piano maraviglioso, » rispose un altro ironicamente.
« Se io posso fuggire di prigione, sarò
certamente in libertà! Come vuoi far tu a sbrigarli
cheti cheti?
— Col veleno, » rispose colui.
— Ben pensato! » disse un'altra voce; « così la
mia vendetta sarà pienamente soddisfatta con una
morte più lenta. Un'altra volta i signori baroni impareranno
a non irritarla.
— Ho riconosciuto subito il figlio, appena l'ho
veduto, » disse uno, che Bianca riconobbe per l'individuo
che fissava Santa-Fè; « ma non mi rammento
più la fisonomia di suo padre.
— Potete dire tutto quello che volete, » soggiunse
un altro, « ma io scommetterei che quello non è il
barone. Lo conosco bene quanto voi, giacchè io era
uno di quelli che l'attaccarono coi nostri bravi colleghi
che son periti.
— Che! forse non c'era anch'io? » disse il
primo. « Vi assicuro che è il barone. Ma cosa importa
che sia o non sia lui? Dovremo perciò lasciarci
sfuggire questo bottino? non ci capitano
tanto spesso sì fatte avventure. Quando si arrischia
la ruota per frodare una pezza di raso, rompendosi[87]
il collo attraverso precipizi; quando svaligiamo
un infelice viaggiatore, o qualche contrabbandiere
nostro collega, che c'indennizzano appena della
polvere che ci costano, ci lasceremo noi scappare
questa ricca preda? Hanno seco denari ed oggetti
di valore...
— Non è per questo, non è per questo, » disse
il terzo; « prenderemo quel che troveremo. Ma, se
è il barone, voglio dargli un colpo di più, in onore
dei nostri bravi compagni che fece andare al patibolo.
— Sì, ciarlate quanto volete, io vi ripeto che il
barone è di statura più alta.
— Maledette le vostre liti, » disse il secondo;
« dovremo noi lasciarli partire sì o no? Ecco ciò
che dobbiamo decidere. Se perdiamo ancora tempo,
sospetteranno il nostro progetto, e se ne andranno
subito. Siano pure quel che si vogliono, mi sembrano
ricchi; hanno tanti servitori! Avete osservato
il brillante che aveva il conte? ma ora lo ha
nascosto, essendosi accorto ch'io lo guardavo.
— Sì, è bellissimo, e quel ritratto che pende al
collo della giovine, contornato di diamanti?
— Convien dunque pensare ad assicurarsene, »
dissero gli altri; « li avveleneremo; ma ricordiamoci
che il loro seguito è composto di nove o dieci
persone bene armate. Noi siamo in sei soli. Potremo
attaccarne dieci a forza aperta? Diamo intanto il
veleno, e poi penseremo al resto.
— Io vi consiglierò un altro mezzo più sicuro, »
disse uno di coloro impazientemente; « sentite. »
Bianca, che ascoltava tal diverbio con orribile
ambascia, non potè sentir più nulla, perchè coloro
si parlarono sottovoce. La speranza di salvare il
padre, Santa-Fè e tutto il seguito, se poteva raggiungerli
subito, le somministrò all'improvviso forza
novella, e si diresse di volo verso il corridoio. Il
terrore e l'oscurità cospirarono allora contro di[88]
lei. Appena ebbe fatto qualche passo, urtò in un
gradino, all'ingresso del corridoio, e cadde al suolo.
I masnadieri si riscossero a tal rumore, e precipitaronsi
immediatamente fuori per assicurarsi se ci
fosse qualcuno che ascoltasse i loro discorsi. Bianca
li vide avvicinarsi, e prima che potesse alzarsi, la
presero per un braccio, la trascinarono nella stanza
e le sue strida non servirono che a ricevere le più
spaventose minacce. Consultarono su quel che dovevan
fare di lei.
« Procuriamo prima di sapere ciò ch'essa ha inteso, »
disse uno di loro. « Da quanto tempo eravate
nel corridoio? Ed a far che? » le chiese colui.
— Assicuriamoci intanto di questo ritratto, »
disse un altro, avvicinandosi a Bianca. « Bella signorina,
con vostro permesso, questo gioiello è mio:
datemelo, o ve lo prendo. »
Bianca, chiedendo misericordia, gli diè il medaglione,
ed intanto un altro ladro l'interrogava con fiero
cipiglio. La sua confusione ed il suo spavento spiegavano
troppo chiaramente quel che la sua lingua
non ardiva confessare. I briganti si guardarono con
aria significante, e due di essi ritiraronsi in un
canto, come per deliberare.
« Giur'al cielo! Sono brillanti di molto valore, »
disse colui che guardava il medaglione; « anche il
ritratto è bello: senza dubbio sarà quello di vostro
marito, signora, che m'immagino debba essere il
giovine cavaliere ch'era in vostra compagnia. »
Bianca, smarrita e disperata, lo scongiurava di
aver pietà di lei: gli diè la sua borsa, e gli promise
di tacere, se la riconduceva ai suoi compagni
di viaggio; sorrideva egli ironicamente alle di lei
parole, allorchè un rumore lontano fissò la di lui
attenzione. Mentre ascoltava, afferrolla pel braccio
con violenza, quasi temendo ch'ella volesse fuggire.
Bianca gridò aiuto. Il rumore, avvicinandosi, scosse
i banditi dalla loro irresolutezza.[89]
« Siamo traditi, » dissero essi; « ma potrebbe darsi
che fossero i nostri colleghi di ritorno dalla scorreria:
in tal caso l'affare è fatto: ascoltiamo meglio. »
Una scarica in lontananza confermò la loro supposizione;
ma il primo rumore si avvicinava sempre
più: si udiva uno strepito d'armi, il fracasso
di una zuffa, e qualche gemito che partiva dal fondo
del corridoio. I briganti allora prepararono le armi:
fu suonato un corno al di fuori; tre di essi
lasciarono Bianca in custodia del quarto, ed uscirono
a precipizio.
Intanto che Bianca, tremante e confusa, implorava
pietà, riconobbe la voce di Santa-Fè, il quale
comparve tutto coperto di sangue ed inseguito da
alcuni banditi. Bianca non vide, non sentì più
nulla, e cadde svenuta nelle braccia di chi la
teneva.
Appena riacquistò l'uso de' sensi, riconobbe, all'incerta
luce che vacillava intorno a lei, d'esser
sempre nella medesima stanza. Restò alcun momento
nell'incertezza e nello stupore. Un sordo
gemito vicino a lei la fece memore di Santa-Fè, e
dello stato in cui l'aveva veduto; allora alzandosi,
si avanzò dalla parte d'onde veniva il sospiro. Non
tardò molto a riconoscere, in un corpo steso sul
pavimento, Santa-Fè pallido e sfigurato, che non
poteva parlare. Aveva gli occhi chiusi, ed una delle
sue mani, ch'ella prese nell'ambascia della disperazione,
era bagnata di freddo sudore. Lo chiamò
per nome, e gridò aiuto; qualcuno s'avvicina, un
uomo entra: non era il conte; ma qual fu la di lei
sorpresa, quando, supplicandolo di soccorrere Santa-Fè,
riconobbe Lodovico! Ebbe egli appena tempo
di riconoscerla; si occupò subito delle ferite del
cavaliere, e giudicando che l'immensa perdita del
sangue cagionava probabilmente la sua debolezza,
corse a cercare acqua per lavargli le ferite e fasciargliele
alla meglio.[90]
Appena egli fu uscito, Bianca udì camminare, e
vide entrare Villefort con una torcia nella mano
sinistra, e la spada insanguinata nella destra, che,
tutto anelante, chiamava impazientemente la figlia.
Al suono di questa voce ben nota essa volò nelle
di lui braccia. Il conte, lasciando cadere la spada,
la strinse al seno con indicibil trasporto di gioia e
stupore: le domandò di Santa-Fè, e lo vide per
terra dando qualche segno di vita. Lodovico tornò
di lì a poco ben provvisto d'acqua e di acquavite;
gli applicò l'una alla bocca e l'altra alle tempie, e
Bianca lo vide finalmente aprir gli occhi, domandando
subito di lei. La gioia ch'essa provò in quel momento,
fu subito sturbata da una nuova inquietudine:
Lodovico dichiarò che bisognava senza ritardo
trasportare il cavaliere.
« I banditi che sono di fuori erano aspettati, e
se perdiamo tempo ci troveranno qui. Sanno benissimo
che il suono del corno, ad un'ora così strana,
è sempre il segnale d'un estremo pericolo, e l'eco
di questi monti ne porta la voce a molta distanza.
Li ho veduti tornare in consimili casi dalle falde
del Melicante. Avete voi appostata una vedetta all'ingresso
del forte?
— No, » disse il conte, « la mia gente è dispersa,
e non so dove sia. Lodovico, va tosto a
riunirla, ma abbi cura di te stesso, e ascolta se
senti i muli. »
Lodovico uscì immediatamente, ed il conte riflettè
al modo di trasportar Santa-Fè, il quale non
avrebbe potuto sopportare il moto d'una mula,
quand'anche fosse stato in grado di reggersi in
sella.
Mentre il conte raccontava come i banditi fossero
stati rinchiusi nella torre, Bianca osservò che
era ferito anch'esso nel braccio sinistro; egli le
rispose, sorridendo, quella ferita esser leggerissima.
I servi, tranne due che furon lasciati alla porta[91]
della fortezza, comparvero allora tutti, preceduti
da Lodovico.
« Mi pare, signore, » diss'egli, « di sentir venire
de' muli dal fondo della valle, ma il mormorio
del torrente m'impedisce di accertarmene; ho
portato meco l'occorrente pel trasporto del signor
cavaliere. »
Mostrò allora una gran pelle d'orso attaccata a
due pertiche che formava una comoda lettiga, di
cui si servivano i banditi per trasportare i loro feriti.
Lodovico la spiegò, vi adattò sopra alcune
pelli di capra per renderla più morbida, fasciò le
ferite del cavaliere, ed avendovelo posato dolcemente,
le due guide, prendendo le quattro estremità
delle pertiche sulle spalle, s'incamminarono per andarsene
insieme ai servitori del conte, alcuni dei
quali erano stati leggermente feriti. Passando per
la sala, udirono da lontano un tumulto orribile:
Bianca ne fu molto allarmata.
« Non temete, » disse Lodovico, « son tutti quei
birbanti chiusi nella torre.
— Mi sembra che atterrino la porta, » disse il
conte.
— È impossibile, signore, » rispose Lodovico,
« perchè la porta è di ferro. Noi non abbiamo nulla
da temere: intanto io andrò avanti per osservar
meglio se mai si ode o non si vede nulla. »
Tutti lo seguirono; dopo essere stati alcun poco
in ascolto, non udirono altro che il mormorio del
torrente, ed una fresca brezzolina che agitava i rami
dell'antica quercia nel cortile. I viaggiatori videro
allora con estremo piacere che cominciava a spuntar
il giorno, e Lodovico, alla testa della comitiva,
la fece scendere nella valle per un sentiero opposto
a quello pel quale erano venuti colà.
« Evitiamo la strada, » diss'egli, « che hanno
preso i banditi stamattina. »
I viaggiatori si trovarono ben presto in una[92]
strettissima valle: l'alba imbianchiva gradatamente
i monti, e scopriva verdi praticelli che ricoprivan
le falde delle rupi, sulle quali sorgevano le querce
ed i lecci; la tempesta era cessata; l'aria del mattino
e la vista di quella verzura, ancor più fresca
per la pioggia della notte, rianimarono gli spiriti
abbattuti della comitiva. Il sole sorse di lì a poco,
e tutte le piante rosseggiarono in breve de' suoi
raggi dorati; un resto di nebbia aggiravasi ancora
in fondo alla valle, ma il vento la cacciava, ed a
poco a poco il sole la fece sparir tutta. Dopo aver
percorso una lega di cammino, Santa-Fè si querelò
dell'eccessiva debolezza: sostarono per ristorarlo, e
lasciar riposare i portatori. Lodovico si era munito,
prima di partire, di qualche bottiglia di vino di
Spagna, e ne distribuì a tutta la carovana; ma
Santa-Fè non potè risentirne che un sollievo momentaneo.
Una febbre ardentissima acquistò nuova
forza per l'uso di questa bibita; egli non poteva
nascondere i suoi orribili patimenti, nè astenersi
dall'esprimere il desiderio impaziente di giungere
all'osteria, in cui avevano prefisso di passar la
notte precedente.
Mentre riposavano tutti all'ombra degli abeti,
il conte pregò Lodovico di spiegargli brevemente
in qual modo fosse sparito dall'appartamento del
nord, come avesse potuto cadere nelle mani di quei
banditi, e contribuito in una maniera così prodigiosa
a salvarlo colla sua famiglia. Il conte gli attribuiva
giustamente la loro salvezza. Lodovico accingevasi
ad obbedirlo, ma un colpo di pistola sparato
nella strada già da essi percorsa cagionando
nuovi timori, obbligò i viaggiatori a rimettersi in
cammino.
[93]
CAPITOLO LI
Emilia intanto provava la massima inquietudine
sul destino di Valancourt. Teresa trovò finalmente
una persona fidata da spedire al fattore, la quale
s'impegnò di tornare il giorno dopo, e Emilia promise
di trovarsi alla capanna di Teresa, che, divenuta
zoppa, non poteva uscir di casa. Verso sera
Emilia s'incamminò sola a quella parte con tetri
presentimenti. L'ora già avanzata accresceva la sua
malinconia. Era la fine dell'autunno; una densa
nebbia nascondeva in parte la cima dei monti, e il
vento freddo, che soffiava nei faggi, copriva la via
delle ultime foglie ingiallite. La loro caduta, presagio
della fine dell'anno, era l'immagine della desolazione
del suo cuore, e sembrava predirle la
morte di Valancourt: ne provò un presentimento
sì forte, che fu più volte sul punto di tornare addietro.
Non aveva forza bastante per andare incontro
a cotest'orribile certezza; ma lottò contro la sua
emozione e continuò ad avanzare.
Camminava mesta, ed i suoi occhi seguitavano il
movimento delle masse vaporose che stendevansi
all'orizzonte; considerava le fuggitive rondinelle,
le quali, in balìa all'agitazione de' venti, ora scomparendo
tra le nubi, ora aleggiando in atmosfere
più tranquille, sembravano rappresentarle le afflizioni
e le vicende, ond'essa era stata vittima. Aveva
subìto i capricci della fortuna ed i turbini della
sventura; aveva avuto qualche corto istante di calma.
Ma come dare il nome di calma a ciò che non
era se non la sospensione del dolore? Sfuggita ormai
ai più crudeli pericoli, indipendente da' suoi
tiranni, trovavasi padrona di una sostanza ragguardevole;
avrebbe potuto con ragione aspettarsi di
gustare la felicità; ma essa n'era più lungi che
mai: sarebbesi accusata di debolezza e d'ingratitudine,[94]
se avesse sofferto che il sentimento dei beni
che possedeva fosse soffocato da quello d'un solo
infortunio, se questo però non avesse colpito che
lei sola. Ma essa piangeva per Valancourt, e se anche
egli vivesse, le lacrime della pietà si univano
a quelle del rammarico, afflittissima che un uomo
come lui fosse caduto nel vizio, e quindi nella miseria.
La ragione e l'umanità reclamavano assieme
le lacrime dell'amicizia, ed il suo coraggio non poteva
separarle ancor da quelle dell'amore. Nel momento
attuale però non la tormentava la certezza
dei torti di Valancourt, bensì il timore della di lui
morte; le pareva, per così dire, di essere la causa
innocente di questa disgrazia. La sua inquietudine
aumentava ad ogni passo, e quando vide da lontano
la capanna, le mancò il coraggio di avvicinarsi e
sedette sur un banco nel sentiero. Il vento che susurrava
tra le frondi pareva alla sua rattristata immaginazione
recar suoni queruli; ed anche negl'intervalli
di calma credea udire ancora dolorosi accenti.
Prestando maggior attenzione, si convinse
dell'error suo, e le tenebre, divenute più folte per
la prossima caduta del dì, l'avvertirono d'allontanarsi,
e con passo vacillante giunse alla capanna.
Traverso i vetri si vedea scintillare un buon fuoco,
e Teresa, avendo veduto venire Emilia, stava sulla
porta ad aspettarla.
« La sera è fredda assai, signorina, » le disse
ella. « Vuol piovere, ed ho creduto che un buon
fuoco non dovesse spiacervi. Sedete dunque vicino
a me. »
Emilia la ringraziò della sua attenzione, e guardandola
in volto, fu colpita dalla sua tristezza. Si
gettò sulla sedia, incapace di parlare, e la di lei
fisonomia esprimeva tanta disperazione, che Teresa
ne comprese il motivo, eppure taceva.
« Ah! » sclamò finalmente Emilia; « è inutile che
me lo diciate. Il vostro silenzio, i vostri sguardi
parlano abbastanza; egli è morto.[95]
— Oimè! mia cara padrona, » rispose Teresa colle
lacrime agli occhi, « questo mondo è pieno di affanni.
I ricchi ne hanno la lor dose come i poveri;
ma procuriamo di sopportare in pace il carico che
ci manda il cielo.
— Egli è dunque morto? » interruppe Emilia.
« Ah! Valancourt è morto!
— Orribil giorno! Io ne temo, » soggiunse
Teresa.
— Lo temete soltanto? »
— Sì, signorina, lo temo. Nè il fattore, nè verun'altra
persona ha sentito più parlare di lui a
Estuvière, dacchè è partito per la Linguadoca. Suo
fratello ne è afflittissimo. Egli dice che scrive sempre
esattamente, ma che non ha ricevuto veruna
lettera da lui dopo la sua partenza: doveva esser
già di ritorno da tre settimane: non ha scritto, non
è tornato, e si teme che gli sia accaduta qualche
disgrazia. Oimè! io non credeva di viver tanto da
dover piangere la sua morte. Io son vecchia, e poteva
morire senza dispiacere; mentre lui... »
Emilia, quasi moribonda, chiese un po' d'acqua:
Teresa, spaventata, affrettossi a soccorrerla, e mentre
le porgeva l'acqua, continuò: « Cara signorina,
non vi affliggete tanto; il cavaliere può essere sano
e salvo. Speriamo!
— Oh! no, non posso sperare, » disse Emilia.
« Io so circostanze che mi piombano anzi nella disperazione;
ma or mi sento meglio, e posso ascoltarvi:
dettagliatemi tutto quel che avete saputo.
— Aspettate d'esservi rimessa, signorina; mi
sembra che stiate sì male!
— Oh! no, Teresa, ditemi tutto intanto che posso
ascoltarvi, ditemi tutto, ve ne scongiuro.
— Ebbene, » rispose Teresa, « vi acconsento. Il
fattore ha detto pochissimo. Riccardo pretende ch'egli
parlasse con molto riserbo del signor Valancourt.
Quel ch'egli ha saputo, gli fu confidato da Gabriello,[96]
uno dei servitori del conte, che disse essergli stato
confidato da un amico del suo padrone. Dice dunque
che Gabriello e tutti i servitori erano in gran
pena pel signor Valancourt; ch'esso era un giovine
così buono così amabile, e che lo amavano
tutti come loro fratello; che non comandava imperiosamente,
come tanti altri signori; che perciò era
molto rispettato, e che la servitù l'obbediva volentieri
al primo cenno per paura di spiacergli. Il
signor conte stava in gran pena pel cavaliere, quantunque
fosse andato in collera con lui ultimamente.
Gabriello dice aver saputo che il signor Valancourt
aveva fatte pazzie a Parigi; che aveva spesi molti
denari, ed era stato perfino messo in prigione. Che
il signor conte ricusava di liberarnelo, pretendendo
ch'egli meritasse un tal castigo. Appena il vecchio
Gregorio il cantiniere ne fu informato, fece fare un
bastone a punta ferrata per andar a piedi a Parigi
a trovare il padroncino; quando furono avvertiti che
il signor Valancourt era di ritorno. Oh! qual gioia
al suo arrivo! egli era però molto cambiato. Il
conte lo ricevè freddamente, ed era afflitto. Il cavaliere
partì immediatamente per la Linguadoca; e
da quel momento, disse Gabriello, non se n'è saputo
più nulla. »
Teresa tacque; Emilia sospirava, nè ardiva sollevar
gli occhi da terra. Dopo una lunghissima
pausa, sclamò: « Oh! Valancourt, tu sei perduto, e
perduto per sempre. E son io, son io che ti diedi
la morte. »
Quelle parole, quegli accenti disperati allarmarono
la povera Teresa, la quale temè che quel colpo terribile
non avesse alterata la ragione di Emilia.
« Mia cara padrona, calmatevi, » diss'ella; « non
dite di queste cose: è impossibile che voi abbiate
potuto uccidere il signor Valancourt. »
Emilia non le rispose che con un gran sospiro.
« O mia cara signorina, » ripigliò Teresa, « il[97]
cuore mi si spezza vedendovi in tale stato, cogli
sguardi fissi, pallida in volto, e sì afflitta. Mi spaventa
il vedervi così. » Emilia non apriva bocca, e
non parea udir nulla. « E d'altra parte, madamigella, »
soggiunse la vecchia, « il signor Valancourt può
essere sano ed allegro, malgrado quanto sappiam noi. »
A tal nome, la fanciulla alzò gli occhi e guardolla
con occhi smarriti, come se avesse cercato di
capirla.
« Sì, cara padroncina, » ripigliò Teresa ingannandosi
sulla di lei intenzione, « il signor Valancourt
può essere sano ed allegro. »
Alla ripetizione di quest'ultime parole, Emilia ne
comprese il senso; ma invece di produrre l'effetto
che ne aspettava Teresa, parvero soltanto raddoppiare
il suo dolore: si alzò bruscamente, e percorse
la cameretta a veloci passi, battendo palma a palma
e singhiozzando. Mentre passeggiava così il suono
dolce e sostenuto d'un oboè o flauto si mescolò
alla bufera. La sua dolcezza colpì Emilia; sostò
tutta attenta: i suoni recati dal vento si perdettero
in una raffica più forte; ma il loro accento querulo
le commosse il cuore, ed ella si strusse in lagrime.
« Oh! » sclamò Teresa, tergendo le lagrime; « è
Riccardo il figlio del vicino che suona il suo strumento;
è una musica malinconica. »
Emilia continuava a piangere.
« Egli suona spesso alla sera, » continuò la vecchia,
« e fa ballare la gioventù. Ma, signorina, non
piangete così. Venite qui vicino al fuoco che, fa
freddo, e bevete un bicchier di vino per ristorarvi. »
Ed accomodatale una sedia al camino, andò a
cavar dalla credenza un fiasco.
« Questo non è un vino ordinario, » soggiunse;
« è del migliore di Linguadoca, e l'ultimo de' sei
fiaschi che mi regalò il signor Valancourt quando
partì per Parigi. Io non lo bevo mai senza pensare[98]
a lui, e alle sue parole piene di bontà nell'atto di
consegnarmelo. Teresa, mi diss'egli, voi non siete
più giovine; tratto tratto dovreste bere un bicchier
di vino. Io ve ne manderò qualche altro fiasco,
e bevendolo ricordatevi di me, vostro amico. Sì,
furon queste le sue parole: Di me, vostro amico! »
Emilia continuava a camminar per la stanza, senza
badare alle parole di Teresa, la quale continuò: « Mi
son sempre ricordata di lui; povero giovine! Egli
mi donò questo ricetto e sostenne la mia vecchiaia.
Ah! se è vero che sia morto, sarà in paradiso col
mio rispettabile padrone. »
Qui si mise a piangere, e depose il fiasco. Il suo
dolore rinnovò quello di Emilia, che si avvicinò a
lei, e guardolla attentamente come oppressa dalla
riflessione ch'essa piangeva per Valancourt. La
buona vecchia però, asciugando le lagrime, si fece
coraggio, e le disse:
« Per carità non v'affliggete di più; prendete,
di grazia, un sorso di questo vino. Gustatelo per
l'amor del signor Valancourt, che me lo ha regalato,
come vi dissi. »
La mano d'Emilia, che aveva preso il bicchiere,
tremò, e sparse il liquore nel ritirarlo dalle labbra.
« Per l'amore di chi? » sclamò ella; « chi vi
ha dato questo vino?
— Il signor Valancourt, cara padroncina; sapea
io che vi farebbe piacere; è l'ultimo mio fiasco. »
La fanciulla depose il bicchiere sulla tavola, proruppe
nuovamente in un dirotto pianto, e Teresa,
sconcertata e dolente, procurò di consolarla. Emilia
le fe' cenno colla mano, che desiderava restar sola,
e pianse sempre più forte. Un lieve colpo battuto alla
porta non permise alla vecchia di lasciarla al momento.
Emilia la pregò di non aprire a nessuno;
ma pensando poi che poteva essere Filippo, il suo
servitore, procurò di tergere il pianto, e Teresa andò
ad aprire.[99]
La voce ch'ella intese attirò tutta la di lei attenzione:
tese l'orecchio, volse gli occhi verso la
porta, una persona comparve, e la fiamma del fuoco
le fe' riconoscere... Valancourt!...
Nel vederlo, si scosse da capo a piedi, tremò,
e perdendo l'uso dei sensi non vide più nulla. Un
grido di Teresa annunziò che anche lei aveva riconosciuto
il giovane. L'oscurità, sul primo momento,
non aveale permesso di distinguerlo. Egli cessò di
occuparsi di lei, vedendo cadere una persona dalla
sedia vicino al fuoco. Volò a soccorrerla, e s'avvide
di sostenere Emilia. La commozione che provò per
l'inaspettato incontro, ritrovando colei da cui si
credeva diviso per sempre, tenendola pallida e svenuta
fra le sue braccia, è più facile ad immaginare
che a descrivere! Sarà egualmente facile figurarsi
ciò che provò Emilia, allorchè riaprendo gli occhi,
rivide Valancourt. L'espressione inquieta colla quale
la considerava, si cambiò tosto in un misto di gioia
e tenerezza. Allorchè i suoi occhi s'incontrarono in
quelli di lei, e che la vide in procinto di rinvenire,
potè esclamare appena: Emilia! ma essa, volgendo
altrove gli sguardi, fece un debole sforzo per ritirare
la mano. Nei primi momenti che succedettero
alle angosce dolorose, cagionate dall'idea della sua
morte, Emilia obbliò tutti i falli dell'amante: lo rivide
qual era nel momento in cui meritava il suo
amore, ne risentì altro che gioia e tenerezza; ma
oimè! fu un'illusione passaggiera! Le di lei riflessioni
s'innalzarono nuovamente, come tante nubi
sull'orizzonte, ad oscurare l'immagine lusinghiera
che inebriava il suo cuore. Rivide allora Valancourt
degradato in faccia alla società, indegno ormai della
sua stima e tenerezza. Le mancò la forza, ritirò la
mano, e si volse dalla parte opposta per nascondere
il suo dolore. Il giovane, più agitato ed imbarazzato
di lei, se ne stava muto e dolente.
Il sentimento di quanto doveva a sè stessa, trattenne[100]
le sue lagrime, e le insegnò a dissimulare
parte della gioia e del dolore, che facevano il più
fiero contrasto nel fondo del suo cuore. Si alzò,
ringraziollo della sua attenzione, salutò Teresa, e
volle andarsene. Valancourt, svegliato come da un
sogno, la supplicò umilmente di accordargli un momento
d'attenzione. Il cuore d'Emilia perorava forte
in favor suo; ma ebbe il coraggio di resistere, e
non badando neppure alle suppliche di Teresa, che
la pregava di non esporsi sola in tempo di notte,
aveva già aperta la porta; ma la pioggia dirotta
l'obbligò a rientrare.
Muta, interdetta, tornò vicino al fuoco. Valancourt,
inquieto, turbato, camminava a gran passi per la
stanza, come se avesse temuto e desiderato di parlare.
Teresa esprimeva senza ritegno la gioia e la
sorpresa che le cagionava il suo arrivo.
« Oh! mio caro benefattore, » diceva essa, « io
non sono mai stata così contenta come in questo
punto. Poco fa eravamo immerse ambedue nella
massima afflizione per causa vostra; credendo che
foste morto, parlavamo di voi, e piangevamo insieme;
in quella appunto bussaste alla porta: la mia cara
padrona versava calde lagrime. »
Emilia guardò Teresa in atto di disapprovazione;
ma, prima ch'ella potesse parlargli, Valancourt, incapace
di contenersi ulteriormente, esclamò:
« Mia Emilia, vi son io dunque tuttavia caro?
Voi mi onorate d'un pensiero, d'una lagrima! O
cielo! Voi piangete, anche adesso piangete!
— Signore, » disse Emilia, procurando di frenare
il pianto, « Teresa ha ben ragione di ricordarsi
di voi con gratitudine. Ella era afflittissima
di non aver avuto vostre notizie: permettetemi che
vi ringrazi anch'io di tutte le bontà di cui la colmaste.
Ora son tornata, e spetta a me di averne cura.
— Emilia, » le disse Valancourt, non sapendo
più contenersi, « così accogliete voi colui che già[101]
una volta volevate onorare della vostra mano, colui
che vi ha amata tanto, e che tanto ha sofferto per
voi? Ma che potrò io allegare in mia difesa? Perdonatemi,
signora, perdonatemi, non so più quel
che mi dica: non ho più diritto ai vostri pensieri:
ho perduto tutti i miei titoli alla vostra stima e al
vostro amore. Sì, ma non oblierò mai d'averli posseduti
un tempo; la certezza di averli perduti,
forma ora la mia più crudele disperazione, il mio
maggior tormento.
— Ah! mio caro signore, » disse Teresa prevedendo
la risposta di Emilia, « voi parlate di aver
già posseduto i suoi affetti... Anche adesso, sì, anche
adesso, la mia padrona vi preferisce al mondo intiero,
quantunque non voglia confessarlo.
— Ciò è veramente insopportabile, » disse Emilia.
« Teresa, voi non sapete che cosa vi dite. Signore,
se avete qualche riguardo, alla mia tranquillità,
spero non vorrete prolungare questo momento
doloroso.
— Io la rispetto troppo per turbarla volontariamente, »
rispose Valancourt, il cui orgoglio lottava
allora colla tenerezza; « non mi renderò volontariamente
importuno. Vi aveva chiesto qualche
istante d'attenzione, ma a che mi gioverebbe? Raccontandovi
i miei affanni, non farei che avvilirmi
vie maggiormente, senza eccitare la vostra pietà.
Sappiate però, Emilia, che fui, e sono ben disgraziato! »
La sua voce vacillante divenne allora l'accento
del dolore. Volse uno sguardo disperato alla giovine,
e s'accinse a partire.
« Come! » soggiunse Teresa, « volete uscire con
questa pioggia! No, no, il mio caro benefattore non
deve allontanarsi in questo momento. Mio Dio!
Quanto son pazzi i grandi di respingere così la
loro felicità! Se foste povera gente, a quest'ora sarebbe
già tutto finito. Parlare d'indegnità, dire che[102]
non vi amate più, quando in tutta la provincia non
vi son due cuori più teneri o, a dir meglio, due
persone che si amino tanto come voi due! »
Emilia, oppressa da inesprimibile ambascia, si
alzò e disse: « Non piove più, voglio andarmene.
— Restate, Emilia, restate, signorina, » rispose
Valancourt, armandosi di tutta la sua risoluzione,
« non vi affliggerò vie più colla mia presenza. Perdonatemi
se non ho obbedito più presto. Se lo potete,
compiangete colui che vi perde, e perde così
ogni speranza di riposo. Possiate esser felice, sebbene
io rimarrò eternamente infelice, possiate essere
felice quant'io ve lo desidero con tutto il cuore. »
Gli mancò la voce a queste ultime parole, impallidì,
gettò su di lei uno sguardo di tenerezza e dolore
inesprimibili, e fuggì precipitosamente.
« Caro signore! Mio benefattore! » gridò Teresa
seguendolo alla porta. « Signor Valancourt! Come
piove! Che notte burrascosa per lasciarlo andar via!
egli morrà sicuramente dal dolore e dall'affanno.
Cara signora Emilia, quanto siete incostante! poco
fa piangevate la sua morte, ed ora lo scacciate così
barbaramente! »
La fanciulla non rispose, e non udiva quel che
diceva colei. Assorta nel suo dolore e nelle sue riflessioni,
restava seduta cogli occhi fissi sul fuoco,
e l'imagine del giovane presente al pensiero.
« Il signor Valancourt è molto cambiato, signora;
com'è dimagrato! come afflitto! Eppoi ha il braccio
fasciato. »
Emilia alzò gli occhi; non aveva osservata quest'ultima
circostanza. Non dubitò più allora che
Valancourt non fosse stato ferito dal giardiniere. A
tal convinzione tutta la sua pietà si riaccese, e si
rimproverò d'averlo lasciato partire con un tempo
così cattivo.
Poco dopo vennero a prenderla in carrozza. Emilia
sgridò Teresa per le cose irriflessive dette al
Valancourt, le ordinò espressamente di non fare[103]
mai più certi discorsi, e se ne tornò al castello
pensierosa ed afflitta.
Valancourt, intanto, era rientrato nell'osteria del
villaggio, ove aveva preso alloggio pochi momenti
soltanto prima d'andare a visitar Teresa. Veniva a
Tolosa e recavasi al castello del conte di Duverney.
Non eravi più tornato dopo la sua separazione da
Emilia a Blangy. Era rimasto qualche tempo nelle
vicinanze d'un luogo ove abitava l'oggetto più caro
al suo cuore. V'erano momenti in cui il dolore e
la disperazione lo stringevano a ricomparire innanzi
ad Emilia, e rinnovare le istanze a dispetto delle
sue sciagure. Una nobil fierezza però, la tenerezza
del suo amore, che non poteva acconsentire ad
avvolgerla nei suoi infortuni, avevano finalmente
trionfato della passione. Ritornando in Guascogna,
era passato da Tolosa, e vi si trovava allorchè vi
giunse Emilia. Andava a nascondere ed alimentare
la sua dolorosa mestizia in quel medesimo giardino
nel quale aveva passato presso di lei momenti così
felici. Volendo aver la consolazione di rivederla ancor
una volta, e ritrovarsi vicino a lei, passeggiava una
sera nel parco, quando il giardiniere, prendendolo per
un ladro, gli tirò una schioppettata, e lo ferì in un
braccio. Questo caso l'aveva trattenuto a Tolosa per
farsi curare: là, senza premura per sè medesimo,
senza riguardi pe' parenti, la cui fredda accoglienza
al suo ritorno da Parigi l'aveva scoraggito, non
aveva informato nessuno della sua situazione. Ritrovandosi
in istato di viaggiare, tornava ad Estuvière,
passando per la valle; sperava di aver colà
notizie d'Emilia; voleva trovarsi vicino a lei; desiderava
anche informarsene dalla vecchia Teresa, e
credeva in fine, che, nella di lui assenza, l'avrebbero
privata della sua pensione. Tutti questi motivi lo
avevano dunque condotto alla capanna di Teresa
dove aveva incontrato Emilia.
Quella conferenza inaspettata avevagli dimostrato
a un tempo tutta la tenerezza dell'amore di Emilia,[104]
e tutta la fermezza della di lei risoluzione. La sua
disperazione erasi rinnovata con maggior forza, e
non eravi considerazione bastante per acquietarlo.
L'immagine di Emilia, la di lei voce ed i suoi
sguardi, si presentavano incessantemente alla di lui
fantasia, e qualunque sentimento era bandito dal
suo cuore, eccettuato la disperazione e l'amore.
Un'ora prima della mezzanotte ritornò da Teresa
per sentir parlar di Emilia e trovarsi ancora nel
luogo già da lei occupato. La gioia che provò ed
espresse quella povera vecchia, si cangiò presto in
tristezza, allorchè ebbe osservato i di lui sguardi
smarriti e la profonda malinconia che l'opprimeva.
Dopo avere ascoltato attentamente tutto quel ch'essa
poteva dirgli intorno ad Emilia, le regalò tutto il
denaro che aveva indosso, quantunque ella si ostinasse
a ricusarlo, e l'assicurasse che la sua padrona
aveva provveduto ai di lei bisogni. Le consegnò
anche un anello di valore, incaricandola espressamente
di presentarlo a Emilia. La faceva pregare
d'accordargli quest'ultimo favore di conservarlo per
amor suo, e rammentarsi qualche volta, nel guardarlo,
dell'infelice Valancourt che glielo inviava.
Teresa pianse nel riceverlo, ma più per tenerezza,
che per l'effetto di alcun presentimento. Prima
ch'ella potesse rispondere, Valancourt era già partito;
corse sulla porta a chiamarlo, supplicandolo
di tornare indietro, ma non n'ebbe alcuna risposta,
e non lo vide più.
CAPITOLO LII
La mattina di poi, Emilia, nel gabinetto contiguo
alla biblioteca, rifletteva alla scena della sera precedente,
allorquando Annetta entrò anelante, ed abbandonossi
senza fiato su d'una sedia. Passarono
alcuni minuti prima che potesse rispondere alle interrogazioni
di Emilia; finalmente esclamò:
« Ho veduto la sua ombra, signorina, sì, ho veduto
la sua ombra![105]
— Che vuoi tu dire? » disse Emilia con impazienza.
— Egli è uscito dal cortile, mentr'io traversava
il salotto.
— Ma di chi parli? » ripetè Emilia; « chi è
uscito dal cortile?
— Era vestito come lo vidi le centinaia di volte.
Ah! chi l'avrebbe mai creduto? »
Emilia, annoiata da quelle ciarle insipide, si accingeva
a rimproverarle la sua ridicola credulità,
quando un servo venne a dirle che un forestiero
chiedeva di parlarle.
Emilia, immaginandosi allora che il forestiere
fosse Valancourt, rispose essere occupata, e non
voler veder nessuno. Il servo tornò subito dopo
dicendo che il forestiere aveva cose importantissime
da comunicarle. Annetta, rimasta fin allora muta e
stupefatta, si scosse, e sclamò: « Sì, è Lodovico!
sì, è Lodovico. »
E corse fuor dal gabinetto. Emilia ordinò al servitore
di seguirla, e, se era realmente Lodovico,
di farlo entrare sul momento.
Poco dopo, comparve l'Italiano accompagnato da
Annetta, a cui l'allegrezza faceva obliare tutte le
convenienze, e non voleva parlar altro che lei. Emilia
esternò la sua sorpresa e soddisfazione nel vederlo.
La sua prima emozione crebbe allorchè aprì
le lettere del conte di Villefort e Bianca, che l'informavano
della loro avventura e della situazione
loro in un'osteria alle falde de' Pirenei, ov'erano
stati trattenuti dallo stato di Santa-Fè e dall'indisposizione
di Bianca. Quest'ultima aggiungeva che
il barone era arrivato, che avrebbe ricondotto il
figlio al suo castello, finchè fosse guarito dalle sue
ferite, e ch'essa con suo padre continuerebbero il
viaggio per la Linguadoca, e sarebbero passati dalla
valle, proponendosi di esservi il giorno seguente.
Essa pregava Emilia di trovarsi alle sue nozze, e
d'accompagnarli al castello di Blangy; lasciava poi[106]
a Lodovico la cura di raccontare egli stesso le sue
avventure. Emilia, sebben premurosa di conoscere
in qual modo fosse sparito dall'appartamento del
nord, nondimeno volle sospendere questa soddisfazione
finchè non si fosse rifocillato, ed avesse parlato
a lungo colla sua Annetta, la cui gioia non sarebbe
stata così stravagante se fosse risorto dalla
tomba.
Emilia, intanto, rileggeva le lettere de' suoi amici.
L'espressione della stima e dell'affetto loro, era in
quel momento un vero balsamo nel suo povero
cuore piagato. La sua tristezza, i suoi affanni, avevano
acquistato nell'ultimo colloquio una nuova
amarezza.
L'invito di recarsi a Blangy era fatto dal conte
e dalla figlia colle più tenere espressioni. Anche la
contessa ne la sollecitava. L'occasione n'era sì importante
per l'amica sua, che Emilia non potea ricusarvisi.
Avrebbe desiderato non abbandonare le
placide ombre della sua dimora, ma sentiva la sconvenienza
di restarvi sola mentre Valancourt trattenevasi
ancora nelle vicinanze, oltrechè rifletteva che
la società e la varietà degli oggetti sarebbero riuscite
a tranquillare il suo spirito meglio della solitudine.
Quando Lodovico ritornò nel gabinetto, lo pregò
di raccontarle dettagliatamente le sue avventure, e
spiegarle per qual caso abitasse co' banditi in mezzo
ai quali lo aveva trovato il conte.
Egli obbedì. Annetta, la quale, in mezzo alle sue
tante ciarle, non aveva avuto il tempo di parlargliene,
si accinse ad ascoltare con ardente curiosità.
Ricordò prima alla padroncina e l'incredulità da
lei dimostrata ad Udolfo a proposito degli spiriti,
e la propria saggezza credendovi invece sì forte.
Emilia arrossì suo malgrado pensando alla fede
prestata ultimamente; notò soltanto che se l'avventura
di Lodovico avesse potuto giustificare la superstizione
d'Annetta, e' non sarebbe là a narrargliela.[107]
Il giovane sorrise, inchinossi e cominciò in
questi termini:
« Vi rammenterete, o signora, che il signor conte
ed il signor Enrico m'accompagnarono nell'appartamento
del nord. Per tutto il tempo che vi rimasero
non si presentò nulla di allarmante: appena
furono partiti, accesi un buon fuoco nella camera,
e sedetti presso al camino; aveva portato un libro
per distrarmi, e confesso che tratto tratto io guardava
qua e là con un sentimento simile alla paura.
Molte volte, quando il vento soffiava con violenza,
scuotendo le finestre, m'immaginai di udire rumori
molto strani; anzi una volta o due mi alzai, ed osservando
da per tutto non vidi altro che le grottesche
figure dei parati, le quali pareva mi facessero
boccacce. Passai così più di un'ora, e poi mi
parve udir rumore, esaminai di nuovo la camera,
e non vedendo nulla, ripresi il libro. Quando l'istoria
fu finita, mi assopii. D'improvviso fui svegliato
dal rumore che aveva già inteso; esso pareva
venire dalla parte del letto. Io non so se l'istoria
che aveva letta mi avesse alterata la fantasia,
o se mi venissero in mente tutte le ciarle che si
facevano su quell'appartamento; ma so bene che,
guardando il letto, mi parve vedere la faccia d'un
uomo fra le cortine. »
A tai parole, Emilia fremè e divenne inquieta ricordandosi
lo spettacolo veduto colà da lei e dalla
vecchia Dorotea. « Vi confesso, signorina, » continuò
Lodovico, « che mi si agghiacciò il cuore. Il
medesimo rumore risvegliò di nuovo la mia attenzione:
distinsi lo scricchiolio d'una chiave che girava
in una serratura, e quel che mi sorprendeva
di più era il non vedere alcuna porta d'onde potesse
provenire quel suono. Un istante dopo il cortinaggio
del letto fu alzato lentamente, e comparve
una persona: essa usciva da una porticina nel
muro. Restò un momento nella medesima attitudine,
col resto del volto nascosto dal lembo della tappezzeria,[108]
cosicchè non vedeasi altro che i suoi occhi.
Quando sollevò il capo, vidi di dietro a lei la
figura d'un altro uomo, che guardava per disopra
le spalle del primo. Non so come andasse la faccenda:
la mia spada era sul tavolino, ma non ebbi
la presenza di spirito d'impugnarla: restai zitto e
cheto a considerarli cogli occhi mezzo chiusi, affinchè
mi credessero addormentato. Suppongo che
realmente ne fossero persuasi; li udii concertarsi,
e restarono in quella posizione per lo spazio di
circa un minuto; allora credetti vedere altre teste
nell'apertura della porta, ed intesi parlar più forte.
— Questa porticina mi sorprende; » interruppe
Emilia; « mi fu detto che il conte avea fatto levar
tutte le cortine ed esaminar le pareti, credendo che
celassero qualche andito pel quale fosse partito.
— Non mi par tanto straordinario, signorina, che
quell'usciuolo abbia potuto sfuggire agli sguardi;
esso è praticato in una parete sottile che sembra
far parte del muro esteriore, per cui quand'anco il
signor conte l'avesse osservato, non avrebbe badato
ad una porta colla quale nessun passaggio parea
dovesse comunicare. Fatto sta che il passaggio
era nella grossezza del muro. Ma, per tornare agli
uomini ch'io distingueva confusamente nello sfondo
della porticina, ei non mi lasciarono a lungo in
sospeso; precipitaronsi nella camera e mi circondarono:
io aveva presa la spada, ma che poteva
fare un uomo contro quattro? Fui ben presto disarmato;
mi legarono le braccia, e postomi un bavaglio
in bocca, mi trascinarono nell'andito. Prima
di partire però lasciarono la mia spada sul tavolino,
per soccorrere, dicevano essi, coloro che venissero al
par di me, a combattere gli spiriti. Mi fecero traversare
parecchi corridoi strettissimi formati nella
grossezza del muro, e dopo avere sceso molti gradini,
giungemmo ad una vôlta sotto il castello.
Aprirono un uscio di pietra, ch'io credeva far
parte del muro; percorremmo un lunghissimo passaggio[109]
scavato nel masso; un'altra porta ci condusse
ad un sotterraneo, e finalmente, dopo qualche
intervallo, mi trovai sul lido del mare appiè delle
rupi stesse, sulle quali sorge il castello: trovammo
una barca che aspettava quei birbanti; mi vi trascinarono,
e andammo a bordo d'un piccolo bastimento
ancorato a poca distanza. Quando fui là
dentro, due de' miei compagni restarono con me;
gli altri ricondussero la barca, ed il bastimento si
mise alla vela. Compresi allora il significato di tutto
ciò, e che cosa facessero quella gente al castello.
Sbarcammo al Rossiglione: dopo qualche giorno, i
loro compagni vennero dalle montagne, e mi condussero
nel forte in cui mi trovava quando giunse
il signor conte. Avean cura d'invigilarmi, ed anzi
m'aveano bendati gli occhi per condurmivi; ma
anche senza questa precauzione, credo mi sarebbe
stato assai difficile ritrovar la strada per quell'aspra
contrada. Appena fui colà, mi tenevano come
un prigioniero: non poteva mai uscire senza due o
tre de' miei compagni, ed era sì stanco della vita,
che andava studiando il modo di terminare la mia
miserabile esistenza.
— Ma però vi lasciavan parlare, » disse Annetta;
« non vi mettevan più il bavaglio. Non capisco perchè
eravate sì stanco di vivere, senza parlare della
probabilità che avevate di rivedermi. »
Lodovico sorrise, siccome anche Emilia, la quale
gli domandò per qual motivo quegli uomini l'avessero
rapito.
« Mi accorsi tosto, » ripigliò egli, « che coloro
erano pirati, i quali da molti anni nascondevano il
loro bottino nei sotterranei del castello, che, essendo
vicino al mare, conveniva perfettamente ai loro disegni.
Onde non essere scoperti avevano adoperato
ogni mezzo per far credere che il castello era frequentato
dagli spiriti e dalle ombre, ed avendo
scoperto la via segreta, la quale conduceva all'appartamento
del nord, che dopo la morte della marchesa[110]
stava sempre chiuso, non fu lor difficile riuscirvi.
La custode e suo marito, le uniche persone
che abitassero nel castello, spaventati oltremodo
dagli strani rumori che udivano, ricusarono di soggiornarvi
più a lungo. Allora tutto il paese credè
facilmente che il castello fosse abitato da' folletti,
tanto più che la marchesa era morta in una maniera
molto strana, e che il marchese da quel punto non
eravi più tornato.
— Ma, » disse Emilia, « perchè mai que' pirati
non si contentavano della cava, e perchè stimavan
necessario deporre i loro furti nel castello?
— La cava, madamigella, stava aperta a tutti, »
ripigliò il giovane, « ed i loro tesori sarebbero stati
in breve scoperti. Ne' sotterranei invece erano sicuri,
finchè il castello incutesse terrore. E' parve che i
pirati vi recassero a mezzanotte le prese fatte per
mare, e ve le tenessero, finchè potessero venderle
vantaggiosamente. Erano essi intimamente collegati
co' contrabbandieri e banditi che vivono ne' Pirenei,
e vi fanno un traffico inesprimibile. Io restai dunque
con questa banda di malandrini fino all'arrivo del
signor conte. Non oblierò giammai la pena che sentii
nel vederlo; quasi lo tenni perduto. Io sapeva che
se mi faceva conoscere, i banditi avrebbero scoperto
il suo nome, e probabilmente ci avrebbero
ammazzati, tutti, per impedire ch'egli scoprisse il
loro segreto, come proprietario di Blangy. Evitai
la vista del signor conte, e invigilai sui briganti,
risoluto, se progettassero qualche violenza, di mostrarmi,
e combattere per la vita del mio padrone.
Non tardai a sentir macchinare una trama infernale;
si trattava di una strage generale. Mi arrischiai a
farmi conoscere alla gente del conte; narrai quanto
si progettava, e ci concertammo insieme. Il signor
conte, allarmato per l'assenza della figlia, domandò
dove fosse. I banditi non lo soddisfecero. Il mio
padrone e Santa-Fè divennero furiosi. Pensando
allora ch'era tempo di mostrarci, ci lanciammo[111]
nella stanza ov'era preparata la cena, gridando:
Tradimento! Signor conte difendetevi. Il conte ed
il cavaliere sguainarono la spada sul momento; la
zuffa fu ostinata, ma in fine noi restammo vincitori,
come avrete sentito nella lettera del mio
padrone.
— È un'avventura singolare, » disse Emilia;
« certamente, Lodovico, la vostra prudenza ed intrepidezza
meritano molti elogi. Vi sono però varie
circostanze relative all'appartamento del nord, ch'io
non comprendo ancora, e che voi forse sarete in
grado di decifrarmi. Avete mai udito raccontare
dai banditi i pretesi prodigi che operavano in quel
luogo?
— No, signorina, » rispose Lodovico; « non li
intesi parlarne mai: una volta sola li udii ridere
della vecchia custode, che quasi quasi stette per
sorprendere uno dei pirati. Fu dopo l'arrivo del
conte, e colui che fece la burla ne ridea a crepapelle. »
Emilia arrossì, e pregò Lodovico di raccontargli
dettagliatamente quanto sapeva.
« Ebbene, » diss'egli, « una notte che colui trovavasi
nella camera da letto, udì gente nel salotto
contiguo, e credendo non aver il tempo d'alzare il
parato ed aprir la porta, si nascose nel letto, e vi
restò per qualche tempo, credo io, molto intimorito.
— Come lo foste voi, » interruppe Annetta,
« quando aveste l'ardire di passarvi la notte.
— Sì, » rispose Lodovico, « appunto così. La
custode si avvicinò al letto con un'altra donna.
Temendo allora di essere scoperto, pensò che il
solo mezzo per salvarsi fosse quello di far loro
paura. Alzò dunque leggermente il trapunto; ma
il suo piano non riuscì, se non quando ebbe mostrata
la testa; allora esse fuggirono, ci diss'egli,
come se avessero veduto il diavolo, ed il birbante
se ne andò tranquillamente. »
Emilia non potè trattenersi dal ridere a questa[112]
spiegazione. Comprese l'incidente che l'aveva tanto
impaurita, e fu sorpresa di averne sofferto tanto;
ma considerò quindi, che appena lo spirito cede
alla debolezza della superstizione, qualunque inezia
basta a fare la massima impressione. Rammentandosi
però la musica misteriosa che si sentiva verso
mezzanotte al castello di Blangy, domandò a Lodovico
se per caso ne avesse saputo nulla, ma egli
non potè darne veruna spiegazione.
« So per altro, signorina, » aggiunse, « che i pirati
non vi hanno parte; so che ne ridono, e dicono
che il diavolo è senza dubbio alleato con loro.
— Scommetterei che hanno ragione, » disse Annetta
sempre con volto ilare. « Ho sempre creduto
che lui e gli spiriti fossero gli abitanti di quell'appartamento;
vedete dunque, signorina, che non
m'ingannava.
— Non si può negare che lo spirito maligno
non v'abbia una estrema influenza, » disse Emilia
sorridendo: « ma stupisco che i pirati persistessero
nella loro condotta; dopo l'arrivo del conte, egli
è certo che prima o poi dovevano essere scoperti.
— Ho motivo di credere, » rispose Lodovico,
« ch'essi non contassero seguitare che il tempo necessario
per mettere in salvo i loro tesori. Pare che
se ne occupassero subito dopo l'arrivo del conte;
ma non potevano lavorare che poche ore della notte,
e quando mi presero, la vôlta era già mezzo vuota.
Conveniva loro d'altronde di confermare tutte le
superstizioni relative all'appartamento, nel quale
ebbero la maggior premura di lasciar tutto al suo
posto per meglio mantener l'errore. Spesso, celiando
fra loro, si figuravano la costernazione degli abitanti
di Blangy per la mia scomparsa. A datare da
quel momento si credettero padroni assoluti del
castello. Seppi però che una notte, malgrado le loro
precauzioni, si scopersero quasi da sè. Andavano,
secondo il solito, a ripetere i sordi gemiti che facevano
tanta paura alle serve. Mentre stavano per[113]
aprire, udirono voci nella camera da letto; il signor
conte mi disse che vi stava lui stesso col signor
Enrico: udirono ambidue strani lamenti, opera senza
dubbio dei malandrini, fedeli al loro disegno di
spargere il terrore. Il signor conte mi confessò di
aver provato una sensazione maggiore della sorpresa:
ma siccome il riposo della famiglia esigeva
il silenzio, si guardarono bene dal farne parola ad
alcuno. »
Emilia, rammentandosi allora il cambiamento del
conte, dopo aver passata la notte in quel luogo misterioso,
ne riconobbe il motivo. Non fece nuove
interrogazioni a Lodovico, lo mandò a riposare, e
diede le disposizioni necessarie per ricevere i suoi
amici.
La sera, Teresa quantunque zoppa, venne a portarle
l'anello di Valancourt. Emilia s'intenerì nel
vederlo, ma la rimproverò d'averlo ricevuto, e ricusò
d'accettarlo, malgrado il tristo piacere ch'essa
ne avrebbe avuto. Valancourt lo portava in tempi
più felici. Teresa pregò, supplicò, le rappresentò
l'abbattimento in cui era il cavaliere quando le
consegnò l'anello, le ripetè ciò ch'ei le aveva ordinato
di dire. Emilia, non potendo nascondere il
dolore che le cagionava quel racconto, proruppe in
dirotto pianto.
« O Dio! Mia cara padroncina, » disse Teresa,
« perchè piangete? Vi conosco fin dall'infanzia, vi
amo come mia figlia, e vorrei vedervi felice. È vero
che conosco il signor Valancourt da poco tempo;
ma ho però forti ragioni per amarlo come mio
figlio! Io so benissimo che vi amate scambievolmente!
Perchè dunque piangere? » Emilia le fe'
segno di tacere, ma essa continuò: « Vi somigliate
amendue per ispirito e carattere; se foste maritati,
sareste la coppia più felice. Chi impedisce il vostro
matrimonio? Dio buono! Dio mio! Come mai si
può veder gente che sfuggono la loro felicità, piangono
e si disperano quasi non dipendesse da loro[114]
l'esser contenti, e come se gli affanni ed il pianto
valessero più del riposo e della pace! La scienza
è certo una bella cosa, ma se non rende più saggi
di così, preferisco di non saper mai nulla. »
L'età ed i lunghi servigi di Teresa le accordavano
il diritto di dire il suo parere; non per tanto
Emilia l'interruppe, e quantunque riconoscesse la
giustizia delle di lei osservazioni, non volle spiegarsi.
Si limitò a dirle che questo discorso l'affliggeva;
che, per regolare la sua condotta, aveva
motivi che non poteva spiegarle, e che bisognava
restituir l'anello al cavaliere, dicendogli com'essa
non potesse accettarlo. Le disse in seguito, che se
faceva caso della sua stima ed amicizia, non doveva
più incaricarsi di veruna ambasciata di Valancourt.
Teresa ne fu commossa, e tentò insistere, ma il malcontento
esternato dalla fisonomia della padroncina,
le impedì di proseguire, e partì afflitta e maravigliata.
Per sollevare in qualche modo l'affanno e l'oppressione
sua, Emilia si occupò dei preparativi del
viaggio. Annetta, che la aiutava, parlava incessantemente
del ritorno di Lodovico colla più tenera
effusione. Emilia pensò che avrebbe potuto anticipare
la loro felicità, e decise che, se Lodovico era
costante quanto la semplice e buona cameriera, le
avrebbe dato una buona dote, e li avrebbe impiegati
in qualche parte de' suoi beni. Queste considerazioni
la fecero pensare alla porzione di patrimonio,
dal di lei padre venduta a Quesnel. Desiderava
ricomprarla, perchè Sant'Aubert aveva dimostrato
sovente il maggior rincrescimento che la
dimora principale de' suoi avi fosse passata in mani
straniere. Quel luogo, d'altronde, l'aveva veduta
nascere, ed era la culla de' suoi primi anni. Poco
le caleva de' beni di Tolosa, e si propose di venderli
per riacquistare il patrimonio avito, se Quesnel
acconsentisse a disfarsene. Tale accomodamento
non le pareva impossibile, dacchè egli s'occupava
di stabilirsi in Italia.
[115]
CAPITOLO LIII
Il giorno dipoi, l'arrivo de' suoi amici rianimò
l'afflittissima Emilia. La valle fu nuovamente l'asilo
d'un'amabile società. La sua indisposizione e
lo spavento avuto, toglievano a Bianca qualcosa della
sua vivacità, ma ella conservava però un'ingenua
semplicità, che la rendeva ancor più interessante.
La trista avventura de' Pirenei faceva desiderare
impazientemente al conte di tornare al suo castello.
Dopo una settimana, Emilia si preparò a seguire i
di lei ospiti in Linguadoca, ed affidò a Teresa la
cura della casa nella sua assenza. La vigilia della
partenza, la buona vecchia le riportò l'anello di
Valancourt, scongiurandola, colle lagrime agli occhi,
di accettarlo. Non aveva più veduto il cavaliere, nè
più udito parlar di lui dal momento che glie l'aveva
consegnato. Sì dicendo esternava in volto maggior
inquietudine che non volesse manifestarne. Emilia
represse la sua, e pensando ch'era per certo
tornato dal fratello, persistè nel rifiuto, e raccomandò
a Teresa di conservarlo, finchè rivedesse
Valancourt.
Il giorno seguente partirono tutti dal castello
della valle, e giunsero l'indomani a Blangy. La
contessa, Enrico e Dupont, che Emilia fu sorpresa
di trovare colà, li ricevettero con indicibil trasporti
di gioia. La fanciulla si afflisse molto nel vedere che
il conte alimentava sempre le speranze dell'amico.
La sera del secondo giorno, Villefort le parlò nuovamente
delle offerte di Dupont: l'estrema dolcezza
di Emilia nell'ascoltarlo lo ingannò sullo stato del
di lei cuore; credè egli che Valancourt fosse quasi
dimenticato, e ch'ella potesse avere favorevoli disposizioni
per Dupont. Allorchè la di lei risposta
l'ebbe convinto del suo errore, il suo zelo per assicurare
la felicità di due persone che stimava cotanto
lo spinse a farle conoscere che, per un affetto[116]
male impiegato, avvelenava i più bei giorni della
vita. Vedendo il di lei silenzio e l'abbattimento
della sua fisonomia, il conte finì per dirle: « Non
insisterò di più, ma son convinto appieno che non
rigetterete sempre un uomo tanto stimabile come
il signor Dupont. » Le risparmiò la pena di rispondere,
e s'allontanò subito.
Emilia continuò a passeggiare, affliggendosi che
il conte non desistesse da un progetto da lei sempre
respinto. Perduta nelle sue tristi riflessioni, si
trovò insensibilmente al bosco che circondava il
convento di Santa Chiara, alla vista delle cui torri,
accortasi allora quanto si fosse allontanata, risolse
di prolungare un po' più la passeggiata, e d'andare
ad informarsi della badessa e delle monache sue
amiche. Entrò nel parlatorio, e non avendovi trovato
nessuno, suppose che fossero tutte in chiesa;
finalmente giunse una monaca cercando la badessa
con aria d'impazienza, senza osservare Emilia. Ella
si fece conoscere, ed intese che stavano pregando per
l'anima di suor Agnese, la quale aveva languito per
molto tempo, ed in quel momento era moribonda.
La monaca le fece il dettaglio dei patimenti di suor
Agnese, e le orribili convulsioni da essa patite. Era
ricaduta in uno stato tale di disperazione, che nè
le sue proprie orazioni, alle quali si univano quelle
di tutta la comunità, nè le assicurazioni del confessore,
non potevano calmarla, e lasciarle gustare
un solo istante di quiete.
Emilia ascoltò tutto col massimo interesse; si
rammentava lo smarrimento notato sovente nella
fisonomia di suor Agnese, non meno che il racconto
di suor Francesca, e la di lei pietà diveniva maggiore.
Era già tardi; Emilia non potè nè vederla,
nè andar a pregare per lei in quel punto; incaricò
la monaca de' suoi complimenti per tutta la comunità,
e se ne tornò al castello, pensando tristamente
alla misera agonizzante.
[117]
CAPITOLO LIV
La sera del giorno dopo, Emilia, volendo saper
le nuove di suor Agnese e rivedere le amiche, persuase
Bianca di tenerle compagnia fino al monastero,
alla cui porta videro una carrozza co' cavalli
bagnati di sudore, lo che indicava essere giunti da
pochi minuti. Regnava il più cupo silenzio nel cortile
e nei chiostri ch'esse traversarono. Arrivando
nel salone, furono informate da una monaca che suor
Agnese viveva ancora in perfetto sentore, ma che
sicuramente sarebbe morta nel corso della notte.
Nel parlatorio, parecchie educande vennero a salutarla
e a discorrere con lei. Di lì a poco sopraggiunse
la badessa, ed espresse la massima soddisfazione
nel rivedere Emilia; le sue maniere però
avevano una singolar gravità, ed era di mesto umore.
« La nostra casa, » diss'ella dopo i primi complimenti,
« è veramente una casa di duolo. Una delle
nostre sorelle paga in questo momento il tributo
alla natura; voi non ignorate senza dubbio che la
nostra povera Agnese è moribonda. La morte ci
presenta una grande ed importante lezione; sappiamo
profittarne, ed impariamo a prepararci al cambiamento
che ci attende. Voi siete giovane, mia cara
Emilia, e potete acquistare l'inapprezzabile pace
della coscienza. Conservatela in gioventù, affinchè
divenga un giorno il vostro conforto. Invano avremo
fatto qualche buon'azione nell'età provetta, se i nostri
primi anni saranno stati macchiati da qualche
delitto. Gli ultimi giorni di Agnese sono stati esemplari.
Possano dunque espiare le colpe della sua
gioventù! I di lei patimenti attuali sono troppo
terribili; ma speriamo che le assicureranno il riposo
eterno. L'ho lasciata col suo confessore, e con un
signore cui desiderava ardentemente di vedere, e
ch'è arrivato or ora da Parigi: ardisco lusingarmi
che l'aiuteranno a riacquistare la calma, della quale[118]
il suo spirito ha tanto bisogno. Durante la sua malattia,
essa vi ha rammentata talvolta. Potrebbe darsi
ch'ella provasse qualche consolazione nel vedervi.
Quando sarà sola andremo a trovarla, se ne avrete
il coraggio. Queste scene straziano il cuore, lo confesso;
ma è bene abituarvisi, poichè sono molto salutari
per l'anima, e ci preparano a quanto dobbiamo
soffrire. »
Emilia divenne grave e pensierosa; questo discorso
le rammentava le massime del suo buon padre, e
sentì il bisogno di piangere nuovamente sulla di lui
tomba. Nell'intervallo del silenzio che susseguì le
parole della badessa, le tornarono in memoria alcune
minute circostanze de' suoi ultimi momenti:
la commozione da lui mostrata udendo d'esser vicino
al castello di Blangy, la domanda di essere
sepolto in un certo luogo del monastero, e l'ordine
così positivo di bruciar quelle carte senza leggerle.
Si rammentò inoltre le parole orribili e misteriose
del manoscritto lette involontariamente, e cui non
si ricordava mai senza una penosa curiosità sul senso
che potevano avere e sul divieto del padre. Era nonostante
contentissima d'avere obbedito ciecamente.
La badessa non disse altro, essendo tanto commossa
dal soggetto trattato che non poteva proseguire,
e stavano tutte in silenzio per l'egual motivo.
La meditazione generale fu poco stante interrotta
dall'arrivo di un forestiere. Era esso il signor
Bonnac, che usciva in quel punto dalla cella d'Agnese.
Pareva assai turbato; ma Emilia credè notare
nelle sue espressioni più orrore che dolore.
Trasse in disparte la badessa e le parlò per qualche
minuto: ella parve star molto attenta: parlava
con riflessione e cautela, e mostrava grande interesse.
Dopo ch'egli ebbe finito, salutò tutti rispettosamente,
e si ritirò. La badessa propose ad Emilia
di andare nella camera di suor Agnese; essa vi
acconsentì con qualche ripugnanza, e Bianca restò
colle educande.[119]
Alla porta della camera, trovarono il confessore,
il quale, al loro accostarsi, alzò il capo, ed Emilia
riconobbe lo stesso che aveva assistito suo padre;
ma egli era astratto, e passò senza osservarla. Entrate
nella cella, trovarono suor Agnese distesa sopra
una stuoia; presso di lei eravi un'altra monaca.
Era essa così cambiata, che Emilia avrebbe difficilmente
potuto riconoscerla, se non fosse stata avvertita.
La sua fisonomia era tetra ed orribile; gli occhi,
infossati e velati, stavan fissi sopra un crocifisso
che stringevasi al petto; era così assorta, che
da principio non vide nè la badessa, nè Emilia. Finalmente,
voltando gli occhi grevi, li fissò con orrore
sopra Emilia, sclamando:
« Ah! questa visione mi perseguita fino all'ultimo
respiro. »
Emilia indietreggiò spaventata guardando la badessa,
che le fece cenno di non temere, e poi disse
a suor Agnese: « Figliuola, questa giovine che vi
ho condotta è madamigella Sant'Aubert: mi lusingava
che l'avreste veduta con piacere. » Agnese non
rispose nulla, e considerando Emilia con orribile
smarrimento, sclamò: « È dessa. Ah! ell'ha negli
sguardi quelle attrattive, che fecero la mia perdita.
Che volete? Che cercate? Una riparazione? L'avrete;
anzi l'avete già avuta. Quanti anni sono
scorsi dacchè non vi ho veduta? Il mio delitto è
di ieri; soltanto invecchiai sotto il di lui peso; e
voi siete sempre giovine, sempre bella! Bella come
all'epoca in cui mi costringeste a quell'esecrabile
delitto... Oh! se potessi obliarlo!... Ma a che servirebbe?...
Io lo commisi! »
Emilia, estremamente commossa, voleva ritirarsi.
La badessa la prese per mano, la incoraggì, e la
pregò di aspettare che suor Agnese fosse più tranquilla.
Procurò di calmarla, ma la delirante non l'ascoltava,
e guardando sempre Emilia, continuò: « A
che servono dunque tanti anni d'orazione e di pentimento?
No, essi non bastano a lavar la macchia[120]
dell'omicidio, sì dell'omicidio. Dov'è egli? dov'è?
Guardate, guardate là! s'aggira per questa camera.
Perchè venite a turbarmi in questo momento? »
ripigliò Agnese, i cui occhi percorrevano lo spazio.
« Non son io dunque abbastanza punita? Deh! per
pietà, non mi guardate con occhio così severo. Oh
cielo! ancora! è dessa! è dessa! Perchè mi guardate
con tanta pietà? perchè sorridete? Sorridere
a me! Ma qual gemito! udiste?... »
Suor Agnese ricadde, e parve spirare, Emilia, non
potendo reggersi s'appoggiò al letto; la badessa e
l'assistente s'affrettarono a soccorrere la derelitta.
Emilia voleva parlarle.
« Zitto, » disse la badessa, « il delirio è finito
essa sta alquanto meglio.
— Sorella, è un pezzo che si trova in questo
stato?
— Eran parecchie settimane che non aveva avuto
un accesso così violento, » rispose la monaca; « ma
l'arrivo di quel gentiluomo, che desiderava tanto di
vedere, l'ha agitata forte.
— Sì, » ripigliò la badessa, « ed ecco per certo
la causa del delirio; quando starà meglio, la lasceremo
quieta. »
Emilia acconsentì volentieri; ma benchè fosse di
poca utilità, non volle ritirarsi fin quando potè credere
d'essere di qualche aiuto.
Quando suor Agnese ebbe ripresi i sensi, guardò
ancora Emilia, ma senza smarrimento, e con una
profonda espressione di dolore; passarono alcuni
minuti prima che potesse parlare, poi disse debolmente:
« La somiglianza è maravigliosa! è più che
immaginazione riscaldata! Ditemi, ve ne scongiuro,
se, malgrado il nome di Sant'Aubert, che voi portate,
non siete figlia della marchesa.
— Di qual marchesa? » rispose Emilia attonita.
La calma delle maniere d'Agnese le aveva fatto credere
al ritorno della sua ragione. La badessa le diè
un'occhiata d'intelligenza, ma essa ripetè la domanda.[121]
« Di qual marchesa? » sclamò Agnese; « io ne
conosco una sola: la marchesa di Villeroy. »
Emilia, rammentandosi la commozione di suo padre,
allorchè gli fu nominata questa dama, e la domanda
da lui fatta di esser sepolto presso le tombe de'
Villeroy, provò un estremo interesse, e pregò suor
Agnese di spiegare i motivi di tale interrogazione. La
badessa avrebbe voluto fare uscire Emilia, la quale,
troppo interessata, reiterò la domanda con calore.
« Portatemi la mia cassetta, sorella, » disse Agnese,
« e vi svelerò tutto. Guardatevi in quello specchio,
e lo saprete; voi siete certo sua figlia; altrimenti
come spiegare una somiglianza così perfetta? »
La monaca le portò la cassetta; suor Agnese gliela
fece aprire, e ne cavò una miniatura, che Emilia
riconobbe esattamente somigliante a quella da lei
trovata nelle carte di suo padre. Agnese stese la
mano per pigliarla, la contemplò qualche tempo in
silenzio, poi alzò gli occhi al cielo, e recitò sottovoce
un'orazione; quand'ebbe finito, restituì il ritratto
ad Emilia. « Tenetelo, » le disse, « ve lo
dono, e credo che ne abbiate diritto; la vostra somiglianza
mi ha colpito sovente, ma fino a questo
momento non aveva turbata tanto la mia coscienza.
Ma restate, sorella, » soggiunse, vedendo che l'infermiera
volea partire, « non portate via la cassetta;
essa contiene un altro ritratto. »
Emilia tremava per l'ansietà, e la badessa volea
trascinarla via. « Agnese torna a delirare, le disse;
« osservate come vaneggia! Ne' suoi accessi, essa
non è più in sentore, e si accusa, come vedete, de'
più orribili misfatti. »
La giovane per altro credette scorgere in quel
delirio tutt'altro che follia. Il nome della marchesa,
il suo ritratto aveano per lei bastante interesse,
e risolse di procurarsi maggiori schiarimenti.
La monaca portò indietro la cassetta. Agnese calcò
una molla, e scoperto un altro ritratto, lo mostrò
dicendo:[122]
« Ecco una lezione per la vanità; guardate questo
ritratto, ed osservate se c'è qualche rapporto fra
quello ch'io sono e quello che sono stata. »
Emilia s'affrettò a prenderlo; è impossibile descrivere
la sorpresa ed il terrore di lei, allorchè
riconobbe in esso la perfettissima somiglianza con
quello della signora Laurentini, che aveva veduto
al castello di Udolfo: di quella dama sparita in
modo così misterioso, e che si sospettava fatta perire
da Montoni.
Muta e attonita, la giovine guardava alternamente
il ritratto e la monaca moribonda, cercando invano
una somiglianza che allora non esisteva più.
« Perchè quegli sguardi severi? » disse suor
Agnese, non comprendendo la sorpresa di Emilia.
— Ho già veduta questa figura, » disse infine la
giovine; « è egli realmente il vostro ritratto?
— Or potete domandarlo, » rispose Agnese; « ma
vi accerto che un tempo era somigliantissimo. Guardatemi
attenta e vedete l'effetto del delitto!... Allora
io era innocente, e le mie sciagurate passioni
dormivano ancora. Sorella mia, » soggiunse gravemente,
e prendendo nella sua mano fredda ed umida
una mano di Emilia, che fremette a quel tocco,
« sorella mia, guardatevi bene dal primo movimento
delle passioni! Guardatevi dal primo! Se non si
arresta il loro corso, esso è rapido; la loro forza
non conosce alcun freno: desse ci trascinano ciecamente
a delitti, che non possono venir cancellati da
lunghi anni di preghiere e di penitenza. È tale
l'impero d'una passione, che domina tutte le altre,
e s'impadronisce di tutte le vie del cuore; è una
furia che ci rende insensibili alla pietà e alla coscienza,
e quando il suo scopo è compiuto, furia
sempre più spietata e crudele, ci abbandona per
nostro tormento a tutti quei sentimenti che aveva
sospesi, ma non soffocati, ai supplizi della coscienza,
del rimorso e della disperazione. Ci svegliamo come
da un sogno: siamo circondati da un nuovo mondo[123]
attoniti e spaventati; ma il delitto è commesso. Il
potere riunito del cielo e della terra non può annientarlo,
ed i fantasmi ci perseguitano. Cosa sono
le ricchezze, la salute e la grandezza, in confronto
dell'inestimabil vantaggio di una coscienza pura, in
confronto della salute dell'anima? Cosa sono gli affanni
della povertà, del disprezzo e della miseria, in confronto
dell'angoscia d'una coscienza in preda ai rimorsi?
Oh! quanto tempo è scorso da che ho perduto
la pace dell'innocenza. Ho gustato ciò che chiamavasi
dolcezza della vendetta; ma quanto è passaggiera!
Ella spira col di lei oggetto. Rammentatevene, sorella
mia, le passioni sono il germe del vizio, come
quello della virtù; ambedue possono essere il risultato:
ciò dipende dalla maniera di governarle, e
guai a coloro che non hanno mai imparato quest'arte
tanto necessaria.
— Sventurato colui, » disse la badessa, « che
conosce male la nostra santa religione! »
Emilia ascoltava Agnese in silenzio e con rispetto:
considerava la miniatura, e si accertava della
somiglianza del ritratto con quello veduto a Udolfo.
« Questa figura non mi è ignota, » diss'ella per
far ispiegare la monaca.
— Voi v'ingannate, » rispose suor Agnese, « e non
l'avete mai certamente veduta.
— No, » soggiunse Emilia; « ma ho veduto la sua
perfetta somiglianza.
— È impossibile, » disse suor Agnese, che ora
potremo chiamare la signora Laurentini.
— Era nel castello di Udolfo, » continuò Emilia,
guardandola fiso.
— Di Udolfo! » esclamò la signora Laurentini
« di Udolfo in Italia?
— Precisamente, » rispose Emilia.
— Allora voi mi conoscete, e siete la figlia della
marchesa. »
Emilia stupefatta da quella positiva asserzione,
rispose:[124]
« Io son figlia di Sant'Aubert, e la dama che
voi nominate mi è affatto estranea.
— Voi lo credete? » rispose la Laurentini.
Emilia le domandò per qual motivo pensasse il
contrario.
« La vostra somiglianza, » disse la monaca. « È
noto che la marchesa era molto affezionata ad un
gentiluomo di Guascogna, quando sposò il marchese
per obbedire a suo padre. Donna infelice! »
Emilia, rammentandosi l'eccessiva commozione
di Sant'Aubert al nome della marchesa, avrebbe
provato allora un sentimento ben diverso dalla sorpresa,
se avesse conosciuto meno la probità del
padre. Il rispetto che aveva per lui non le permise
di fermarsi alla supposizione che le insinuava la
Laurentini; la sua curiosità però crebbe a dismisura,
e la scongiurò di spiegarsi più chiaramente.
« Non mi sollecitate a tal proposito, » rispose la
monaca; « è troppo terribile per me: potessi cancellarlo
per sempre dalla memoria! »
Sospirò profondamente, e chiese alla giovine in
qual modo avesse saputo il suo nome.
« Dal ritratto che vidi ad Udolfo e dalla somiglianza
di questa miniatura.
— Voi dunque siete stata nel castello di Udolfo? »
disse la monaca con estrema emozione. « Quali
scene mi rammenta quel luogo! Scene di felicità,
di patimenti e d'orrore! »
In quel punto, il terribile spettacolo veduto da
Emilia in una camera del castello le tornò alla memoria;
guardando la signora Laurentini, si rammentò
le ultime parole di lei, che la macchia d'un
assassinio non poteva esser lavata da molti anni
d'orazione e di penitenza, e si vide costretta di attribuirle
a tutt'altra causa che al delirio: provò
un orrore inesprimibile sembrandole di vedere un'omicida...
ed infatti, tutta la condotta della Laurentini
confermava questa supposizione; Emilia si perdè
in un abisso di congetture, e non sapendo in qual[125]
modo chiarire simili dubbi, disse soltanto con parole
tronche:
« La vostra improvvisa partenza da Udolfo... »
La monaca sospirò. « Tutte le voci che corrono, »
continuò Emilia... « la camera di ponente... quel
velo di lutto... l'oggetto ch'esso cuopre, quando i
misfatti son compiuti... » La monaca sclamò: « Come!
ancora? » E cercando di sollevarsi, gli smarriti
suoi sguardi parean discernere un oggetto. « Risorgere
dalla tomba! Come! sangue e sangue sempre...
Non ci fu sangue; tu non puoi dirlo... Oh!
non sorridere, non sorridere con quel piglio pietoso... »
La Laurentini cadde in convulsioni: Emilia, incapace
di reggere più a lungo ad una tale scena,
fuggì dalla camera, ed andò a raggiungere Bianca
e le educande ch'erano nel parlatorio. Le si affollarono
tutte intorno, e spaventate dal terrore che
ella manifestava, le fecero mille domande. Essa evitò
di rispondervi, aggiungendo solo che suor Agnese
era in agonia. Un quarto d'ora dopo furono informate
che stava un poco meglio. La badessa comparve
di lì a poco, e pregò Emilia di tornar da lei
il giorno dipoi, giacchè aveva una cosa di qualche
importanza da comunicarle. La giovane glielo promise,
e se ne tornò al castello con Bianca. Cammin
facendo, videro Dupont che parlava col forestiero
veduto al monastero. Allorchè furono ad essi vicino,
il forestiero si congedò, ed egli tornò al castello.
Villefort, udendo nominare Bonnac, disse che lo
conosceva da lunga pezza; seppe il tristo oggetto
del suo viaggio, ed avendo inteso ch'era alloggiato
in un'osteria del paese poco distante, pregò l'amico
di andar a cercarlo perchè venisse ad abitare al
castello. Dupont vi si prestò con piacere; Bonnac
accettò l'invito. Il conte colle sue attenzioni ed Enrico
col suo brio fecero di tutto per dissipar la
tristezza che sembrava opprimere il loro nuovo[126]
ospite. Bonnac era un uffiziale al servizio francese,
dell'età di circa cinquant'anni, alto di statura, di
nobile portamento, affabile di maniere, e di fisonomia
interessantissima. Il di lui volto, che pareva
essere stato bello, portava un'impronta malinconica
che sembrava provenire da lunghi affanni, anzichè
da disposizione naturale.
Si separarono subito dopo cena. Quando Emilia
si fu ritirata nella sua camera, le scene di cui era
stata testimone se le presentarono nuovamente con
orribile energia. Aver trovato in una monaca moribonda
la signora Laurentini! Colei che, in vece
d'essere stata vittima di Montoni, sembrava anzi
rea ella stessa d'un delitto abominevole! Ciò era
per lei un gran soggetto di sorpresa e di meditazione.
I discorsi fatti sul matrimonio della marchesa,
e tutte le sue interrogazioni sulla nascita di
Emilia, erano proprie ad ispirare a chiunque sorpresa
ed interesse.
L'istoria di suor Agnese, raccontata da suor
Francesca, diveniva evidentemente falsa; ma qual
potesse essere stato il motivo per cui era stata immaginata,
Emilia non sapeva indovinarlo. Quanto
poi eccitava maggiormente la di lei curiosità, era
la relazione che la marchesa di Villeroy poteva aver
avuto col di lei padre. La dolorosa sorpresa dimostrata
da Sant'Aubert nell'udirne pronunziare il
nome, la domanda da lui fatta d'essere sepolto vicino
a lei, e il ritratto di quella dama trovato fra
le sue carte, provavano esservi stato qualche rapporto
fra loro. Talvolta Emilia pensava che il padre
potesse essere stato l'amante preferito dalla
marchesa, quando fu costretta di sposare Villeroy;
ma non poteva persuadersi ch'egli avesse conservata
la sua passione dopo quel matrimonio. Non
dubitava però quasi più che le carte, di cui suo padre
avevale ordinata la distruzione, non fossero relative
alla marchesa, e se fosse stata meno certa dei
rigidi principii di Sant'Aubert, avrebbe creduto che[127]
il mistero della sua nascita fosse andato sepolto
colle ceneri di quei manoscritti. Queste riflessioni
l'occuparono gran parte della notte; il sonno le
rappresentava del continuo la monaca moribonda, e
si svegliò piena d'idee lugubri.
Alla mattina, si sentì troppo indisposta per andare
a trovar la badessa, e verso mezzogiorno seppe
che suor Agnese aveva pagato il tributo alla natura.
Bonnac ne ricevè la nuova con dispiacere, ma Emilia
osservò ch'egli sembrava meno afflitto del giorno
precedente: questa morte senza dubbio l'affliggeva
meno della confessione statagli fatta. Comunque
fosse, egli era fors'anco un po' consolato pe' legati
statigli fatti. La di lui famiglia era numerosa; le
stravaganze d'un suo figliuolo l'avevano piombato
in un abisso d'affanni, e gettato perfino in carcere.
Il dolore che gli cagionava la condotta sconsiderata
di questo figlio, le spese e la rovina che ne fu la
conseguenza, avevangli dato quell'impressione di
tristezza notata da Emilia. Raccontò dettagliatamente
a Dupont tutte le sue disgrazie. Egli era stato
per molti mesi in prigione a Parigi, senza speranza,
per così dire, di uscirne, e trovandosi privo dei
conforti della moglie, che, in una provincia lontana,
tentava invano di muovere gli amici in suo
favore. Infine essa andò a trovarlo: ottenne di entrare
nel carcere, ma il cambiamento sensibilissimo in
cui gli affanni e la prigionia avevano piombato il suo
marito, l'accorò a segno, che ammalò gravemente.
« La nostra situazione, » continuò Bonnac, « commosse
tutti quelli che n'erano stati testimoni. Un
amico generoso, allora mio compagno di sventura,
ottenne di lì a poco la libertà, ed il primo uso che
ne fece, fu quello di tentare la mia. Vi riuscì; la
somma enorme ond'io era debitore fu pagata, e
quando volli esprimere la mia gratitudine al mio
benefattore, egli era già lungi da me. Io dubito
molto che la sua generosità abbia cagionata la sua
perdita, e sia ricaduto egli stesso in quei ferri, dai[128]
quali mi ha liberato. Per quante ricerche ne abbia
fatte, non ho mai potuto saper nulla del suo destino.
Amabile ed infelice Valancourt!
— Valancourt! » sclamò Dupont, « di qual famiglia?
— Valancourt dei conti Duverney, » rispose Bonnac.
È impossibile descrivere l'emozione di Dupont
quando scoprì nel rivale il benefattore del suo
amico. Dopo il primo moto di sorpresa, dissipò le
inquietudini di Bonnac, facendogli sapere che Valancourt
era in libertà, e trovavasi in Linguadoca.
La sua passione per Emilia lo strinse in seguito a
fare alcune domande sulla condotta del suo rivale
a Parigi. Bonnac ne pareva bene informato; le di
lui risposte lo convinsero appieno che Valancourt
era stato calunniato, e per quanto doloroso fosse il
suo sacrifizio, formò il progetto di riunire Emilia
all'amante, non parendogli ora più indegno dei sentimenti
ch'essa serbava per lui.
Bonnac raccontò che Valancourt, entrando nel
gran mondo, era caduto nei lacci statigli tesi dal
vizio e dall'impudenza; passava tutto il tempo fra
una marchesa dissoluta ed il giuoco, ove l'ingordigia
e l'avarizia de' suoi compagni avevano saputo
trascinarlo. Aveva perduto somme vistose colla speranza
di riguadagnarne piccole, ed erano appunto
queste le perdite delle quali Villefort e Enrico erano
stati sovente testimoni. Il conte suo fratello, irritato
da tale condotta, ricusò di fargli rimesse rilevanti
per soddisfare ai suoi debiti. Valancourt fu dunque
imprigionato ad istanza de' creditori, ed il fratello
ve lo lasciò per qualche tempo, sperando che un
tal castigo avrebbe corretto i suoi costumi, tanto
più non avendo avuto il tempo materiale per abituarsi
radicalmente al vizio ed alla dissolutezza.
Nell'ozio del carcere, Valancourt ebbe campo di
riflettere, e si pentì. La memoria di Emilia, indebolita
dalle sue dissipazioni ma sempre presente al
suo cuore, si rianimò con tutte le grazie dell'innocenza[129]
e della bellezza; sembravagli lo rimproverasse
di sacrificare la sua felicità ed i suoi talenti
ad occupazioni vergognose e detestabili. Le sue
passioni erano vive, ma il cuore non era corrotto;
l'abitudine non l'aveva stretto nelle catene del vizio,
e dopo molti sforzi e lunghi patimenti spezzò i
lacci della seduzione.
Liberato finalmente per cura del conte suo fratello,
e impietosito dalla scena commovente dei
coniugi Bonnac, ond'era stato testimonio, il primo
uso che fece della sua libertà fu al tempo istesso
un esempio d'umanità e di temerità; arrischiò, in
una casa da giuoco, quasi tutto il denaro mandatogli
dal fratello, coll'unica speranza di restituire
ai voti della sua famiglia l'amico infelice lasciato in
prigione. La fortuna lo favorì, ma colse tal momento
per fare il voto solenne di non ceder mai più alle
allettative di quel vizio rovinoso.
Dopo aver ridonato il venerabile Bonnac alla sua
riconoscente famiglia, Valancourt era ripartito per
Estuvière. Nell'entusiasmo suo di aver reso la felicità
a quell'infelice, obliò i propri mali. Si avvide
però ben presto di aver perduta tutta la sua sostanza,
senza della quale non poteva mai lusingarsi
di sposare Emilia. La vita, senza di lei, gli pareva
insopportabile. La sua bontà e delicatezza, e la semplicità
del suo cuore, ne rendevano la bellezza vie
più incantevole. L'esperienza avevagli insegnato ad
apprezzare le qualità che aveva sempre ammirate, ma
che il contrasto del mondo facevagli allora adorare.
Queste riflessioni accrebbero i suoi rimorsi ed il
suo rammarico. Cadde in un abbattimento, che non
potè essere distratto neppure dalla presenza di Emilia,
e si conobbe indegno di lei. In alcun tempo
però Valancourt non aveva subìto l'ignominia della
liberalità della marchesa di Campoforte, come aveva
creduto Villefort, nè partecipato mai alle astuzie
colpevoli de' giuocatori. Questi rapporti erano stati
fatti da coloro che si compiaciono di avvilire l'infelice.[130]
Il conte avevali avuti da una persona distinta,
e l'imprudenza di Valancourt era bastata per confermarli.
Emilia non glie ne aveva parlato particolarmente,
e per conseguenza non aveva potuto giustificarsi;
ed allorquando le confessò che non meritava
più la sua stima, non avrebbe mai creduto
di appoggiare egli stesso un'infame calunnia. L'errore
era stato reciproco, e non erasi presentata fino
allora l'occasione di rettificarlo.
Quando Bonnac ebbe spiegata la condotta di un
amico generoso, ma giovine ed imprudente, Dupont,
severo, ma giusto, decise tosto che bisognava disingannare
il conte e rinunziare ad Emilia. Un sacrificio
come quello che faceva allora il suo amore,
meritava una nobile ricompensa; e se Bonnac avesse
potuto obliare il benefico Valancourt, avrebbe desiderato
che Emilia accettasse la mano di Dupont.
Appena il conte ebbe riconosciuto il suo errore,
fu afflittissimo delle conseguenze della sua credulità.
I dettagli di Bonnac sulla condotta del suo
benefattore a Parigi lo convinsero che Valancourt
aveva ceduto agli artifizi del libertinaggio, più per
l'occasione di trovarsi co' compagni, che per
inclinazione al vizio. Incantato dell'umanità generosa,
quantunque temeraria, che mostrava il suo
procedere verso Bonnac, ne obliò i falli passaggieri,
e riprese per lui quella stima che avevagli inspirata
la sua prima conoscenza. La più lieve soddisfazione
che potesse accordare a Valancourt, era quella di
procurargli il modo di spiegarsi con Emilia. Gli
scrisse dunque immediatamente, pregandolo di perdonargli
un'offesa involontaria, e l'invitò a recarsi
subito a Blangy. La delicatezza del conte lo fece
astenere dall'informare Emilia di questa lettera, e
siffatta precauzione preservò la fanciulla da un affanno
ancor più terribile di quello avesse creduto
il conte, ignorando egli i sintomi della disperazione
di Valancourt.
[131]
CAPITOLO LV
Alcune circostanze singolari distrassero Emilia
dalle sue inquietudini, eccitando in lei sorpresa pari
ad orrore.
Pochi giorni dopo la morte della signora Laurentini,
fu aperto il testamento di quella dama in
presenza della superiora del convento e di Bonnac.
Un terzo de' suoi beni era stato lasciato al parente
più prossimo della marchesa di Villeroy, e questo
legato riguardava Emilia.
La badessa conosceva da molto tempo il segreto
della sua famiglia; ma Sant'Aubert, ch'erasi fatto
conoscere al religioso che avevalo assistito, aveva
prescritto che questo segreto restasse celato sempre
alla sua figlia. I discorsi però sfuggiti alla signora
Laurentini, e la strana confessione da lei fatta nei
suoi ultimi momenti, fecero creder necessario alla
badessa di parlare alla sua giovane amica d'un
soggetto che poteva illuminarla. Per questo motivo
adunque avrebbe voluto vederla il giorno seguente
a quello in cui era stata a visitare suor Agnese.
L'indisposizione di Emilia avevale impedito di recarsi
al monastero, ma dopo l'apertura del testamento,
essendo andata a Santa Chiara, venne informata
di molti dettagli che l'afflissero molto. Siccome
poi il racconto fatto dalla badessa sopprimeva
varie particolarità che possono interessare il
lettore, e che l'istoria della monaca è legata con
quella della marchesa, ometteremo la conversazione
del parlatorio, e daremo qui un ristretto della storia
della defunta.
Storia della signora Laurentini di Udolfo.
Era essa figlia unica ed erede dell'antica famiglia
di Udolfo nel territorio di Venezia. Il primo infortunio
della sua vita, e la vera sorgente di tutte le
di lei sciagure fu che i suoi genitori, i quali avrebbero[132]
dovuto moderare la violenza delle sue passioni,
ed insegnarle a regolarle, non fecero che fomentarle
con una colpevole indulgenza. Amavano in lei i
propri sentimenti. Lodavano sgridavano, la figlia non
secondo una tenerezza ragionevole, ma dietro la loro
inclinazione. L'educazione non fu per essa che un
misto di debolezza e di pertinacia che l'irritò. I
consigli che le venivano dati divennero altrettante
contese, in cui il rispetto figliale e l'amor paterno
erano egualmente dimenticati. Ma siccome quest'amor
paterno era sempre più forte, e si disarmava più
facilmente, la figlia credeva aver vinto, e lo sforzo
che facevano per moderare le sue passioni lor
somministrava sempre nuova forza.
La morte de' genitori la lasciò padrona di sè medesima
nell'età tanto pericolosa della gioventù e
della bellezza. Amava il gran mondo, s'inebbriava
del veleno della lode, e sprezzava la pubblica opinione
quando contraddiceva a' suoi gusti. Il di lei
spirito era vivo e brillante; aveva tutti i talenti,
tutte le attrattive che formano la grand'arte di sedurre.
La sua condotta fu quale potevano farlo presagire
la debolezza de' suoi principii e la forza delle
sue passioni.
Nel numero infinito de' suoi adoratori, vi fu il
marchese di Villeroy. Viaggiando in Italia, la vide a
Venezia, e se ne innamorò. Anch'essa fu colpita dalla
bella figura, dalle grazie e dalle qualità del marchese,
il più amabile de' gentiluomini francesi. Seppe nascondere
i pericoli del suo carattere, le macchie della
sua condotta, e il marchese chiese la di lei mano.
Prima della conclusione delle sue nozze andò al
castello di Udolfo, ove il marchese la seguì. Là,
meno riservata e prudente forse di quello fosse
stata fino allora, diè luogo all'amante di formar
qualche dubbio sulla convenienza nel nodo che stava
per istringere. Un'informazione più esatta lo convinse
del suo errore, e colei che doveva esser sua
moglie, divenne la sua concubina.[133]
Dopo aver passato alcune settimane a Udolfo, fu
d'improvviso richiamato in Francia: partì con ripugnanza,
e col cuore pieno della sua bella, colla
quale però aveva saputo differire la conclusione del
matrimonio. Per incoraggirla a sopportare tale separazione,
le diè parola di tornare a celebrar le
nozze appena i suoi affari glielo avessero permesso.
Consolata da tale assicurazione, la signora Laurentini
lo lasciò partire. Poco dopo, Montoni, suo
parente, venne a Udolfo, e le rinnovò proposte da
lei già respinte, che rigettò nuovamente. I suoi pensieri
eran tutti rivolti al marchese di Villeroy. Provava
per lui tutto il delirio d'un amore costante,
fomentato dalla solitudine in cui erasi confinata.
Aveva perduto il gusto de' piaceri e della società,
e la sua unica consolazione consisteva nel contemplare
e bagnar di lacrime un ritratto del marchese.
Visitava i luoghi testimoni della loro felicità, e sollevavasi
il cuore scrivendogli del continuo lettere
affettuosissime. Contava i giorni, e le ore, i minuti
che dovevano scorrere prima dell'epoca probabile
del suo ritorno. Questo periodo immaginario finì;
le settimane che susseguirono, divennero per lei
d'un peso insopportabile. La di lei fantasia occupata
in una sola idea, si disordinò. Il suo cuore
era dedito ad un solo oggetto, e quando credè averlo
perduto, la vita le divenne odiosa.
Scorsero parecchi mesi senza ch'ella ricevesse
una sola parola del marchese. Passava i giorni intieri
fra i trasporti di una passione furiosa ed il
cupo languore della più nera disperazione. Isolata
da tutto, e da tutti, si chiudeva in casa settimane
intiere senza parlare ad altri che alla sua confidente.
Scriveva lettere, rileggeva quelle ricevute una volta
dal marchese, piangeva sul di lui ritratto, e parlavagli
del continuo, ora per rimproverarlo, ora per
baciarlo con fervore.
Finalmente, si sparse la voce nel castello che il[134]
marchese si fosse maritato in Francia. Straziata dall'amore,
dalla gelosia e dallo sdegno, prese il partito
di andar segretamente in quel paese, e vendicarsi,
se il fatto era vero. Comunicò alla sola sua
confidente il progetto formato, e l'indusse a seguirla.
Prese tutte le sue gioie, e quelle raccolte
nelle successive eredità di vari membri della famiglia,
ch'erano d'immenso valore; e partita segretamente
in compagnia d'una sola cameriera, andò
a Livorno, ove s'imbarcò per la Francia.
Al suo arrivo in Linguadoca, venne a sapere che
il marchese di Villeroy era già ammogliato da qualche
tempo. La disperazione alterò la sua ragione.
Formava ed abbandonava contemporaneamente l'orribile
progetto di pugnalare il marchese, la di lui
sposa e sè medesima. Decise finalmente di presentarsegli,
rimproverargli la sua condotta, ed uccidersi
alla sua presenza. Ma quando l'ebbe riveduto,
quand'ebbe ritrovato il costante oggetto de' suoi
pensieri e della sua tenerezza, il risentimento cedè
all'amore: le mancò il coraggio; il conflitto di
tanti affetti contrari la rese tremante, e cadde svenuta
ai suoi piedi.
Il marchese non potè resistere alla prova di tanta
bellezza e sensibilità; tutta l'energia di un primo
sentimento si risvegliò; la ragione, ma non l'indifferenza,
aveva combattuto la sua passione. L'onore
non avevagli permesso di sposar la Laurentini;
aveva cercato di vincersi; aveva cercato una compagna,
per la quale non aveva che stima, considerazione
ed un ragionevole affetto. Ma la dolcezza e
le virtù di quella donna adorabile non poterono
consolarlo di un'indifferenza, ch'essa cercava indarno
nascondere. Egli sospettava da qualche tempo
che il di lei cuore fosse impegnato ad un altro, allorchè
la Laurentini giunse in Linguadoca. Questa
donna artifiziosa conobbe in breve tutto l'impero
ripreso su di lui. Calmata da tale scoperta, si determinò
a vivere, e moltiplicare gli artifizi per ridurre[135]
il marchese all'esecrabile misfatto cui credeva
necessario per assicurare la sua felicità. Perseverò
nel suo progetto con profonda dissimulazione ed
imperturbabile pazienza. Riuscì a staccare intieramente
il marchese dalla consorte. La sua dolcezza,
bontà e freddezza, così opposte alle maniere insinuanti,
alla voluttà inesprimibile d'una Veneziana,
cessarono ben tosto di piacergli. La Laurentini ne
profittò per destare nel di lui cuore la gelosia dell'orgoglio,
non potendo più risentir quello dell'amore:
giunse perfino a designargli la persona per
la quale affermava che la marchesa lo tradisse, dopo
avergli strappato il giuramento, che il rivale non
sarebbe stato mai l'oggetto della sua vendetta, nella
persuasione, che, restringendola così da una parte,
avrebbe preso dall'altra maggior violenza ed atrocità.
Pensò che così il marchese si sarebbe determinato
più facilmente all'atto orribile che diveniva
indispensabile a' suoi disegni, e doveva annichilare
l'unico ostacolo che sembrava impedire la di lei felicità.
L'innocente marchesa osservava con estremo dolore
il cambiamento del marito verso di lei. Alla
sua presenza, egli era pensieroso e riservato. La di
lui condotta diveniva sempre più austera ed aspra:
la lasciava struggere in lacrime, e per ore intiere
essa piangeva sulla di lui freddezza, facendo sempre
nuovi progetti per riguadagnarne l'affetto. La
di lui condotta l'affliggeva tanto più in quanto che
aveva sposato il marchese unicamente per obbedienza:
ne aveva amato un altro, col quale sarebbe
stata al certo felice; ma aveva saputo sacrificare la
passione ai doveri coniugali. La Laurentini, la quale
non tardò a scoprirlo, ne approfittò sagacemente.
Suggerì al marchese tante prove apparenti sull'infedeltà
della moglie, che, nell'eccesso del furore e
del risentimento per l'oltraggio che credeva aver
ricevuto, pronunciò il decreto fatale della sua morte.
Le fu dato un lento veleno, e quell'infelice morì[136]
vittima d'un'astuta gelosia e d'una colpevole debolezza.
Il trionfo della Laurentini fu di breve durata.
Quel momento, ch'essa aveva riguardato come il
colmo di tutti i suoi voti, divenne il principio di
un supplizio che la tormentò fino alla morte. La
sete della vendetta, prima motrice della sua atrocità,
fu spenta appena soddisfatta, e lasciolla in preda
alla pietà e ad inutili rimorsi. Gli anni di felicità
ch'erasi ripromessa col marchese di Villeroy ne sarebbero
stati indubbiamente avvelenati; ma anch'egli
trovò il rimorso nel compimento della sua vendetta
e la sua complice gli divenne odiosa. Tutto
ciò che gli era sembrato una convinzione, parvegli
allora svanire come un sogno; e fu oltremodo sorpreso,
dopo che la moglie ebbe subìto il suo supplizio,
di non trovare alcuna prova del delitto pel
quale l'aveva condannata. Al sapere ch'ella era in
fin di vita, sentì d'improvviso la persuasione della
sua innocenza, la quale gli venne confermata dall'assicurazione
solenne ch'essa gliene diede in punto
di morte.
Nel primo orrore del rimorso e della disperazione,
voleva darsi da per sè nelle mani della giustizia con
colei che l'aveva piombato nell'abisso del delitto.
Dopo questa crisi violenta, cambiò risoluzione: vide
una volta sola la Laurentini, ma per maledirla come
l'autrice detestabile di tanto misfatto. Le dichiarò
che non la risparmiava se non perchè consacrasse
i giorni all'orazione e alla penitenza. Oppressa dal
disprezzo e dall'odio d'un uomo, pel quale erasi
resa tanto colpevole; sovrappresa d'orrore per l'inutile
delitto, di cui si era macchiata, la Laurentini
rinunziò al mondo, e, vittima orribile d'una passione
sfrenata, prese il velo nel convento di Santa
Chiara.
Il marchese partì dal castello di Blangy, nè vi
tornò più. Procurò di spegnere i rimorsi nel tumulto
della guerra e nelle dissipazioni della capitale;[137]
ma i suoi sforzi furono vani. Gli pareva d'esser
sempre circondato da una nube impenetrabile;
i suoi più intimi amici non valsero a consolarlo, e
infine morì fra tormenti quasi eguali a quelli della
Laurentini. Il medico che aveva osservato lo stato
della marchesa dopo la sua morte, era stato indotto
a tacere a furia di regali. I sospetti di qualche domestico
si limitarono ad una voce vaga. Se questa
voce giungesse al padre della marchesa, o se la
mancanza di prove lo impedisse di accusarlo, è
egualmente incerto. È indubitato però che la di lei
perdita rincrebbe a tutta la famiglia, e specialmente
a Sant'Aubert suo fratello, tal essendo il grado di
parentela esistente tra la marchesa ed il padre di
Emilia: egli sospettò il genere della sua morte, e
scrisse immediatamente al marchese, da cui ricevè
parecchie lettere, le quali, insieme a quelle della
marchesa, che confidava al fratello il motivo della
sua sventura, componevano le carte che Sant'Aubert
aveva ordinato di bruciare. L'interesse, il riposo di
Emilia aveangli fatto desiderare ch'ella ignorasse
questa tragica istoria. L'afflizione cagionatagli dalla
morte prematura d'una sorella da lui tanto amata,
avevagli impedito di pronunziarne mai il nome, se
non alla defunta consorte. Temendo specialmente la
viva sensibilità di Emilia, le aveva lasciato ignorare
affatto l'istoria ed il nome della marchesa, non che
la parentela esistente tra loro, ed aveva prescritto
il medesimo silenzio alla signora Cheron sua sorella,
che l'aveva rigorosamente osservato.
Era sur alcune lettere della marchesa che, partendo
dalla valle, Emilia vide piangere il padre; era
al di lei ritratto ch'egli aveva fatto sì teneri baci.
Una morte sì crudele può spiegare l'emozione cui
dimostrò quando Voisin la nominò a lui dinanzi.
Egli volle esser sepolto presso al mausoleo de' Villeroy,
ove giaceano le ceneri di sua sorella. Il marito
di questa essendo morto nella Francia settentrionale,
ve l'avean sepolto colà.[138]
Il confessore, il quale assistè Sant'Aubert al letto
di morte, lo riconobbe pel fratello della defunta
marchesa. Per tenerezza verso Emilia, Sant'Aubert
scongiurollo di celarle siffatta circostanza, e fe' chiedere
la medesima grazia alla badessa, raccomandandole
la figlia.
La Laurentini, arrivando in Francia, aveva scrupolosamente
celato il suo nome. Entrando in convento,
per meglio nascondere la sua vera storia,
aveva ella stessa fatta circolare quella stata raccontata
da suor Francesca. La badessa non era nel monastero
quando fece professione, e non conoscea
tutta la verità. I crudeli rimorsi che opprimevano
la rea, la disperazione d'un amore deluso, e la passione
che conservava pel marchese, aveanle alterata
la fantasia. Dopo le prime crisi, una cupa malinconia
s'impadronì di lei, e fu di rado sino alla morte
interrotta da accessi violenti di delirio. Per vari
anni il di lei solo piacere fu quello di passeggiare
la notte pei boschi; portava seco un liuto, e s'accompagnava
sovente colla sua bella voce cantando
le più squisite ariette italiane coll'energico sentimento
che occupava costantemente il suo cuore. Il
medico che la curava, raccomandò alla badessa di
tollerare questo capriccio, come l'unico mezzo di
calmarla. Soffrivano adunque che la notte errasse
pe' boschi, accompagnata dalla sola donna che fosse
venuta seco da Udolfo; ma siccome un tale permesso
alterava la regola del monastero, fu tenuto
segreto; e quella musica misteriosa, unita a tante
altre circostanze, fece credere che il castello di
Blangy ed i suoi dintorni fossero frequentati dagli
spiriti.
Avanti che la sua ragione si alterasse, e prima
di prendere il velo, aveva fatto testamento. Oltre
un lascito importante al monastero, essa divideva il
resto de' suoi beni, che le sue gioie rendevano ragguardevoli,
tra un'Italiana sua parente, sposa di
Bonnac, ed il parente più prossimo della marchesa[139]
di Villeroy. Emilia era la parente più prossima di
questa dama, e la condotta misteriosa di suo padre
venne giustificata in tal guisa.
La somiglianza d'Emilia colla sventurata sua zia
era stata spesso osservata dalla Laurentini; ma fu
specialmente all'ora della sua morte, nel momento
stesso in cui la sua coscienza mostravale del continuo
la marchesa, che siffatta somiglianza la colpì,
e che, nel suo delirio, credette vedere la marchesa
in persona. Ardì affermare, ricuperando i sensi, che
Emilia doveva esser la figlia di quella dama. N'era
convinta; sapeva che la sua rivale, sposando il
marchese, gli preferiva un altro, e non dubitava che
una passione sfrenata non avesse, come la sua, trascinata
la marchesa a qualche fallo.
Intanto il delitto che, per un malinteso, Emilia
supponeva essere stato commesso dalla signora Laurentini
in Udolfo, non aveva mai avuto luogo. Emilia
era stata ingannata dalla vista orribile del quadro
coperto da un velo nero, onde si parlò negli scorsi
capitoli, e che aveale fatto attribuire i rimorsi della
monaca ad un omicidio accaduto in quel castello.
Quel velo nascondeva un oggetto che la riempì di
orrore; sollevandolo, invece di un quadro, vide
nello sfondo una figura umana, i cui lineamenti sfigurati
avevano il pallore della morte. Era coperta
da un lenzuolo, e distesa in una specie di tomba.
Ciò che rendeva tal vista ancor più spaventosa, era
che quella figura parea esser già in preda ai vermi,
e che le mani ed il volto ne lasciavano vedere le
orme. È facile immaginare, che un oggetto tanto
schifoso non si dovea guardar due volte. Emilia,
quando lo vide, lasciò cadere il velo, e se ne allontanò
spaventata, nè tornovvi più. Se avesse avuto
il coraggio di osservarla più attentamente, l'orrore
e lo spavento suo si sarebbero dissipati, perchè
avrebbe riconosciuto che quella figura era di cera.
Questo fatto, sebbene straordinario, non è però
senza qualch'esempio negli annali della dura servitù[140]
in cui la superstizione monastica ha sovente piombato
il genere umano. Un membro della casa di
Udolfo aveva offeso in qualche punto le prerogative
della Chiesa, e fu condannato a contemplare due
ore per giorno l'immagine in cera di un cadavere.
Questa penitenza, che doveva servire a rammentargli
una sorte inevitabile, aveva per iscopo di reprimere
nel signore di Udolfo un orgoglio di cui quello di
Roma era offeso. Non solo egli subì esattamente la
sua penitenza, ma nel suo testamento, prescrisse la
conservazione di quella figura, mettendo a tal prezzo
la proprietà del dominio, e riguardando come utilissima
l'umiliante moralità che insegnava il finto
cadavere, l'avea fatto incorniciare nel muro del suo
appartamento, ma nessuno degli eredi però volle
imitarne la penitenza.
L'immagine era così naturale, che non è da stupirsi
se Emilia la credè un corpo umano. Aveva
udito raccontare la strana scomparsa della padrona
del castello, e il carattere di Montoni autorizzava
in lei il sospetto che il cadavere fosse quello della
signora Laurentini assassinata dallo stesso suo parente.
Venendo a conoscere che la marchesa di Villeroy
era sorella di Sant'Aubert, Emilia si sentì combattuta
da contrari affetti. In mezzo alla mestizia cagionatale
della morte prematura dell'infelice, si sentì
alleviata dalle penose congetture in cui l'avea gettata
la temeraria asserzione della Laurentini sulla
di lei nascita e sull'onore de' suoi parenti. La sua
fiducia ne' principii del padre non permetteale guari
d'immaginare ch'egli avesse mancato alla delicatezza.
Ripugnava a credersi figlia di tutt'altra che
di colei ch'ella avea sempre amata e rispettata come
sua madre; avrebbe stentato molto a crederlo;
ma la di lei somiglianza colla defunta marchesa, la
condotta di Dorotea, le asserzioni della Laurentini,
il misterioso affetto di Sant'Aubert aveanle ispirati
dubbi che la sua ragione non poteano nè distruggere,[141]
nè confermare; ella se ne trovava così sbarazzata,
e la condotta del padre si spiegava. Il suo
cuore non era più oppresso che dalla sventura d'una
parente amabile, e per la terribile lezione data dalla
monaca moribonda. Troppa indulgenza per le sue
prime passioni, avean trascinata grado grado la signora
Laurentini ad un delitto il cui solo nome in
gioventù l'avrebbe al certo fatta fremere d'orrore;
delitto di cui lunghi anni di penitenza non avean
potuto cancellar la memoria, nè alleviare la di lei
coscienza.
CAPITOLO LVI
Dopo le ultime scoperte, Emilia fu trattata dal
conte e dalla sua famiglia come una parente della
casa Villeroy, e ricevuta, se era possibile, anche con
maggiore amicizia.
Il conte, inquieto e sorpreso di non ricevere alcuna
risposta da Valancourt, s'applaudiva della sua
prudenza. Emilia non partecipava a paure di cui
ignorava il motivo; ma quando la vedeva soccombere
al peso del suo errore crudele, aveva bisogno
di tutta la sua risoluzione per privarla d'un sollievo
momentaneo e dissimular seco lei. Le nozze
di Bianca si avvicinavano, attirando la sua attenzione
e le sue cure. Si aspettava di giorno in giorno
il cavaliere Santa-Fè, e tutto il castello si occupava
dei più brillanti preparativi. Emilia voleva prender
parte all'allegrezza che circondavala, ma lo tentava
invano; preoccupata di quanto avea saputo, ed inquieta
soprammodo della sorte di Valancourt si
raffigurava lo stato in cui era quando diè l'anello
a Teresa: essa credea riconoscervi l'espressione
della disperazione, e quando considerava dove questo
stato avrebbe potuto spingerlo, il cuore le sanguinava
di dolore e spavento. I dubbi da lei formati
sulla salute e sull'esistenza sua, l'obbligo in cui
era di conservar questi dubbi sino al di lei ritorno
alla valle, pareale insopportabile. Eranvi momenti in[142]
cui nulla valea a contenerla. Essa sottraevasi inosservata
da casa, andando a cercare la calma nelle
profonde solitudini de' boschi che contornavano la
spiaggia. Il fragor delle onde spumanti, il sordo
stormir delle foreste, s'accordavano collo stato dell'anima
sua: sedeva sopra una rupe o sulle rovine
della vecchia torre; osservava verso sera la sfumatura
de' colori nelle nubi; vedea svolversi i tetri
veli del crepuscolo. La candida cresta dell'onde,
eternamente sospinte al lido, distinguevasi appena
sull'oscura superficie dell'acque. Talvolta essa ripetea
i versi incisi dall'amante in que' luoghi; poi,
troppo addolorata pe' dispiaceri che le rinnovavano,
cercava distrarsi.
Una sera che col liuto errava a caso sul lido favorito,
entrò nella torre. Salita una scala a lumaca,
trovossi in una stanza meno rovinata del resto. Di
là spesse fiate ella aveva ammirato la vasta prospettiva
offertale dal mare e dalla terra: il sole tramontava
da quella parte de' Pirenei che divide la
Linguadoca dal Rossiglione; ella si mise ad una finestra
munita di ferriate: i boschi e le onde sotto
a lei conservavano ancora le tinte rossicce del tramonto.
Accordato il liuto, vi unì il suono della voce,
e cantò una di quelle romanze semplici e campestri
tanto predilette da Valancourt.
Il tempo era sì queto e sereno, che appena la
brezza vespertina increspava la superficie dell'acqua
o gonfiava leggermente la vela indorata ancora
agli ultimi rai del dì. I colpi misurati de' remi di
qualche battello sturbavan soli il riposo ed il silenzio.
La tenera melodia del liuto finiva d'immerger
la fanciulla in dolce malinconia; essa ripetè le antiche
canzoni, e le memorie in lei destate diventando
ognor più tenere, le sue lagrime caddero sul
liuto, e non potè proseguire.
Il sole era scomparso dietro le vette de' monti,
e le loro cime più alte non ne ricevevan più la
luce; Emilia, trattenendosi ancora nella torre, vi si[143]
abbandonava a' suoi pensieri. Udendo camminare,
sussultò, e guardando abbasso, riconobbe Bonnac.
Ricadde nella meditazione, e dopo alcuni momenti,
ripreso il liuto, cantò la sua aria favorita. Tornò ad
udir rumore di passi; ascoltò: salivan la scala della
torre. L'oscurità ispirolle qualche paura; i passi
eran veloci e leggeri; la porta s'aprì ed il debole
crepuscolo le celò sulle prime i lineamenti d'una
persona che entrava; ma Emilia potea ingannarsi
al suono della voce? era quella di Valancourt. La
fanciulla, la quale non aveala mai intesa senza emozione,
turbata da sorpresa e piacere a un tempo,
appena se l'ebbe visto a' piedi, fu per venir meno.
Tanti contrari affetti agitavanle il cuore, che a stento
udiva quella voce, i cui teneri e timidi accenti cercavan
riassicurarla. Valancourt, vedendola in tale
stato, si rimproverava l'eccesso d'impazienza che
l'aveva spinto a sorprenderla così. Appena giunto
al castello di Blangy, non aveva potuto aspettare il
ritorno del conte, ch'era fuori al passeggio, e correndone
in cerca, nel passar presso la torre, avea
riconosciuta la voce d'Emilia, ed era salito subito.
Quand'essa fu rinvenuta, respinse le attenzioni
di Valancourt, e gli domandò, con aria di malcontento,
qual fosse il soggetto della sua visita.
« Ah! Emilia, » disse Valancourt, « queste parole,
questo disprezzo... Gran Dio! Mi sono illuso.
Allorchè mi privaste della vostra stima, voi avete
dunque cessato di amarmi?
— Sì, signore, » rispos'ella, sforzandosi di parer
tranquilla; « se faceste caso della mia stima, non
mi avreste data questa nuova occasione di affanno. »
La fisonomia del giovane si alterò visibilmente, e
l'ansietà del dubbio cedè alla sorpresa e allo scoraggiamento.
Tacque alcun poco, poi disse:
« M'avevano lusingato di un'accoglienza molto diversa!
È dunque vero, o Emilia, che ho perduto
per sempre il vostro affetto? Debbo io dunque credere
che la vostra stima non può essermi mai[144]
restituita, e che il vostro amore non può rinascere?
Il conte ha meditato dunque questa crudeltà che mi
dà una seconda volta la morte? »
L'accento con cui si esprimeva allarmò e sorprese
molto Emilia. Tremante d'impazienza, gli disse che
si spiegasse più chiaro.
« E perchè una spiegazione? Ignorate voi, » rispose
Valancourt, « quanto la mia condotta fu calunniata?
Ignorate voi che le azioni di cui mi credeste
colpevole... E come poteste, o Emilia, degradarmi
fino a questo punto nella vostra opinione?...
Che queste azioni, le disprezzo e le abborro quanto
voi? Ignorate voi che il conte ha scoperte le falsità
che mi privavano dell'unico bene che mi sia
caro al mondo; che mi ha invitato egli medesimo
a venire a giustificarmi presso di voi? Lo ignorate
voi, o son io ancora il trastullo d'una falsa speranza? »
Il silenzio di Emilia parea confermare questo timore;
il giovane, nell'oscurità, non poteva distinguere
la sorpresa e la gioia che la rendevano quasi
immobile, incapace di parlare, un profondo sospiro
parve sollevarla, e disse finalmente:
« Valancourt! Io ignorava tutto quel che mi avete
detto. L'emozione ch'io sento n'è la prova. Io non
poteva stimarvi più, ma non aveva ancora potuto
riuscire a dimenticarvi.
— Qual felicità mi recan le vostre parole! Vi
son dunque caro ancora, o mia Emilia?
— È forse necessario che io ve lo dica? Questo
è il primo momento di gioia dopo la vostra partenza,
e m'indennizza di tutto quello che ho sofferto. »
Valancourt sospirava, non poteva rispondere, bagnava
di baci e lagrime le mani di lei, ed il suo
pianto esprimeva assai meglio di qualunque più
tenero linguaggio. La fanciulla, riavutasi alquanto,
propose di tornar al castello. Allora, e per la prima
volta, ricordossi che il conte avea invitato Valancourt[145]
a giustificarsi appo lei, e che nessuna spiegazione
era avvenuta. Ma, a questa sola idea, il suo
cuore respinse la possibilità che Valancourt fosse
stato reo. I suoi sguardi, la voce, i modi erano il
pegno della sua nobile e costante sincerità. Ella abbandonossi
dunque senza ritegno al sentimento di
una gioia non mai provata fin allora.
Nè Emilia, nè il giovane seppero come fossero
tornati al castello: se un potere magico ve li avesse
trasportati, forse ne avrebbero meglio notato il movimento;
erano nel vestibolo prima d'accorgersi che
esistesse qualcuno al mondo. Il conte venne loro
incontro con tutta la franchezza e l'affabilità del
suo carattere; accolse cordialmente Valancourt, e lo
pregò di perdonargli la sua ingiustizia. Poco dopo
Bonnac raggiunse quel gruppo felice, e Valancourt
ed esso si abbracciarono con reciproca e tenera
soddisfazione.
Dopo i primi complimenti, il conte ebbe una
lunga conferenza col giovane, il quale si giustificò
appieno. Confessò così ingenuamente i suoi torti, e
ne mostrò tanto rammarico, che il conte ne concepì
le più liete speranze. Valancourt era dotato delle
più eminenti qualità: l'esperienza gli aveva insegnato
a detestare tutte le follie che l'avevano sviato
qualche momento; ed il conte, persuaso ch'esso
avrebbe menato vita onesta, gli confidò alfine senza
scrupolo la felicità della parente cui amava come
sua figlia. Le rese conto in due parole del soggetto
del loro colloquio; Emilia aveva già saputo tutto
ciò che Valancourt aveva fatto per Bonnac, e versava
in quel momento copiose lacrime di piacere e
di tenerezza. Il colloquio del conte Villefort finì a
dileguare tutti i suoi dubbi, ed ella restituì senza
tema la sua stima e l'amor suo a colui che aveva
saputo inspirarglieli.
L'arrivo del cavaliere di Santa-Fè, guarito dalle
sue ferite, finì di spargere il brio e l'allegrezza in
tutti gli abitanti del castello. Il povero Dupont volle[146]
scansar di gettare, colla sua presenza, qualche ombra
di tristezza su tutta quella felice comitiva. Appena
fu certo che Valancourt non era indegno di
Emilia, pensò sul serio a guarire dalla sua passione,
e partì. La di lui condotta, ben compresa dalla fanciulla,
le ispirò pietà ed ammirazione insieme.
Quando Annetta seppe l'arrivo di Valancourt,
Lodovico durò gran fatica a trattenerla; voleva correre
nella sala ad esprimere tutta la sua gioia, assicurando
che dopo il ritorno del suo caro Lodovico
non aveva provato mai tanta consolazione.
Le nozze di Bianca e di Emilia furon celebrate
nel medesimo giorno a Blangy con tutta la magnificenza.
Le feste furono splendidissime: la sala grande
era stata ornata d'un nuovo parato rappresentante
Carlo Magno co' suoi dodici pari. Si vedevano i
fieri Saraceni che si avanzavano in battaglia, e tutti
gl'incanti ed il potere magico di Merlino. Le sontuose
bandiere de' Villeroy, sepolte a lungo nella
polvere, sventolarono di nuovo sulle torri gotiche
del castello. La musica rimbombava da tutte le parti.
Annetta ammirava tutte quelle feste, considerava la
magnificenza degli abbigliamenti, le ricche livree
dei servitori, i mobili di velluto ricamati in oro,
ascoltava i lieti canti che facevan echeggiar le vôlte,
e credevasi trasportata in un palazzo di geni e di
fate. La vecchia Dorotea sospirava, e diceva che l'aspetto
attuale del castello le rammentava tuttavia
la sua gioventù.
Dopo aver per qualche giorno fatto l'ornamento
delle feste, Emilia e Valancourt si congedarono dai loro
buoni amici, e tornarono alla valle. Furono ricevuti
dalla buona e fida Teresa con gioia sincera.
Le fresche ombre di quel luogo favorito parvero
offrir loro gratamente le più care memorie. Percorrendo
que' luoghi, soggiorno per tanto tempo de'
suoi diletti genitori, Emilia mostrava con tenerezza
allo sposo i luoghi ove solevan riposare, e la sua[147]
felicità pareale più dolce, pensando che entrambi
l'avrebbero abbellita d'un sorriso.
Valancourt la condusse al platano ove per la
prima volta avea ardito favellarle d'amore. La memoria
de' dispiaceri sofferti poscia, delle sventure,
de' pericoli susseguiti a quell'incontro, aumentò il
sentimento dell'attuale loro felicità. Sotto quelle sacre
ombre, dedicate per sempre alla memoria di
Sant'Aubert, giuraronsi scambievolmente di cercar
di rendersene degni, imitando la di lui dolce
benevolenza: ricordandosi che ogni specie di superiorità
impone doveri a chi ne fruisce; offrendo
a' loro simili, oltre le consolazioni ed i benefizi che
la prosperità deve ogni giorno all'infortunio, l'esempio
d'una vita passata nella gratitudine verso Dio,
e la costante occupazione d'essere utile all'umanità.
Poco dopo il loro ritorno alla valle, il fratello di
Valancourt venne a felicitarlo sul di lui matrimonio,
ed a rendere omaggio ad Emilia. Fu talmente contento
di lei, e della ridente prospettiva che questo
matrimonio offriva a Valancourt, che tosto gli donò
la metà de' suoi averi, e siccome non aveva figli,
gli assicurò tutta la sua eredità.
I beni di Tolosa furono venduti. Emilia ricomprò
da Quesnel il patrimonio avito; dotò Annetta,
che si maritò a Lodovico, e impiegolli ambidue a
Epourville. Valancourt e lei stessa preferivano gli
ombrosi luoghi della valle ad ogni altra residenza,
e vi fissarono stabile dimora; ma tutti gli anni,
per rispetto alla memoria di Sant'Aubert, andavano
a passar qualche mese nell'abitazione ove era
stato allevato.
Emilia pregò lo sposo di permetterle che donasse
a Bonnac il legato ricevuto dalla signora Laurentini,
e ciò le venne accordato col massimo piacere. Il
castello di Udolfo toccava egualmente alla sposa di
Bonnac, come più prossima parente della Laurentini;
e cotesta famiglia, lungamente infelice, gustò
di nuovo l'abbondanza e la pace.[148]
Oh! quanto sarebbe dolce il parlar a lungo della
felicità de' due sposi! dire con qual gioia, dopo
aver sofferto l'oppressione de' malvagi e lo sprezzo
de' fiacchi, furono alfine restituiti l'uno all'altro;
con qual piacere ritrovarono i diletti luoghi della
patria! Quanto sarebbe dolce narrare, come, rientrati
nella via che adduce più sicuramente alla felicità,
tenendo ognora alla perfezione dell'intelletto,
fruirono delle dolcezze d'una società illuminata,
de' piaceri d'una beneficenza attiva, e come i boschetti
della valle ritornarono il soggiorno della
saviezza ed il tempio della domestica felicità!
Possa almeno aver giovato il dimostrare, che il
vizio può talvolta affliggere la virtù, ma che il
suo potere è passeggiero, e certo il suo castigo,
mentre, se la virtù è oppressa dall'ingiustizia, appoggiata
però alla pazienza, trionfa infine di qualunque
infortunio! E se la debole mano che scrisse
questi eventi ha potuto sollevar un momento il
cuor mesto degli afflitti; se colla sua morale consolante
ha potuto insegnar loro a sopportarne il
peso con rassegnazione, i suoi umili sforzi non saranno
stati vani, e l'autore avrà ottenuto la sua
ricompensa.
FINE DEL QUARTO ED ULTIMO VOLUME.
Milano 1875 — Tip. Ditta Wilmant.
NOTA DEL TRASCRITTORE
La presente edizione del libro è una traduzione abbreviata e priva
di quasi tutte le parti in poesia. La versione originale completa in
inglese è disponibile su Project Gutenberg:
The mysteries of Udolpho.
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute,
correggendo senza annnotazione minimi errori tipografici. In particolare, l'uso di trattini e virgolette per introdurre il discorso diretto, molto
irregolare e incoerente, è stato per quanto possibile regolarizzato. Un indice è stato inserito all'inizio.
I seguenti refusi sono stati corretti [tra parentesi il testo originale]:
P. 7 - | maggiore che non potete supporre [suporre]. |
18 - | la sua relazione [ralazione] con Valancourt |
22 - | e le disse affettuosamente [affettuosomente] |
25 - | mi darà la forza [forza la] di superare |
31 - | con rispettoso [ripettoso] silenzio |
46 - | Mi fu detto che la marchesa di Villeroy [Valleroy] |
78 - | ed a qualche altra circostanza [ciscostanza] |
80 - | udito battere, e le precauzioni [precauazioni] |
83 - | del cacciatore è piacevole e salubre [solubre] |
90 - | Avete voi appostata una vedetta [vendetta] |
96 - | con molto riserbo del signor Valancourt [Valencurt] |
103 - | aveva passato [passate] presso di lei momenti |
131 - | la conversazione del parlatorio [palatorio] |
Featured Books

I misteri del castello d'Udolfo, vol. 1 (Italian)
Ann Ward Radcliffe
nti, e lo sguardo affaticato dall'aspettodi quelle voragini, si riposava alla vista degli armentie d...

The Picture of Dorian Gray
Oscar Wilde
erof the artist, but the morality of art consists in the perfect use of animperfect medium. No artis...

Young Robin Hood
George Manville Fenn
lid black; /* a thin black line border.. */ padding: 6px; /* ..spaced a bit out from the gr...

Jurgen: A Comedy of Justice
James Branch Cabell
lid black; /* a thin black line border.. */ padding: 6px; /* ..spaced a bit out from the gr...

The Eight Strokes of the Clock
Maurice Leblanc
ed."Well, I had a great argument with my uncle and aunt last night. Theyabsolutely refuse to sign th...

The Insidious Dr. Fu Manchu
Sax Rohmer
" he continued, and, dimly, I could seehim at the window, peering out into the road, "but before you...

A New Subspecies of Lizard, Cnemidophorus sacki, from Michoacán, México
William Edward Duellman
istoryVol. 10, No. 9, pp. 587-598, 2 figs. May 2, 1960 A New Subspecies of Lizard,Cnem...

Bees from British Guiana
Theodore D. A. Cockerell
arked K. occur at Kalacoon.The body, or some part of it, brilliant greenNo part of the body brillian...
Browse by Category
Join Our Literary Community
Subscribe to our newsletter for exclusive book recommendations, author interviews, and upcoming releases.
Comments on "I misteri del castello d'Udolfo, vol. 4 (Italian)" :