The Project Gutenberg eBook of I misteri del castello d'Udolfo, vol. 2



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Title: I misteri del castello d'Udolfo, vol. 2



Author: Ann Ward Radcliffe



Release date: September 20, 2010 [eBook #33782]



Language: Italian



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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I MISTERI DEL CASTELLO D'UDOLFO, VOL. 2 ***

I MISTERI

DEL

CASTELLO D'UDOLFO


 
 


DI

ANNA RADCLIFFE


 
 


VOL. II


 
 


MILANO

Oreste Ferrario

Sotterranei Galleria Nuova, via Silvio Pellico, 6, scala n. 18

e Santa Margherita






La Camera misteriosa.

Cap. XXII





SOMMARIO


Capitolo XII


Capitolo XIII


Capitolo XIV


Capitolo XV


Capitolo XVI


Capitolo XVII


Capitolo XVIII


Capitolo XIX


Capitolo XX


Capitolo XXI




[5]


CAPITOLO XII


L'avarizia della zia d'Emilia cedè finalmente alla
sua vanità. Qualche splendido pranzo dato dalla
Clairval, e l'adulazione generale ond'essa era l'oggetto,
aumentarono la premura della Cheron per assicurare
una parentela che l'avrebbe tanto illustrata
a' propri occhi ed a quelli del mondo. Propose il
prossimo matrimonio di Emilia, ed offrì di assicurarne
la dote, purchè la Clairval facesse altrettanto
pel nipote. Questa ponderò la proposta, e considerando
ch'Emilia era la più prossima erede della
Cheron, l'accettò senza difficoltà. Emilia ignorava
queste disposizioni, quando la zia l'avvertì di prepararsi
alle nozze che dovevano aver luogo senza
indugio. La fanciulla, sorpresa, non capiva il motivo
di una sì istantanea conclusione, in verun modo
sollecitata da Valancourt. Ed infatti, non conoscendo
le convenzioni delle due zie, era ben lontano dallo
sperare una sì gran felicità. Emilia mostrò qualche
opposizione, ma la Cheron, sempre gelosa della sua
autorità, insistè per il pronto matrimonio, colla
stessa veemenza, con cui ne aveva rigettate in principio
le menome apparenze. Tutti gli scrupoli di
Emilia svanirono, quando Valancourt, istruito allora
della sua felicità, venne a scongiurarla di confermargliene
[6]la certezza.


Mentre si facevano i preparativi di queste nozze,
Montoni diveniva l'amante dichiarato della Cheron.
Ne fu malcontentissima la Clairval quando udì parlare
del loro imminente matrimonio, e voleva impedire
quello di Valancourt con Emilia; ma la coscienza
le rappresentò, che non aveva diritto di
punirli dei torti altrui. Sebbene donna del gran
mondo, era però meno famigliarizzata della sua
amica col metodo di far dipendere la felicità dalla
fortuna e dagli omaggi ch'essa attira, anzichè dal
proprio cuore.


Emilia osservò con ansietà l'ascendente acquistato
da Montoni sulla zia, come pure la maggior frequenza
delle sue visite. La sua opinione su questo
Italiano era confermata da quella di Valancourt, il
quale aveva sempre esternato estrema avversione
per lui. Una mattina ch'essa lavorava nel padiglione,
godendo della dolce frescura primaverile, Valancourt
leggeva vicino a lei, e tratto tratto deponeva il libro
per conversare. Fu avvisata che la zia voleva
vederla subito; entrò nel suo gabinetto, e paragonò
sorpresa l'aria abbattuta della signora Cheron col
genere ricercato del di lei abbigliamento.


« Nipote mia... » diss'ella, e si fermò con qualche
imbarazzo. « Vi ho fatta cercare... io... io... voleva
vedervi. Ho da darvi una notizia... da questo momento
voi dovete considerare il signor Montoni
come vostro zio; noi ci siamo maritati stamattina. »


Confusa, non tanto del matrimonio, quanto del
segreto con cui era stato fatto, dell'agitazione colla
quale le venne annunziato, Emilia attribuì siffatto
mistero alla volontà di Montoni, piuttostochè a quella
di sua zia; ma questa non voleva che si credesse così.


« Voi vedete, » soggiuns'ella, « che ho voluto
fuggire la pubblicità; ma ora che la cerimonia è
fatta, non m'importa più che si sappia. Vado subito
ad annunziare alla mia gente che il signor
Montoni è il loro padrone. »[7]


Emilia fece quanto potè per felicitare la zia di un
matrimonio così imprudente.


« Voglio celebrare le mie nozze con tutto il fasto, »
continuò la signora Montoni, « e per non perder
tempo, mi servirò dei preparativi che furono fatti
per le vostre, le quali verranno protratte un poco;
ma voglio che per far onore alla festa, voi vi abbigliate
degli abiti fatti pel vostro matrimonio. Desidero
egualmente che facciate noto il mio cambiamento
di nome al signor Valancourt, il quale ne
informerà la signora Clairval. Fra pochi giorni voglio
dare un pranzo magnifico, e conto su di loro. »


Emilia era talmente attonita, che potè appena replicare
alla zia, e, a tenore del suo desiderio, tornò
nel padiglione ad informar l'amante dell'accaduto.
La sorpresa non fu il primo sentimento di Valancourt,
sentendo parlare di queste nozze precipitose;
ma quando seppe che le sue erano differite, e che
gli ornamenti preparati per abbellire l'imeneo della
sua Emilia, stavano per esser degradati servendo
per la signora Montoni, il dolore e lo sdegno agitarono
a vicenda il suo spirito. Non potè dissimularlo
alla fanciulla; i di lei sforzi per distrarlo e
scherzare su questi timori repentini furono inutili.
Quando alla fine si separò da lei, era oppresso da
una tenera inquietudine che la colpì vivamente, e
pianse senza saper perchè, quando fu giunta all'ingresso
del giardino.


Montoni prese possesso del castello colla facilità
d'un uomo che da lunga pezza lo riguardava come
suo. Il suo amico Cavignì l'aveva singolarmente servito
prodigando alla Cheron le attenzioni e le adulazioni
ch'essa esigeva, ed alle quali Montoni pareva
prestarsi con pena; egli ebbe un appartamento nel
castello, e fu obbedito dalla servitù come lo stesso
padrone.


Pochi giorni dopo, la signora Montoni, come l'aveva
promesso, diede un magnifico pranzo ad una[8]
numerosa società. Valancourt v'intervenne, ma la
Clairval se ne scusò. Vi fu accademia di musica e
festa da ballo. Valancourt, come di ragione, danzò
con Emilia; egli non poteva esaminare le decorazioni
della festa, senza rammentarsi ch'erano destinate
per le sue nozze. Nonostante cercava di consolarsi,
pensando che fra poco i suoi voti sarebbero
stati esauditi. La signora Montoni ballò, rise e
chiaccherò del continuo tutta la sera. Montoni però,
taciturno e riservato, sembrava ristucco di quel divertimento,
e della frivola società che ne formava
l'oggetto.


Fu il primo e l'ultimo banchetto dato in occasione
di quelle nozze. Montoni, cui il carattere severo,
e il taciturno orgoglio, impedivano d'animare
queste feste, era nondimeno dispostissimo a provocarle.
Trovava esso ben di rado nelle conversazioni
un uomo che potesse rivaleggiar con lui per lo spirito
od il talento. Tutto il vantaggio, in questa specie
di riunioni, era dunque sempre dalla parte sua. Conoscendo
con quale egoismo si frequenta la società,
temeva d'esser vinto in simulazione, ovvero in considerazione,
dovunque egli si trovava. Ma la signora
Cheron, quando trattavasi del proprio interesse,
aveva talfiata più discernimento che vanità. Conosceva
essa la sua inferiorità alle altre donne in tutte
le qualità personali. La gelosia naturale risultante
da questa cognizione, ne contrariava dunque l'inclinazione
per le riunioni che offriva Tolosa. La sua
politica era cambiata; si opponeva con vivacità al
gusto del marito per il gran mondo, e non dubitava
ch'egli non fosse per essere così ben ricevuto
da tutte le donne com'eralo stato allorchè faceva la
corte a lei.


Erano scorse poche settimane da questo matrimonio,
quando la signora Montoni partecipò ad
Emilia il progetto di andare in Italia, tostochè fossero
finiti tutti i preparativi pel viaggio.[9]


« Andremo a Venezia, » diss'ella; « Montoni
vi possiede un bel palazzo, e quindi passeremo al
suo castello in Toscana. Perchè prendete voi un'aria
così seria, figliuola? Voi che amate tanto le
belle vedute, dovreste essere incantata di questo
viaggio.


— Devo forse venire anch'io? » disse Emilia con
emozione e sorpresa insieme.


— Sì, certo, » replicò la zia; « come potete supporre
che noi vogliamo lasciarvi qui? Ah! vedo
che pensate al cavaliere. Io credo che non sappia
nulla, ma lo saprà sicuramente quanto prima. Montoni
è uscito per darne parte alla signora Clairval,
ed annunziarle che i nodi proposti fra le nostre famiglie
sono sciolti irremissibilmente. »


L'insensibilità colla quale la Montoni faceva sapere
alla nipote che la separavano, forse per sempre,
dall'uomo al quale doveva unirsi per tutta la
vita, aumentò vie più la disperazione dell'infelice
a tal notizia. Quando potè parlare, domandò il motivo
di tal cangiamento a riguardo di Valancourt;
e l'unica risposta che ne ottenne fu, che Montoni
aveva proibito questo matrimonio, attesochè Emilia
poteva aspirare a partiti assai più vantaggiosi.


« Io lascio attualmente tutta questa faccenda a
mio marito, » soggiunse la Montoni; « ma devo convenire
che il signor Valancourt non mi è piaciuto
mai, e che non avrei mai dovuto dare il mio consenso.
Son debole assai; bene spesso son così buona,
che le pene altrui mi rattristano, e la vostra
afflizione la vinse sulla mia opinione. Il signor
Montoni però mi ha dimostrato con molta chiarezza
la follia ch'io faceva, ma non avrà certo a rimproverarmela
una seconda volta. Pretendo assolutamente
la vostra sommissione a quelli che conoscono
meglio di voi i vostri interessi, e ci dovete
obbedire in tutto. »


Emilia sarebbe stata sorpresa dalle asserzioni e[10]
dall'eloquenza di questo discorso, se tutte le di lei
facoltà, annientate dalla scossa ricevuta, le avessero
permesso d'intenderne una sola parola. Qualunque
fosse la debolezza della signora Montoni, avrebbe
potuto risparmiarsi il rimprovero di una eccessiva
compassione e d'una prodigiosa sensibilità ai mali
altrui, e soprattutto a quelli di Emilia. Quella medesima
ambizione che l'aveva indotta a brigare il
parentado della Clairval, formava oggi il soggetto
della rottura. Il suo matrimonio con Montoni esaltava
ai di lei occhi la propria importanza, e conseguentemente
cambiava le sue mire per Emilia.


Questa interessante fanciulla era troppo afflitta
per far valere le sue ragioni, o scendere a preghiere.
Quando finalmente volle far uso di quest'ultimo
mezzo, le mancò la parola, e si ritirò nella sua camera
per riflettere, se ciò le fosse stato possibile,
ad un colpo così inaspettato e tremendo.


Passò gran pezza prima che si fosse riavuta abbastanza
da porsi a riflettere; ma il pensiero che
le si affacciò fu tristo e terribile. Credè che Montoni
volesse disporre di lei pel proprio vantaggio,
e pensò che Cavignì fosse la persona per la quale
si interessasse. La prospettiva del viaggio d'Italia
diveniva ancor più disgustosa, quando considerava
la situazione turbolenta di quel paese lacerato dalle
guerre civili, in preda a tutte le fazioni, e dove
ogni castello si trovava esposto all'invasione del
partito avverso. Considerò a qual persona era rimesso
il suo destino, ed a qual distanza si sarebbe
trovata da Valancourt. A tale idea, svanì qualunque
altra immagine, ed il dolore immerse nella confusione
tutti i suoi pensieri.


Passò qualche ora in questo stato doloroso;
quando fu avvertita per il pranzo, volle scusarsene.
La Montoni però, ch'era sola, non volle acconsentirvi,
e le convenne obbedire. Parlarono pochissimo
durante il pranzo. L'una era oppressa dal suo dolore,[11]
e l'altra indispettita dell'assenza inaspettata
di Montoni. La sua vanità era offesa da siffatta negligenza,
e la gelosia l'allarmava principalmente su
di ciò ch'ella chiamava un impegno misterioso.
Non ostante Emilia si provò a parlar nuovamente
di Valancourt, ma la zia, insensibile a pietà ed ai
rimorsi, divenne quasi furiosa perchè si permettessero
osservazioni sulla di lei autorità e su quella
di Montoni; in conseguenza la povera Emilia si ritirò
piangendo.


Traversando il vestibolo, udì entrare qualcuno
dalla porta grande; le parve di vedere Montoni e
raddoppiò il passo; ma riconobbe tosto la voce diletta
di Valancourt.


« Emilia, mia cara Emilia! » sclamò egli col
tuono dell'impazienza, a misura che si avanzava e
che scuopriva le orme della disperazione sul volto
di lei. « Emilia, bisogna ch'io vi parli; ho da
dirvi mille cose; conducetemi in qualche parte ove
possiamo parlare con libertà. Ma! voi tremate, vi
sentite male; lasciate ch'io vi conduca ad una
sedia. »


Vide una porta aperta, e si provò a condurre
Emilia colà; ma essa, ritirando la mano, gli disse
sorridendo languidamente:


« Sto già meglio. Se volete parlare con mia zia,
è nel salotto.


— Voglio parlare con voi sola, mia cara Emilia, »
replicò Valancourt. « Gran Dio! Siete già arrivata
a questo punto? Acconsentite voi così facilmente
a dimenticarmi? questo luogo non ci conviene,
possiamo essere intesi. Non voglio da voi che
un solo quarto d'ora di attenzione.


— Sì, quando avrete veduto mia zia, » disse
Emilia.


— Io era già infelice, venendo qui, » esclamò
Valancourt; « non aumentate il mio affanno con
questa freddezza e con questo crudele rifiuto. »[12]


L'energia colla quale pronunciò tali parole, la
commosse fino alle lagrime, ma persistè nella negativa
d'ascoltarlo fintantochè non avesse veduto la
signora Montoni.


« Dov'è suo marito, dov'è egli questo Montoni? »
disse Valancourt con voce alterata; « debbo parlar
giusto con lui. »


Emilia, spaventata delle conseguenze dello sdegno
che sfavillava ne' di lui occhi, l'assicurò con
voce tremante che Montoni non era in casa, e lo
scongiurò di moderare il risentimento. Agli accenti
interrotti della di lei voce, gli sguardi di Valancourt
passarono tosto dal furore alla tenerezza.


« Vi sentite male, Emilia, » diss'egli, « e vogliono
perderci amendue. Perdonatemi se ho ardito dubitare
della vostra tenerezza. »


Emilia non s'oppose più ad accordargli un colloquio
nella stanza vicina. La maniera colla quale
aveva nominato Montoni, aveale cagionato i più
fondati timori sul pericolo cui poteva correre egli
stesso; non pensò più se non a prevenire le terribili
conseguenze della sua vendetta. Ascoltò egli
attento le di lei preghiere, e non vi rispose che
con occhiate di disperazione e di tenerezza. Nascose
alla meglio il suo risentimento per Montoni, e si
sforzò di acchetare i di lei terrori; ma Emilia, poco
contenta di quell'apparente tranquillità, si turbò
ancor davvantaggio, e procurò di far conoscere a
Valancourt l'inconveniente di un alterco con Montoni,
lo che avrebbe potuto rendere la loro separazione
irrimediabile. Cedè egli alle tenere preghiere,
e le promise che, per quanto grande potesse essere
l'ostinazione di Montoni, non farebbe mai uso della
violenza per conservare i suoi diritti.


Emilia si sforzò di calmarlo coll'assicurazione di
un attaccamento inviolabile. Gli fe' osservare che
fra un anno circa sarebbe stata maggiorenne, e che
per conseguenza allora sarebbe uscita di tutela.[13]
Queste assicurazioni però consolavano poco Valancourt:
egli considerava che allora essa sarebbe in
Italia, ed in balia di coloro il cui potere su di lei
non sarebbe cessato tanto facilmente co' loro diritti.
Emilia, alquanto calmata dalla promessa ottenuta e
dalla tranquillità ch'egli affettava, stava per lasciarlo,
quando la zia entrò nella stanza. Gettò essa un'occhiata
di rimprovero sulla nipote, che si ritirò subito,
e una di malcontento e d'alterigia sull'infelice
giovane.


« Non è questa la condotta ch'io mi aspettava
da voi, » diss'ella, « o signore; io non credeva di
vedervi più in casa mia dopo avervi fatto avvertire
che le vostre visite non mi tornavano più
gradite. Credeva ancor meno, che voi cercaste di
vedere clandestinamente mia nipote, e ch'ella avesse
l'imprudenza di acconsentire a ricevervi. »


Valancourt, vedendo esser necessario di giustificare
Emilia, protestò che l'unico scopo della sua
visita era stato quello di domandare un abboccamento
a Montoni, e ne spiegò i motivi colla moderazione
che il sesso, più che il carattere di quella
donna superba, poteva solo esiger da lui.


Le sue preghiere furono ricevute con asprezza.
La zia si lagnò che la sua prudenza avesse ceduto
a quant'essa chiamava la sua compassione, aggiungendo
infine che conoscendo benissimo la follia della
sua prima condiscendenza, e volendo evitare di ricadervi,
rimetteva intieramente ed esclusivamente
quest'affare al marito.


L'eloquenza sentimentale del giovane le fece alfine
comprendere l'indegnità della sua condotta;
essa conobbe la vergogna, ma non il rimorso. S'indispettì
che Valancourt l'avesse ridotta a quella
penosa situazione, ed il suo odio crebbe colla coscienza
dei propri torti. L'antipatia ch'egli le ispirava
era tanto più forte, in quanto che, senza accusarla,
la costringeva a convincersi da sè stessa.[14]
Non le lasciava una scusa per la violenza del risentimento
col quale lo considerava. Alla perfine,
la sua collera divenne così violenta, che Valancourt
si decise di uscire al momento, affine di non perdere
la propria stima in una risposta poco misurata,
e si convinse appieno che non doveva sperare nè
pietà, nè giustizia da una persona che sentiva il
peso delle male opere, e non l'umiltà del pentimento.


Si era formata l'istessa idea di Montoni, essendo
chiaro che il piano della separazione veniva direttamente
da lui. Non era probabile ch'egli abbandonasse
il suo disegno per preghiere o ragioni che
doveva aver prevedute, e contro le quali era preparato.
Intanto, fedele alle promesse fatte ad Emilia,
più occupato del suo amore, che geloso della
propria dignità, Valancourt si guardò bene dall'irritar
Montoni senza necessità. Gli scrisse, non per
domandargli un abboccamento, ma per sollecitare
il suo favore, e ne attese la risposta con qualche
tranquillità.




CAPITOLO XIII


La signora Clairval si teneva in disparte da tutto
quell'intrigo: quando aveva acconsentito al matrimonio
di Valancourt, era nella credenza che Emilia
avrebbe ereditato dalla zia. Allorchè il matrimonio
di quest'ultima l'ebbe disingannata su tal
proposito, la coscienza le impedì di rompere un'unione
quasi formata; ma la sua benevolenza non andava
al punto da spingerla a fare un passo che
avesse a deciderla intieramente. Si felicitava che Valancourt
fosse sciolto da un impegno ch'essa credeva
tanto al disotto di lui per le sostanze, quanto Montoni
giudicava umiliante tal parentado per la bellezza
di Emilia. La Clairval poteva stimarsi offesa,
che un individuo della sua famiglia fosse stato così[15]
congedato; ma non si degnò di esprimerne il suo
risentimento in altro modo che col silenzio.


Montoni, nella sua risposta, assicurò Valancourt
che un abboccamento, non potendo nè cambiare la
risoluzione dell'uno, nè vincere i desiderii dell'altro,
non finirebbe che in un diverbio affatto inutile,
e che per ciò credeva bene di non accordarglielo.


La moderazione tanto raccomandatagli da Emilia,
e le promesse fattele, poterono sole trattenere l'impetuosità
di Valancourt, che voleva correre da Montoni
a domandar con fermezza quanto veniva ricusato
alle sue preghiere. Si limitò dunque a rinnovare
le sue istanze, e le appoggiò con tutte le ragioni
che poteva somministrare la sua posizione. Passarono
alcuni giorni in domande da una parte, e nell'inflessibilità
dall'altra. Fosse per timore, o per
vergogna, o per l'odio che risultava da questi due
sentimenti, Montoni evitava accuratamente colui che
aveva tanto offeso; non era nè intenerito dal dolore
espresso nelle lettere di Valancourt, nè colpito dal
pentimento per le solide ragioni in esse contenute.
In fine, le lettere dell'infelice giovine furono respinte
senza essere aperte. Nella sua prima disperazione,
obliò tutte le promesse eccettuata quella di
evitare la violenza, e corse al castello, risoluto di
veder Montoni, e porre tutto in opra per riuscirvi.
L'Italiano fece dire che non era in casa, ed allorchè
Valancourt chiese di parlare alla signora o ad
Emilia, gli fu negato positivamente l'ingresso. Non
volendo impegnarsi in alterchi coi servitori, partì
e tornò a casa in uno stato di frenesia: scrisse l'accaduto
a Emilia, esprimendole senza riserva le angosce
dell'anima; e la scongiurò, giacchè restava
solo questo ripiego, di accordargli un abboccamento
segreto.


Appena quella lettera fu spedita, la sua alterazione
si calmò: conobbe il fallo commesso, aumentando
le pene di Emilia colla descrizione troppo[16]
sincera de' suoi guai. Avrebbe dato la metà del mondo
per ricuperare quella lettera imprudente. Emilia
però fu preservata dal dolore che avrebbe provato
ricevendola. La signora Montoni aveva ordinato che
le fossero portate tutte le lettere dirette alla nipote:
la lesse, e montata sulle furie per la maniera con
la quale Valancourt vi trattava Montoni, la bruciò.


Montoni, intanto, sempre più impaziente di lasciar
la Francia, sollecitava i preparativi della partenza,
e terminava in fretta ciò che gli restava da
fare. Osservò il più profondo silenzio sulle lettere
nelle quali Valancourt, disperando d'ottener di più,
e moderando la passione che avealo fatto trascendere,
sollecitava il permesso soltanto di dire addio
ad Emilia. Ma quando il giovane intese che sarebbe
partita fra pochi giorni, e ch'era stato deciso che
non la rivedrebbe più, perdè ogni prudenza, e in
una seconda lettera le propose un matrimonio segreto.
Questa lettera andò come l'altra nelle mani
della signora Montoni, e venne la vigilia della partenza
senza che Valancourt avesse ricevuto una sola
riga di consolazione, o la menoma speranza di un
ultimo abboccamento.


Intanto Emilia era inabissata nello stupore prodotto
da tante disgrazie inaspettate ed irrimediabili.
Essa amava Valancourt col più tenero affetto; erasi
abituata da lunga pezza a considerarlo come l'amico
ed il compagno di tutta la vita; non avea un pensiero
di felicità al quale non fosse unita la sua idea.
Qual doveva esser dunque il suo dolore al momento
di una separazione così inaspettata, e forse eterna,
e ad una distanza tale, dove le nuove della loro
esistenza potrebbero appena giugnere, e tutto questo
per obbedire ai voleri di uno straniero, a quelli
d'una persona che provocava non ha guari ancora
il loro matrimonio? Invano procurava essa di vincere
il suo dolore, e rassegnarsi ad una sciagura
inevitabile. Il silenzio di Valancourt l'affliggeva ancor[17]
più, perchè non sapeva attribuirlo al suo vero
motivo; ma quando, alla vigilia di lasciar Tolosa,
seppe che non erale permesso di salutarlo, il dolore
l'oppresse maggiormente, e non potè trattenersi dal
domandare alla zia se le fosse stata positivamente
negata questa consolazione, ciò che le fu barbaramente
confermato.


« Se il cavaliere avesse voluto ottener da noi
questo favore, » diss'ella, « avrebbe dovuto contenersi
diversamente. Egli doveva aspettare con pazienza
che noi fossimo disposti ad accordarglielo;
non mi avrebbe rimproverata perchè persisteva a
negargli mia nipote, e non avrebbe molestato il
signor Montoni, il quale non credeva conveniente di
entrare in discussione su questa ragazzata. La di lui
condotta in quest'affare è stata affatto presuntuosa
e importuna; desidero di non sentir mai più parlar
di lui, e che ci liberiate da cotesta ridicola tristezza,
da cotesti sospiri, da cotesta aria cupa, la quale farebbe
credere che voi siate sempre disposta a piagnucolare;
fate come tutti gli altri; il vostro silenzio
non basta a nascondere la vostra inquietudine alla
mia penetrazione; vedo bene che siete disposta a
piangere in questo momento, sì in questo momento
istesso, a dispetto della mia proibizione. »


Emilia, che si era voltata dall'altra parte per nascondere
le sue lacrime, si ritirò a precipizio per
versarne in copia. Fu sì grande la di lei agitazione
nel riflettere al suo stato e all'idea di non veder più
Valancourt, che sentissi venir meno. Appena si fu
riavuta un poco, si affacciò alla finestra, e l'aria
fresca della notte la rianimò alquanto. Il chiaro di
luna, cadendo sopra un lungo viale di olmi, sotto
di lei, invitolla a tentare se il moto e l'aria aperta
non calmerebbero l'irritazione di tutti i suoi nervi.
Tutti dormivano nel castello: Emilia scese lo scalone,
e traversando il vestibolo, penetrò cautamente
nel giardino per un andito solitario. Camminava più[18]
o meno celeremente, secondo che le ombre la ingannavano,
credendo vedere qualcuno da lontano, e
temendo non fosse qualche spione di sua zia. Frattanto,
il desiderio di rivedere il padiglione, nel
quale aveva passati tanti momenti felici con Valancourt,
dove aveva ammirato seco lui le belle pianure
della Linguadoca, e la Guascogna sua cara patria,
questo desiderio la vinse sul timore di essere
osservata, e andò verso il terrazzo, che si prolungava
sino all'ingresso del giardino, dominando gran
parte della sottoposta prateria, alla quale si scendeva
per una marmorea scalea. Quando fu alla scala, sostò
un momento guardando intorno. La distanza del
castello aumentava la specie di spavento che le cagionavano
il silenzio, l'ora e l'oscurità; ma non
iscorgendo nulla che potesse giustificare i suoi timori,
salì sul terrazzo, onde il chiaro di luna scopriva
l'ampiezza, e mostrava il padiglione in fondo.
Si avanzò verso questo, e vi entrò; l'oscurità del
luogo non era adatta a diminuire la sua timidezza.
Le gelosie erano aperte, ma le piante dei fiori ingombravano
l'esterno delle finestre, lasciando appena
vedere a traverso i rami il paese fiocamente illuminato
dalla luna. Avvicinandosi ad una finestra,
essa non gustava di quello spettacolo se non in
quanto potea servirla a richiamarle alla fantasia più
vivamente l'immagine di Valancourt.


« Ah! » sclamò con un gran sospiro, gettandosi
sopra una sedia; « quante volte ci siamo seduti in
questo luogo! Quante volte abbiamo noi contemplato
questa bella vista! Non l'ammireremo più insieme?
mai, forse non ci rivedremo mai più! »


D'improvviso, lo spavento ne sospese le lagrime:
avendo udito una voce vicina a lei nel padiglione,
gettò un grido, ma lo strepito ripetendosi, distinse
la voce amata di Valancourt. Era egli stesso, era il
giovane che la teneva in braccio. In quell'istante
la commozione le tolse l'uso della parola.[19]


« Emilia, » disse alfine Valancourt, tenendole una
mano stretta tra le sue, « mia cara Emilia! » Tacque
nuovamente, e l'accento col quale aveva pronunziato
questo nome, esprimeva la sua tenerezza
insieme ed il suo dolore.


« O Emilia mia! » soggiuns'egli dopo una lunga
pausa; « vi riveggo ancora, ed ascolto ancora il
suono della vostra voce! Ho errato intorno a questi
luoghi e a questo giardino per tante notti, nè
aveva che una debolissima speranza di rivedervi!
Era questa la sola risorsa che mi restava; grazie
al cielo non mi è mancata. »


Emilia pronunziò qualche parola senza saper quasi
ciò che dicea, espresse il suo inviolabile affetto, e
si sforzò di calmare l'agitazione di Valancourt.
Quando egli si fu un poco rimesso, le disse:


« Io son venuto qui subito dopo il tramonto del
sole, nè ho cessato poi dal percorrere i giardini ed
il padiglione. Aveva abbandonato qualunque speranza
di vedervi; ma non sapeva risolvermi a staccarmi
da un luogo ove vi sapeva così vicino a me, e sarei
probabilmente rimasto tutta notte in questi contorni.
Ma quando apriste il padiglione, l'oscurità m'impediva
di distinguere con certezza se fosse la mia
cara Emilia: il cuore mi batteva così forte per la
speranza ed il timore ch'io non poteva parlare. Appena
intesi gli accenti lamentosi della vostra voce,
ogni dubbio svanì, ma non i miei timori, fintantochè
non pronunziaste il mio nome. Nell'eccesso della
gioia, non ho pensato allo spavento che vi avrei cagionato;
ma non poteva più tacere. Oh! Emilia, in
momenti così preziosi, la consolazione e il dolore
lottano con tanta forza, che il cuore può a stento
sopportarne la tenzone. »


Il cuore d'Emilia sentiva questa verità; ma la
gioia di riveder l'amante nel momento in cui si
accorava di esserne separata per sempre, si confuse
presto col dolore, quando la riflessione guidò la sua[20]
immaginazione sull'avvenire. Faceva essa ogni sforzo
per ricuperare la calma e dignità tanto necessarie
per sostenere quest'ultimo colloquio. Valancourt non
poteva moderarsi; i trasporti della gioia si cangiarono
improvvisamente in quelli della disperazione;
ed espresse col linguaggio il più appassionato l'orrore
della separazione, e la poca probabilità d'una
possibile riunione. Emilia procurava contenere la
propria tristezza, e addolcire quella dell'amante.


« Voi mi lasciate, » le dicea egli, « voi andate
in terra straniera! E a qual distanza! Voi andate a
trovare nuove società, nuovi amici, nuovi ammiratori;
si sforzeranno di farvi scordare di me, e vi
saranno preparati nuovi nodi. Come poss'io saper
tutto questo, e non sentire che non tornerete più
per me, che non sarete mai più mia? » La voce
gli mancò soffocata dai singulti.


« Credete voi dunque, » diss'Emilia, « che la mia
afflizione nasca da un affetto leggiero e momentaneo?
Potete voi crederlo?


— Soffrire! » interruppe Valancourt; « soffrir
per me! Emilia mia, quanto son dolci, e quanto
amare al tempo stesso queste parole! Io non devo
dubitare della vostra costanza; eppure, tal è l'inconseguenza
del vero amore; è esso sempre pronto
a sospettare; e quand'anche la ragione lo riprova,
egli vorrebbe sempre una nuova assicurazione. Adesso
vi veggo, vi stringo tra le mie braccia: ancora pochi
momenti, e non sarà più che un sogno: guarderò,
e non vi vedrò più... Io rinasco da morte a vita,
quando mi dite che vi son caro; ma appena non vi
ascolto più, ricado nella dubbiezza, e mi abbandono
alla diffidenza. » Poi, sembrando raccogliersi, esclamò:
« Quanto son colpevole di tormentarvi così in
questi momenti nei quali dovrei consolarvi, e sostenere
il vostro coraggio! »


Questa riflessione lo intenerì singolarmente. La
sua voce e le sue parole erano così appassionate,[21]
che Emilia, non potendo più contenere il proprio,
cessò di reprimere il dolore di Valancourt, il quale
in cotesti istanti terribili di amore e di pietà perdè
quasi il potere e la volontà di signoreggiare la sua
agitazione.


« No, » esclamò, « io non posso, non deggio lasciarvi.
Perchè affideremo noi la felicità della nostra
vita alle volontà di coloro che non hanno il diritto
di distruggerla, e non possono contribuirvi se non
concedendovi a me? O Emilia! osate fidarvi al vostro
cuore! Osate esser mia per sempre! » La voce gli
tremava, e non disse di più. Emilia piangeva e taceva.
Valancourt le propose di sposarsi segretamente.
« Alla punta del giorno lascerete la casa della signora
Montoni, e mi seguirete alla chiesa di Sant'Agostino,
ove ci attende un sacerdote per unirci. »


Il silenzio col quale la fanciulla ascoltò una proposta
dettata dall'amore e dalla disperazione, in un
momento in cui era appena capace di respingerla,
quando il suo cuore era intenerito dal dolore d'una
separazione, che poteva essere eterna, quando la sua
ragione era in preda alle illusioni dell'amore e del
terrore; questo silenzio incoraggì le speranze di Valancourt.
« Parlate, mia cara Emilia, » le diss'egli
con ardore; « lasciatemi ascoltare il suono della
vostra voce soave; fate che intenda da voi la conferma
del mio destino. » Essa rimase muta, un
freddo brivido l'assalse, e svenne. L'immaginazione
turbata di Valancourt se la figurò moribonda. La
chiamò per nome, e si alzava per andar a chieder
soccorso al castello; ma pensando alla di lei situazione,
fremette all'idea di uscire e lasciarla in quello
stato.


Dopo qualche momento ella sospirò e rinvenne.
Il contrasto da lei sofferto fra l'amore e il dovere,
la sommissione alla sorella di suo padre, la ripugnanza
ad un matrimonio clandestino, il timore d'un
nodo indissolubile, la miseria ed il pentimento in[22]
cui essa poteva immergere l'oggetto de' suoi affetti,
erano motivi troppo forti per uno spirito affralito
dalle sciagure, e la sua ragione era rimasta alquanto
sospesa. Ma il dovere e la saviezza, per quanto potessero
esser penosi trionfarono finalmente della tenerezza
e de' suoi tristi presentimenti. Essa temeva
specialmente di gettar Valancourt nell'oscurità, ed in
quei vani rimorsi che sarebbero, o le parevan dover
essere la conseguenza necessaria di un matrimonio
nella loro posizione. Ella si condusse senza dubbio
con una grandezza d'animo poco comune, quando
risolse di provare un male presente, piuttosto che
provocare una disgrazia futura.


Si spiegò con un candore che giustificava pienamente
a qual punto essa lo stimasse ed amasse, e
perciò gli divenne, se fosse stato possibile, ancor
più cara. Gli espose tutti i motivi che la decidevano
a rigettare la sua offerta. Egli confutò, o piuttosto
contraddisse tutti quelli che riguardavano lui solo;
ma gli altri lo richiamarono a tenere considerazioni
su di lei, che il furore della passione e della disperazione
gli avevano fatto obliare. Quel medesimo
amore che facevagli proporre un matrimonio segreto
ed immediato, l'obbligava allora a rinunziarvi. La
vittoria costava troppo al suo cuore; si sforzava di
calmarsi per non affliggerla maggiormente, ma non
poteva dissimulare tutto quel che sentiva. « O Emilia, »
diss'egli, « bisogna ch'io vi lasci, e son certo
che vi lascio per sempre. »


Singulti convulsi l'interruppero, e amendue piansero
a calde lacrime. Rammentandosi finalmente il
pericolo di essere scoperti, e l'inconveniente di prolungare
un colloquio che l'esporrebbe all'altrui censura,
Emilia si fece coraggio, e pronunziò l'ultimo
addio.


« Restate » disse Valancourt, « restate ancora un
momento, ve ne scongiuro; ho da dirvi mille cose.
L'agitazione del mio spirito non mi ha permesso[23]
di parlarvi d'un sospetto importantissimo; ho temuto
mostrarmi poco discreto, e sembrare aver
unicamente in mira di allarmarvi, per farvi accettare
la mia proposta. »


Emilia, turbata, non lo lasciò, ma lo fece uscire
dal padiglione, e passeggiando sul terrazzo, Valancourt
continuò:


« Quel Montoni! Io ho udito voci molto strane
sul conto suo. Siete voi ben sicura ch'egli sia realmente
della famiglia della signora Quesnel, e che
la di lui fortuna sia tale quale sembra essere?


— Non ho ragione di dubitarne, » rispose Emilia
con sorpresa; « son certa del primo punto, ma non
ho alcun mezzo di giudicar del secondo; e vi prego
dirmi tutto quel che ne sapete.


— Lo farò per certo, ma questa informazione è
imperfettissima e poco soddisfacente. Il caso mi ha
fatto incontrare un Italiano che discorreva con qualcuno
di questo Montoni, parlavano essi del suo
matrimonio, e l'Italiano diceva che s'era quello
che s'immaginava, la signora Cheron non sarebbe
troppo felice. Continuò esso a parlarne con pochissima
considerazione, ma in termini generali e disse
certe cose sul di lui carattere, che eccitarono la mia
curiosità. Gli feci qualche domanda, ma egli fu riservato
nelle risposte; e dopo avere esitato qualche
tempo, confessò che Montoni, secondo la voce pubblica,
era un uomo perduto negli averi e nella riputazione.
Aggiunse qualcosa d'un castello che possiede
in mezzo agli Appennini, e qualche altra circostanza
relativa al suo primo genere di vita: lo
strinsi maggiormente, ma il vivo interesse delle mie
domande fu, per quanto io credo, troppo visibile,
e lo insospettì. Nessuna preghiera fu capace a determinarlo
di spiegarmi le circostanze cui aveva
fatto allusione, o a dirne di più: gli osservai che
se Montoni possedeva un castello negli Appennini,
ciò sembrava indicare una nascita distinta, e contraddire[24]
la supposizione della sua rovina. L'incognito
scosse la testa e fece un gesto significantissimo,
ma non rispose.


« La speranza di saper qualcosa di più positivo
mi trattenne a lungo vicino a lui; rinnovai più
volte le mie domande, ma l'Italiano stette in una
perfetta riservatezza, dicendomi che tutto quanto
aveva esposto non era se non il risultato d'una diceria
vaga; che l'odio e la malignità inventavano
spesso simili istorie, e bisognava crederci poco. Mi
vidi dunque costretto di rinunziare a saperne davvantaggio,
poichè l'Italiano pareva allarmato delle
conseguenze della sua indiscrezione. Restai perciò
nell'incertezza su d'un oggetto in cui essa è quasi
insopportabile. Pensate, cara Emilia, a quanto debbo
soffrire; vi vedo partire per terre straniere con un
uomo di carattere tanto sospetto, come quello di
cotesto Montoni, ma non voglio allarmarvi senza
necessità; è probabile, come lo ha detto l'Italiano,
che questo Montoni non sia quello di cui egli parlava;
nonpertanto, riflettete, mia cara, prima di affidarvi
a lui. Ma ormai mi scordava tutte le ragioni
che poco fa mi hanno fatto abbandonare le
mie speranze, e rinunziare al desiderio di possedervi
subito. »


Valancourt passeggiava a gran passi sul terrazzo,
mentre Emilia, appoggiata al parapetto, stava immersa
in profonda meditazione. La notizia allor ricevuta
l'allarmava moltissimo, e rinnovava il suo
interno contrasto. Essa non aveva mai amato Montoni.
Il fuoco de' suoi occhi, la fierezza dei suoi
sguardi, il di lui orgoglio, la sua audacia, la profondità
del suo risentimento, che alcune occasioni,
benchè leggere, avevano messo in caso di sviluppare,
erano altrettante circostanze ch'essa avea sempre
osservato con certo quale stupore; e l'espressione
ordinaria de' suoi lineamenti avevale sempre
inspirata antipatia. Credeva essa ogni momento più[25]
che fosse quello il Montoni del quale aveva parlato
l'Italiano. L'idea di trovarsi sotto il suo dominio
assoluto in paese straniero, le sembrava spaventosa;
ma il timore non era il solo motivo che dovesse
indurla ad un matrimonio precipitato. L'amore più
tenero le aveva già parlato a favore dell'amante,
e nella sua opinione non aveva potuto vincerla sul
proprio dovere, sull'interesse ben anco di Valancourt,
e sulla delicatezza che la faceva opporre ad
un matrimonio clandestino. Non conveniva dunque
aspettare che il terrore operasse più di quello che
non avesser potuto il dolore e l'amore; ma questo
terrore restituì ai motivi già combattuti tutta la
loro energia, e rese necessaria una seconda vittoria.
Valancourt, i cui timori per Emilia divenivano sempre
più forti, a misura che ne pesava le ragioni,
non poteva adattarsi a questa seconda vittoria. Era
più che persuaso che il viaggio d'Italia avrebbe
immerso la sua Emilia in un laberinto di mali.
Egli era dunque risoluto di opporvisi pertinacemente,
e di ottenere da lei un titolo, per divenire
il suo legittimo protettore.


« Emilia, » diss'egli col più vivo ardore, « questo
non è il momento degli scrupoli; non è il momento
di calcolare gl'incidenti frivoli e secondari
relativamente alla nostra felicità avvenire. Vedo
adesso, più che mai, quali sono i pericoli ai
quali andate incontro con un uomo del carattere
di Montoni. Il discorso dell'Italiano fa temere
molto, ma meno assai della fisonomia, e dell'idea
ch'essa mi ha formata di lui; vi scongiuro
per il vostro interesse, e pel mio, di prevenire le
disgrazie che mi fanno fremere a prevederle soltanto....
Cara Emilia! soffrite che la mia tenerezza
e le mie braccia ve ne allontanino; datemi il diritto
di difendervi. Io son lacerato dal dolore all'idea
della nostra separazione, e dei mali che possono
esserne la conseguenza. Non vi son pericoli[26]
ch'io non sia capace di affrontare per salvarvi. No,
Emilia, no, voi non mi amate.


— Abbiamo pochi momenti da perdere in recriminazioni
e giuramenti, » disse questa sforzandosi
di nascondere l'emozione; « se voi dubitate
quanto mi siete caro, e quanto lo sarete eternamente,
allora non vi è espressione da parte mia
che sia capace di convincerne. » Queste ultime
parole spirarono sulle sue labbra, e proruppe in
largo pianto. Dopo alcuni istanti, si riebbe da quello
stato di tristezza, e gli disse: « Bisogna ch'io vi
lasci: è tardi, e nel castello potrebbero accorgersi
della mia assenza. Pensate a me, amatemi, quando
sarò lungi di qui. La mia fiducia a tal proposito
formerà tutta la mia consolazione.


— Pensare a voi, amarvi! » sclamò Valancourt.


— Tentate di moderare siffatti trasporti per amor
mio, tentatelo!


— Per amor vostro!


— Sì, per amor mio, » disse la fanciulla con
voce tremante; « non posso lasciarvi in questo
stato.


— Ebbene, non mi lasciate, » rispose Valancourt;
« perchè lasciarci, o almeno lasciarci prima
dell'albeggiare del dì?


— È impossibile, » soggiunse Emilia; « voi mi
straziate il cuore; ma non acconsentirò mai a questa
proposta imprudente e precipitata.


— Se potessimo disporre del tempo, Emilia cara,
essa non sarebbe tanto precipitata. Bisogna sottoporci
alle circostanze.


— Sì, certo, bisogna sottomettervici. Io vi ho
già aperto il cuore: or mi sento spossata.


— Perdonate, Emilia; pensate al disordine del
mio spirito in questo momento in cui sto per lasciare
tutto ciò che ho di più caro al mondo.
Quando sarete partita, mi ricorderò con rimorso di
tutto quanto vi feci soffrire; allora desidererò invano[27]
di vedervi, non foss'altro per un istante solo,
per lenire il vostro dolore. »


Le lagrime lo interruppero; Emilia pianse con lui.


« Mi mostrerò più degno del vostro amore, »
disse Valancourt alfine; « non prolungherò questi
crudeli istanti, Emilia mia, unico mio bene, non
dimenticatemi mai: Dio sa quando ci rivedremo.
V'affido alla Provvidenza. O Dio, Dio mio, proteggetela,
beneditela! »


Si strinse la di lei mano al cuore: Emilia gli
cadde quasi esanime sul seno. Non piangevan più,
non si parlavano. Valancourt, allora repressa la sua
disperazione, tentò di consolarla e rincorarla. Ma
essa parea incapace di comprenderlo, ed un sospiro
che esalava per intervalli provava solo che non era
svenuta.


Ei la sorreggeva camminando a lenti passi verso
il castello, piangendo e parlandole sempre. Ella rispondea
sol co' sospiri. Giunti alfine a capo del
viale, parve rianimarsi, e guardandosi intorno:


« Qui bisogna separarsi, » diss'ella sostando.
« Perchè prolungar questi momenti? Rendetemi
quel coraggio del quale ho tanto bisogno. Addio, »
soggiunse con voce languida; « quando sarete partito,
mi ricorderò di mille cose ch'io doveva dirvi.


— Ed io! di tante e tante altre, » rispose Valancourt;
« non vi ho mai lasciata senza ricordarmi
subito dopo d'una domanda, d'una preghiera,
e d'una circostanza relativa al nostro amore, ch'io
ardeva dal desiderio di comunicarvi, ma che mi
sfuggiva dalla fantasia appena vi vedeva. O Emilia!
quelle fattezze ch'io contemplo in questo momento,
fra poco saranno lontane da' miei sguardi, e tutti
gli sforzi dell'immaginazione non potranno delinearmeli
con sufficiente esattezza... »


Ciò detto se la strinse di nuovo al seno, ove la
tenne in silenzio bagnandola delle sue lagrime, che
vennero pure a sollevare l'ambascia della fanciulla.[28]
Si dissero addio, e si separarono. Valancourt sembrava
fare ogni sforzo per allontanarsi. Traversò a
precipizio il viale; ed Emilia, che camminava lentamente
verso il castello, ascoltò i suoi passi veloci.
La calma malinconica della notte cessò alfine di essere
interrotta. Ella si affrettò di tornare alla sua
camera per cercarvi il riposo, ma, oimè! esso era
fuggito lungi da lei, e la sua sciagura non le permetteva
più di gustarne.




CAPITOLO XIV


Le carrozze furono di buon'ora alla porta: il fracasso
dei servitori che andavano e venivano per le
gallerie, svegliarono Emilia da un sonno affannoso.
Il suo spirito agitato le aveva rappresentato tutta
notte le immagini più spaventose ed il più tristo
avvenire. Fece ogni sforzo per bandire queste sinistre
impressioni, ma passava da un male immaginario
alla certezza d'un male reale. Rammentandosi
che aveva lasciato Valancourt, e forse per sempre,
il cuore le mancava a misura che la sua immaginazione
se lo rappresentava lontano; questi sforzi
spargevano sulla di lei fisonomia un'espressione di
rassegnazione, come un legger velo rende la bellezza
più interessante nascondendone soltanto qualche
debole tratto. Ma la signora Montoni notò il di lei
pallore straordinario, e la rimproverò severamente;
disse alla nipote che male a proposito si era abbandonata
ad inquietudini fanciullesche, che la pregava
di osservare un po' più il decoro, e non lasciar
trasparire che fosse incapace di rinunziare ad
un affetto poco conveniente. Fu servita la colazione:
Montoni parlò pochissimo, e parve impaziente di
partire. Le finestre della sala guardavano sul giardino,
e nel passarvi vicino, Emilia non potè fare a
meno di dare un'occhiata a quel luogo, ove, nella
notte precedente, erasi separata da Valancourt. Gli[29]
equipaggi erano già in ordine, ed i viaggiatori salirono
in carrozza e si misero in cammino. Emilia
sarebbe partita dal castello senza rammarico, se Valancourt
non avesse abitato ne' dintorni.


Da una piccola eminenza, ella osservò le immense
pianure della Guascogna, e le vette irregolari dei
Pirenei che sorgevano da lontano sull'orizzonte,
illuminate già dal sole nascente. « Care montagne, »
diss'ella fra sè, « quanto tempo passerà prima ch'io
vi rivegga! quante disgrazie in quest'intervallo, potranno
aggravare la mia miseria! Oh! s'io potessi
esser sicura di non ritornar mai più, ma che Valancourt
vivesse un giorno per me, partirei in pace!
Egli vi vedrà, vi contemplerà, mentr'io sarò lontana
di qui. »


Gli alberi della strada, che formavano una linea
di prospettiva alle immense distanze, stavano per
nasconderne la vista; ma gli azzurri monti distinguevansi
ancora traverso il fogliame, ed Emilia non
si tolse dalla portiera fin quando non li ebbe totalmente
perduti di vista.


Un altro oggetto risvegliò in breve la sua attenzione.
Aveva essa osservato appena un uomo che
camminava lungo la strada col cappello calato sugli
occhi, ma ornato d'un pennacchino militare. Al rumore
delle ruote egli si voltò, ed essa riconobbe
Valancourt. Le fece un segno, si avvicinò alla carrozza,
e dalla portiera le pose in mano una lettera.
Si sforzò di sorridere in mezzo alla disperazione
che vedevasegli dipinta sul volto; questo sorriso
restò impresso per sempre nell'anima di Emilia: si
affacciò allo sportello, e lo vide su d'una collinetta,
appoggiato ad uno degli alberi che l'ombreggiavano;
seguiva cogli occhi la carrozza, e stese le braccia;
ella continuò a guardarlo fintantochè la lontananza
non n'ebbe cancellati i lineamenti, e che la strada,
svoltando, nol fece sparire affatto.


Si fermarono ad un castello poco lontano per[30]
prendervi Cavignì, e i viaggiatori percorsero le
pianure della Linguadoca. Emilia fu relegata, senza
riguardo, colla cameriera di sua zia nella seconda
carrozza. La presenza di costei le impedì di legger
la lettera di Valancourt, non volendo esporsi alle
di lei probabili osservazioni sulla commozione che
avrebbele cagionato la lettura della medesima. Nulladimeno,
n'era tale la curiosità, che la sua mano tremante
fu mille volte sul punto di romperne il sigillo.
All'ora del pranzo, Emilia potè aprirla: essa
non aveva mai dubitato de' sentimenti di Valancourt;
ma la nuova assicurazione che ne riceveva,
restituì un po' di calma al suo cuore. Bagnò la lettera
con lacrime di tenerezza, e la mise da parte
per leggerla quando sarebbe stata soverchiamente
afflitta, e per occuparsi di lui meno dolorosamente
di quello avesse fatto la loro separazione. Dopo
molti dettagli che l'interessavano assai, perchè esprimevano
il suo amore, ei la supplicava di pensar
sempre a lui al tramonto del sole. « I nostri pensieri
allora si riuniranno, » diceva egli; « io attenderò
il tramonto colla maggiore impazienza, e
godrò dell'idea che i vostri occhi si fisseranno in
quel momento sopra i medesimi oggetti che i
miei, e che i nostri cuori si comprenderanno. Voi
non sapete, Emilia, la consolazione che me ne riprometto,
ma mi lusingo che la proverete anche
voi. »


È inutile dire con qual commozione Emilia aspettò
tutto il giorno il tramonto del sole: lo vide finalmente
declinare su d'immense pianure, lo vide scendere,
ed abbassarsi dalla parte ove abitava Valancourt.
Da quel momento il di lei spirito fu più
tranquillo e rassegnato di quello nol fosse stato
dopo il matrimonio di Montoni e di sua zia.


Per molti giorni i viaggiatori traversarono la
Linguadoca, e quindi entrarono nel Delfinato. Dopo
qualche tragitto pe' monti di quella provincia pittoresca,[31]
scesero dalle carrozze, e cominciarono a
salir le Alpi. Qui si offrirono ai loro occhi scene
così sublimi, che la penna non potrebbe imprendere
a descriverle in verun modo. Queste nuove e sorprendenti
immagini occuparono talmente Emilia, che
talfiata le fecero allontanare l'idea costante di Valancourt.
Più spesso esse le rinnovavano la rimembranza
de' Pirenei, che avevano ammirati insieme,
e di cui allora credeva che nulla superasse la bellezza.
Quante volte desiderò di comunicargli le
nuove sensazioni che l'animavano a questo spettacolo:
quante volte si compiaceva essa d'indovinare
le osservazioni ch'egli avrebbe fatte, e se lo figurava
sempre vicino: queste idee nobili e grandiose davano
alla di lei anima, ai di lei affetti una nuova vita.


Con quali vive e tenere emozioni si univa essa
ai pensieri di Valancourt all'ora del tramonto! Vagando
in mezzo alle Alpi, contemplava quell'astro
maraviglioso che si perdeva dietro le lor vette, le
cui ultime tinte morivano sulle punte coperte di
neve, e questo teatro s'avvolgeva in una maestosa
oscurità. Passato quel momento, Emilia distolse gli
occhi dall'occidente col dispiacere che si prova alla
partenza d'un amico. L'impressione singolare che
spande il velo della notte, a misura che si svolge,
veniva vie più accresciuta da quei sordi rumori che
non si ascoltano mai se non al progressivo calar
delle tenebre, e che rendono la calma generale assai
più imponente: è il lieve stormir delle foglie, l'ultimo
soffio della brezza che s'alza al tramonto, il
mormorio dei vicini torrenti.....


Nei primi giorni di questo viaggio attraverso le
Alpi, la scena rappresentava un avvicendarsi sorprendente
di deserti e d'abitazioni, di colti e di
terreni sterili. Sull'orlo di spaventosi precipizi, nelle
cavità delle rupi, al disotto delle quali si vedeva
una folta nebbia, si scoprivano villaggi, campanili e
monasteri. Verdi pascoli, ubertosi vigneti, formavano[32]
un contrasto interessante co' sovrapposti massi perpendicolari,
le cui punte di marmo o granito coronavansi
di eriche, e non mostravano che rocce massicce
ammucchiate le une sull'altre, terminate da
monti di neve, d'onde cascavano i torrenti rumoreggianti
in fondo alla valle.


La neve non era ancora sciolta sulle alture del
Cenisio, che i viaggiatori traversarono con qualche
difficoltà; ma Emilia, osservando il lago di ghiaccio,
e la vasta pianura circondata da quelle rupi scoscese
si raffigurò facilmente la bellezza di cui si sarebbero
ornate allo sparir della neve.


Scendendo dalla parte dell'Italia, i precipizi divennero
più spaventosi, le vedute più alpestri e
maestose. Emilia non si stancava di guardare le nevose
cime de' monti alle differenti ore del giorno:
rosseggiavano al levar del sole s'infiammavano al
mezzogiorno, e la sera rivestivansi di porpora; le
tracce dell'uomo non si riconoscevano che alla zampogna
del pastore, al corno del cacciatore, o all'aspetto
d'un ardito ponte gettato sul torrente per
servir di passaggio al cacciatore lanciato sull'orme
del camoscio fuggitivo.


Viaggiando al di sopra delle nuvole, Emilia osservava
con rispettoso silenzio la loro immensa superficie,
che bene spesso cuopriva tutta la scena
sottoposta, e somigliava ad un mondo nel caos;
altre volte, nel diradarsi, lasciavano travedere qualche
villaggio o una parte di quell'impetuoso torrente,
il cui fracasso faceva rimbombar le caverne;
si vedevano le rupi, le loro punte di ghiaccio, e le
cupe foreste d'abeti che arrivavano alla metà delle
montagne. Ma chi potrebbe descrivere l'estasi di
Emilia quando scuoprì per la prima volta l'Italia!
Dal ciglione uno dei precipizi spaventosi del Cenisio,
che stanno all'ingresso di cotesto bel paese,
gettò gli sguardi alle falde di quelle orride montagne,
e vide le ubertose valli del Piemonte e l'immense[33]
pianure della Lombardia. La grandezza degli
oggetti che le s'affacciarono improvvisamente, la
regione de' monti, che sembravano accumularsi, i
profondi precipizi sottoposti, quella cupa verzura
d'abeti e di querce che ricuopriva le profonde voragini,
i torrenti fragorosi, le cui rapide cascate
sollevavano una specie di nebbia, e formavano mari
di ghiaccio, tutto prendeva un carattere sublime e
contrapposto alla quiete e alla bellezza dell'Italia;
questa bella pianura che aveva per limiti l'orizzonte
ne accresceva vie più lo splendore con le tinte cilestri
che si confondevano coll'orizzonte medesimo.


La signora Montoni era spaventatissima osservando
i precipizi, sull'orlo dei quali i portantini
correvano con leggerezza pari alla celerità, e saltavan
come camosci. Emilia tremava egualmente, ma
i di lei timori erano un misto di sorpresa, d'ammirazione,
di stupore e di rispetto, onde non avea
mai provato nulla di simile.


I portantini si fermarono per prender fiato, ed i
viaggiatori sedettero sulla cima d'una rupe. Montoni
e Cavignì disputarono sul passaggio di Annibale
attraverso le Alpi: quegli pretendeva che fosse
entrato dal Cenisio, e questi sosteneva ch'era sceso
dal San Bernardo. Questa controversia presentò all'immaginazione
di Emilia tutto ciò che aveva dovuto
soffrire quel famoso guerriero in un'impresa
così ardita e perigliosa.


La signora Montoni intanto guardava l'Italia;
contemplava essa coll'immaginazione la magnificenza
dei palagi e la maestosità dei castelli dei quali andava
ad esser padrona a Venezia e negli Appennini,
e di cui si credea esser divenuta la principessa.
Lungi dalle inquietudini che avevanle impedito a
Tolosa di ricevere tutte le bellezze, delle quali il
marito parlava con maggior compiacenza per la sua
vanità, che riguardi pel loro onore e rispetto per la
verità, la signora Montoni progettava accademie,[34]
sebbene non amasse la musica; conversazioni, sebbene
non avesse verun talento per figurare nella
società; in somma, essa voleva superare collo splendore
delle sue feste e la ricchezza delle livree tutta
la nobiltà di Venezia. Questa idea lusinghiera fu
nonostante un poco turbata nel riflettere che il di
lei sposo, quantunque si abbandonasse ad ogni sorta
di divertimenti, quando se gli presentavano, affettava
però il maggior disprezzo per la frivola ostentazione
che suole accompagnarli. Ma pensando che
il di lui orgoglio sarebbe forse più soddisfatto di
spiegare il suo fasto in mezzo ai concittadini ed
amici, di quello nol fosse stato in Francia, continuò
a pascersi di queste illusioni, che non cessavano
d'estasiarla.


A misura che i viaggiatori calavano, vedevano
l'inverno cedere il posto alla primavera, ed il cielo
cominciava a prendere quella bella serenità che appartiene
soltanto al clima d'Italia. Il fiume Dora,
che scaturisce dalle sommità del Cenisio, e si precipita
di cascata in cascata attraverso i profondi
burroni, si rallentava, senza cessare di esser pittoresco,
nell'avvicinarsi alle valli del Piemonte. I
viaggiatori vi discesero avanti il tramonto del sole,
ed Emilia ritrovò ancor una volta la placida beltà
d'una scena pastorale: vedeva armenti, colline verdeggianti
di selve, e graziosi arboscelli quai ne
avea visti sulle Alpi stesse: i prati erano smaltati
di fiori primaverili, ranuncole e viole che non tramandano
in verun altro paese un odore così soave.
Emilia avrebbe voluto divenire una contadina piemontese,
abitare quelle ridenti capanne ombreggiate
alle rupi, avrebbe voluto menare una vita tranquilla
in mezzo a quegli ameni paesaggi, pensando con
ispavento alle ore, ai mesi intieri che avrebbe dovuto
passare sotto il dominio di Montoni.


Il sito attuale le raffigurava spesso l'immagine di
Valancourt; essa lo vedeva sulla punta d'uno scoglio[35]
osservando con estasi la stupenda natura che
lo circondava; lo vedeva errare nella valle, soffermarsi
spesso per ammirare quella scena interessante,
e nel fuoco d'un entusiasmo poetico slanciarsi su
qualche masso. Ma quando pensava in seguito al
tempo e alla distanza che dovevano separarli, quando
pensava che ciascuno de' suoi passi aumentava questa
distanza, il cuore le si straziava, ed il paese
perdeva ogni incanto.


Dopo aver attraversata la Novalese, essi giunsero
verso sera all'antica e piccola città di Susa, che
aveva altre volte chiuso il passaggio delle Alpi nel
Piemonte. Dopo l'invenzione dell'artiglieria, le alture
che la dominano ne hanno rese inutili le fortificazioni;
ma, al chiaro della luna, quelle alture
pittoresche, la città sottoposta, le sue mura, le sue
torri ed i lumi che ne illuminavano porzione, formavano
per Emilia un quadro interessantissimo.
Passarono la notte in un albergo che offriva poche
risorse; ma l'appetito dei viaggiatori dava un sapore
delizioso alle pietanze più grossolane, e la
stanchezza assicurava il loro sonno. In cotesto luogo,
Emilia intese il primo pezzo di musica italiana su
territorio italiano. Seduta dopo cena vicino ad una
finestrella aperta, ella osservava l'effetto del chiaro
di luna sulle vette irregolari delle montagne. Si
rammentò che in una notte consimile aveva riposato
su d'una roccia de' Pirenei col padre e Valancourt.
Intese sotto di lei i suoni armoniosi d'un
violino; l'espressione di quell'istrumento, in perfetta
armonia coi teneri sentimenti nei quali era
immersa, la sorpresero e l'incantarono a un tempo.
Cavignì, il quale si avvicinò alla finestra, sorrise
della sua sorpresa.


« Eh! eh! » le diss'egli; « voi ascolterete la
medesima cosa, forse in tutti gli alberghi: dev'essere
un figlio del locandiere quello che suona così,
non ne dubito. »[36]


Emilia sempre attenta, credeva udire un artista:
un canto melodioso e querulo la piombò a grado a
grado nella meditazione; i motteggi di Cavignì ne
la trassero sgradevolmente. Nel tempo istesso Montoni
ordinò di preparare gli equipaggi di buon'ora,
perchè voleva pranzare a Torino.


La signora Montoni godeva di trovarsi alfine in
una strada piana: raccontò lungamente tutti i timori
provati, obliando senza dubbio che ne faceva
la descrizione ai compagni dei suoi pericoli; ed aggiunse
che sperava presto perder di vista quelle
orribili montagne. « Per tutto l'oro del mondo, »
diss'ella, « non farei un'altra volta l'istesso viaggio. »
Si lamentò di stanchezza, e si ritirò di buon'ora.
Emilia fece altrettanto, ed intese da Annetta, la cameriera
di sua zia, che Cavignì non erasi ingannato
a proposito del suonatore di violino. Era colui il
figlio di un contadino abitante nella valle vicina, che
andava a passare il carnevale a Venezia, e ch'era
creduto molto amabile. « Quanto a me, » disse Annetta,
« preferirei vivere in queste boscaglie, e su
queste belle colline, che andare in una città. Si dice
che noi non vedremo più nè boschi, nè montagne,
nè prati, e che Venezia è fabbricata in mezzo al
mare. »


Emilia convenne con Annetta, che quel giovane
perdeva molto nel cambio, poichè lasciava l'innocenza
e la bellezza campestre, per la voluttà di una
città corrotta.


Quando fu sola, non potè dormire. L'incontro di
Valancourt, e le circostanze della loro separazione,
non cessarono di occupare il suo spirito, ritracciandole
il quadro di un'unione fortunata in seno
della natura, e della felicità dalla quale temeva
d'essere lontana per sempre.[37]




CAPITOLO XV


Il giorno seguente, di buonissim'ora, i viaggiatori
partirono per Torino. La ricca pianura che si
estende dalle Alpi a quella magnifica città, non era
allora, come adesso, ombreggiata da grossi alberi.
Piantagioni d'ulivi, di gelsi, di fichi, frammiste di
viti, formavano un magnifico paesaggio, traverso il
quale l'impetuoso Eridano si slancia dalle montagne,
e si unisce a Torino colle acque dell'umile
Dora. A misura che i viaggiatori avanzavano, le
Alpi prendevano ai loro sguardi tutta la maestà del
loro aspetto. Le giogaje s'innalzavano le une sopra
le altre in una lunga successione. Le cime più alte,
coperte di nubi, si perdevano qualche volta nelle
loro ondulazioni, e spesso slanciavansi di sopra ad
esse. Le falde di que' monti, le cui irregolari cavità
presentavano ogni sorta di forme, tingevansi di
porpora e di azzurro al movimento della luce e
delle ombre, variando ad ogni istante la scena. A
levante si spiegavano le pianure di Lombardia;
scoprivansi già le torri di Torino, e, in maggior
distanza, gli Appennini circoscrivevano un immenso
orizzonte.


La magnificenza di quella città, la vista delle sue
chiese, dei suoi palagi e delle grandiose piazze, oltrepassavano
non solo tutto ciò che Emilia avea
veduto in Francia, ma tutto quello ancora che si
era immaginato.


Montoni, il quale conosceva già Torino, e non
n'era sorpreso, non cedè alle preghiere della consorte,
che avrebbe desiderato vedere qualche palazzo;
non si fermò che il tempo necessario per
riposarsi, e si affrettò di partir per Venezia. Durante
il viaggio, egli si mostrò altiero e riservatissimo,
specialmente colla moglie; ma questa riserva
però era meno quella del rispetto che dell'orgoglio[38]
e del malcontento. Si occupava pochissimo di Emilia.
I suoi discorsi con Cavignì avevano sempre per
soggetto la guerra o la politica, che lo stato convulsivo
d'Italia rendeva allora molto interessanti.
Emilia osservava che, nel raccontare qualche fatto
illustre, gli occhi di Montoni perdevano la loro fosca
durezza, e sembravan brillare di gioia. Sebbene
ella dubitar potesse talvolta che questo istantaneo
cambiamento fosse piuttosto l'effetto della malizia,
che la prova del valore, pure questo pareva convenir
molto bene al di lui carattere, e alle sue maniere
superbe e cavalleresche; e Cavignì, con tutta
la sua disinvoltura e buona grazia, non era in grado
di stargli a confronto.


Entrando nel Milanese, lasciarono il loro cappello
alla francese pel berretto italiano scarlatto, ricamato
in oro. Emilia fu sorpresa nel vedere Montoni aggiungervi
il pennacchio militare, e Cavignì contentarsi
delle piume che vi si portavano di solito. Credè
finalmente che Montoni prendesse l'equipaggio soldatesco
per traversar con più sicurezza una contrada
inondata di truppe, e saccheggiata da tutti i partiti.
Si vedeva in quelle feraci pianure la devastazione
della guerra. Laddove le terre non restavano incolte,
si riconoscevano le tracce della rapina. Le viti erano
strappate dagli alberi che dovevano sostenerle; le
olive giacevano calpestate; i boschetti di gelsi erano
stati tagliati per accenderne il fuoco devastatore
de' casali e dei villaggi. Emilia volse gli sguardi,
sospirando, a settentrione, sulle Alpi Elvetiche: le
loro solitudini severe parevano essere il sicuro asilo
degli infelici perseguitati.


I viaggiatori osservarono spesso distaccamenti di
truppe che marciavano a qualche distanza, e negli
alberghi ove sostavano provarono gli effetti della
estrema carestia, e tutti gli altri inconvenienti che
sono le conseguenze delle guerre intestine. Pur non
ebbero mai alcun motivo di temere per la loro sicurezza.[39]
Giunti a Milano, non si fermarono nè per
considerare la grandiosità di quella metropoli, nè
per visitarne il magnifico tempio, che si stava ancora
costruendo.


Passato Milano, il paese portava il carattere di
una devastazione più spaventosa. Tutto allora parea
tranquillo; ma come il riposo della morte sopra
un volto che conserva ancora l'impronta orribile
delle ultime convulsioni. Lasciato il Milanese,
incontrarono essi nuovamente truppe. La sera era
avanzata; videro un esercito sfilare da lontano nella
pianura, e le cui lance e gli elmi scintillavano ancora
agli ultimi raggi del sole. La colonna inoltrò
sopra una parte della strada chiusa fra due poggi.
Si distinguevano facilmente i capi che dirigevano
la marcia. Parecchi uffiziali galoppavano sui fianchi,
trasmettendo gli ordini ricevuti dai superiori; altri,
separati dall'avanguardia, volteggiavano nella
pianura a destra.


Nell'avvicinarsi, Montoni, dai pennacchi, dalle bandiere
e dai colori delle divise dei vari corpi, credè
riconoscere la piccola oste comandata dal famoso
condottiero Utaldo. Egli era amico di lui e de' capi
principali. Fece fermare le carrozze per aspettarli,
e lasciar libero il passo. Una musica guerriera si
fece in breve sentire; essa andò sempre crescendo,
e Montoni, persuaso che fosse proprio la banda del
celebre Utaldo, sporse il capo dalla carrozza, e salutò
il generale agitando per aria il berretto. Il condottiere
rese il saluto colla spada, e vari uffiziali,
avvicinatisi alla carrozza, accolsero Montoni come un
antico conoscente: il capitano stesso arrivò poco
stante; la truppa fece alto, ed il capo s'intertenne
con Montoni, cui sembrava contentissimo di rivedere.
Emilia comprese, dai loro discorsi, esser quello
un esercito vittorioso che tornava nel suo paese; i
numerosi carriaggi che l'accompagnavano erano carchi
delle ricche spoglie dei nemici, non che di feriti[40]
e prigionieri che sarebbero stati riscattati alla
pace. I capi doveano separarsi il giorno seguente,
dividere il bottino, ed accantonarsi, colle proprie
bande, nei rispettivi castelli. Quella sera doveva dunque
esser consacrata ai piaceri, in memoria della comune
vittoria, e del congedo che prendevano scambievolmente.


Utaldo disse a Montoni che le sue schiere si sarebbero
accampate quella notte in un villaggio distante
mezzo miglio di là; l'invitò a tornare addietro,
e a prender parte al banchetto, assicurandolo
che le signore sarebbero benissimo trattate.
Montoni se ne scusò allegando che voleva arrivare
a Verona la sera medesima, e dopo qualche domanda
sullo stato dei dintorni di quella città, si accommiatò
e partì, ma non potè giungere a Verona che
a notte molto tarda.


Emilia non potè vederne la deliziosa situazione
che il giorno dopo. Abbandonarono di buon'ora
quella bella città, e giunti a Padova, s'imbarcarono
sulla Brenta per Venezia. Qui, la scena era intieramente
cambiata. Non eran più i vestigi di guerra
sparsi nelle pianure del Milanese, ma al contrario
tutto respirava il lusso e l'eleganza. Le sponde verdeggianti
della Brenta non offrivano che bellezze,
delizie ed opulenza. Emilia considerava con istupore
le ville della nobiltà veneta, i loro freschi portici, i
bei colonnati ombreggiati da pioppi e cipressi di
maestosa altezza; gli aranci, i cui fiori odorosi imbalsamavano
l'aria, ed i folti salci che bagnavan le
lunghe chiome, nel fiume, formando ombrosi ricetti.
Il carnevale di Venezia sembrava trasportato su
quelle sponde incantevoli. Le gondole, in perpetuo
moto, ne aumentavano la vita. Tutta la bizzarria delle
mascherate formava una superba decorazione; e
verso sera, molti gruppi andavano a ballare sotto i
grossi alberi.


Cavignì istruiva Emilia del nome dei gentiluomini[41]
ai quali appartenevano le ville; e per divertirla vi
aggiungeva un leggiero schizzo dei loro caratteri,
essa compiacevasi talvolta ad ascoltarlo; ma il suo
brio non faceva più sulla signora Montoni l'effetto
di prima: questa parea quasi sempre seria, e Montoni
era constantemente riservato.


È indescrivibile la meraviglia della fanciulla allorchè
scoprì Venezia, i suoi isolotti, i suoi palazzi e
le sue torri che tutti insieme sorgevano dal mare
riflettendo i loro svariati colori sulla superficie chiara
e tremolante. Il tramonto dava alle acque ed ai monti
lontani del Friuli, che circondano a tramontana
l'Adriatico, una tinta giallastra di effetto mirabilissimo.
I portici marmorei e le colonne di San Marco
erano rivestite di ricche tinte e dell'ombra maestosa
della sera. A misura che si avanzavano, la magnificenza
della città disegnavasi più particolareggiatamente.
I suoi terrazzi, sormontati da edifizi
aerei eppur maestosi, illuminati, com'eranlo allora,
dagli ultimi raggi del sole, parevano piuttosto fatti
uscir dall'onde dalla bacchetta di un mago, che costruiti
da mano mortale.


Il sole essendo finalmente sparito, l'ombra invase
gradatamente le acque e le montagne, spegnendo
gli ultimi fuochi che ne doravan le sommità; e il
violaceo malinconico della sera si stese ovunque
come un velo. Quanto era profonda e bella la tranquillità
che avvolgeva la scena! La natura pareva
immersa nel riposo. Le più soavi emozioni dell'anima
eran le sole che si destassero. Gli occhi di Emilia si
empivano di lacrime: essa provava i trasporti di una
devozione sublime, innalzando gli sguardi alla vôlta
celeste, mentre una musica deliziosa accompagnava
il mormorio delle acque. Ella ascoltava in tacita
estasi, e nessuno ardiva rompere il silenzio. I suoni
pareano ondeggiar nell'aere. La barca avanzavasi con
movimento sì placido, che appena si poteva distinguere;
e la brillante città sembrava moverle incontro[42]
da sè per ricevere i forestieri. Distinsero allora una
voce donnesca che, accompagnata da qualche istrumento,
cantava una dolce e languida arietta. La sua
espressione patetica, che sembrava ora quella di un
amore appassionato, ed ora l'accento lamentevole
del dolore senza speranza, annunziava bene come il
sentimento che le dettava non fosse finto. « Ah! »
disse Emilia sospirando e rammentandosi Valancourt;
« quel canto parte sicuramente dal cuore! »


Essa guardavasi intorno con attenta curiosità. Il
crepuscolo non lasciava più distinguere che immagini
imperfette. Intanto, a qualche distanza, le parve vedere
una gondola, ed intese nel tempo istesso un coro armonioso
di voci e d'istrumenti. Esso era così dolce,
così soave! Era come l'inno degli angeli che scendono
nel silenzio della notte. La musica finì, e parve
che il coro sacro risalisse al cielo. La calma profonda
che susseguì era espressiva quanto l'armonia
poc'anzi cessata. Finalmente, un sospiro generale
parve risvegliar tutti da una specie d'estasi. Emilia
però restò a lungo abbandonata all'amabile tristezza,
che si era impadronita de' suoi sensi; ma lo spettacolo
ridente e tumultuoso della piazza di San Marco
fugò le sue meditazioni. La luna, che sorgea allora
sull'orizzonte, spandeva un debole chiarore su' terrazzi,
su' portici illuminati, sulle magnifiche arcate,
e lasciava vedere le numerose società, i cui passi
leggieri, i canti ed i suoni si mescolavano confusamente.


La musica che i viaggiatori avevano già intesa,
passò vicino alla barca di Montoni, in una di quelle
gondole che si vedevano errare sul mare, piene di
gente che andava a godere il fresco della sera. Quasi
tutte avevano suonatori. Il mormorio dell'acque, i
colpi misurati dei remi sull'onde spumanti, vi aggiungevano
un incanto particolare. Emilia osservava,
ascoltava, e le pareva di essere nel tempio delle
fate. Anche la zia provava qualche piacere. Montoni[43]
felicitavasi di essere tornato finalmente a Venezia,
ch'esso chiamava la prima città del mondo; e Cavignì
era più allegro ed animato del solito.


La barca passò pel Canal grande ov'era situata la
casa di Montoni. I palazzi di Sansovino e Palladio
spiegavano agli occhi d'Emilia un genere di bellezza
e magnificenza tale, onde la sua immaginazione
non aveva potuto formarsi un'idea. L'aria era agitata
da dolci suoni ripetuti dall'eco del canale, e
gruppi di maschere che ballavano al lume della luna,
realizzavano le più brillanti funzioni della fantasmagoria.


La barca si fermò davanti al portico di una gran
casa, ed i viaggiatori sbarcarono su d'un terrazzo,
che per una scala marmorea li condusse in un salotto,
la cui magnificenza fece stupire Emilia. Le pareti
ed il soffitto erano ornati di affreschi. Lampade
d'argento, sospese a catene dello stesso metallo, illuminavano
la stanza. Il pavimento era coperto di
stuoie indiane dipinte di mille colori. La tappezzeria
delle finestre era di seta verde chiaro, ricamata in
oro, arricchita di frange verdi ed oro. Il balcone
guardava sul Canal grande. Emilia, colpita dal carattere
tetro di Montoni, osservava con sorpresa il
lusso e l'eleganza di quei mobili. Si rammentava
con istupore che glielo avevano descritto per un
uomo rovinato. — Ah! » si diceva ella; « se Valancourt
vedesse questa casa, non parlerebbe più
così! Come sarebbe convinto della falsità delle
ciarle. —


La signora Montoni prese le arie d'una principessa;
Montoni, impaziente e contrariato, non ebbe neppure
la civiltà di salutarla e complimentarla sul di
lei ingresso in casa sua. Appena giunto ordinò la
gondola ed uscì con Cavignì per prender parte ai
piaceri della serata. La Montoni divenne allora seria
e pensierosa: Emilia, cui tutto sorprendeva, si
sforzò di rallegrarla, ma la riflessione non diminuiva[44]
nè i capricci, nè il cattivo umore della zia, le cui
risposte furono talmente sgarbate, che Emilia, rinunziando
al progetto di distrarla, andò ad una finestra,
per godere almeno lei d'uno spettacolo così
nuovo ed interessante. Il primo oggetto che la colpì
fu un gruppo di persone che ballavano al suono di
una chitarra e di altri strumenti. La donna che teneva
la chitarra e quella che suonava il tamburello,
ballavano esse pure con molta grazia, brio ed agilità.
Dopo queste vennero le maschere: chi era travestito
da gondoliere, chi da menestrello e cantavano
tutti versi accompagnati da pochi strumenti. Si fermarono
a qualche distanza dal portico, ed in que'
canti Emilia riconobbe le ottave dell'Ariosto. Cantavano
le guerre dei mori contro Carlo Magno, e le
sventure del paladino Orlando. Cambiò il tuono della
musica, ed intese le malinconiche stanze del Petrarca;
la magia di quegli accenti dolorosi veniva
sostenuta da un'espressione e da una musica veramente
italiana. Il chiaro di luna compiva l'incantesimo.


Emilia era entusiasmata; versava lacrime di tenerezza,
e la sua immaginazione si portava in Francia
vicino a Valancourt; vide con rincrescimento
svanire quella scena incantata, e restò per qualche
tempo assorta in una pensierosa tranquillità. Altri
suoni risvegliarono di lì a poco la sua attenzione:
era una maestosa armonia di corni. Osservò che
molte gondole si mettevano in fila alle sponde; riconobbe
nella lontana prospettiva del canale una
specie di processione che solcava la superficie dell'acque;
a misura che si avvicinava, i corni ed altri
strumenti facevano echeggiar l'aria de' più soavi
concenti.... Poco dopo le deità favolose della città
parvero sorgere dal seno delle acque. Nettuno, con
Venezia sua sposa, si avanzavano sul liquido elemento,
circondati dai Tritoni e dalle naiadi. La bizzarra
magnificenza di questo spettacolo sembrava[45]
avere improvvisamente realizzato tutte le visioni
de' poeti; le vaghe immagini, delle quali era ripiena
l'anima di Emilia, le restarono impresse anche molto
dopo la comparsa di quella mascherata.


Dopo cena, sua zia vegliò lunga pezza, ma Montoni
non tornò a casa. Se Emilia aveva ammirata la
magnificenza del salotto, non fu però meno sorpresa
nell'osservare lo stato nudo e miserabile di tutte le
stanze, che dovè traversare per giungere alla sua
camera: vide essa una lunga fuga di grandi appartamenti,
il cui dissesto indicava bastantemente come
non fossero stati abitati da molto tempo. Vi erano
su qualche parete brani sbiaditi di antichissimi parati,
su alcune altre qualche affresco quasi distrutto
dall'umidità. Finalmente essa giunse alla sua camera,
spaziosa, elevata, sguarnita come le altre, e
con grandi finestroni; questa stanza richiamolle alla
fantasia le idee più tetre, ma la vista del mare le
dissipò.




CAPITOLO XVI


Montoni ed il suo compagno non erano ancora
tornati a casa all'alba: i gruppi delle maschere o
dei ballerini si dispersero collo spuntar del giorno,
come tante chimere. Montoni era stato occupato altrove;
la di lui anima poco suscettibile di frivole
voluttà, si pasceva nello sviluppo delle passioni energiche,
le difficoltà, le tempeste della vita che rovesciano
la felicità degli altri, rianimavano tutta l'elasticità
dell'anima sua, procurandogli i soli godimenti
dei quali potesse esser capace; senza un
estremo interesse la vita non era per lui che un
sonno. Quando gli mancava l'interesse reale, se ne
formava di artificiali, finchè l'abitudine, venendo a
snaturarli, cessassero di esser fittizi: tale era l'amore
pel giuoco. Non vi si era abbandonato dapprincipio
che per togliersi dall'inerzia e dal languore,[46]
e vi aveva persistito con tutto l'ardore di
una passione ostinata. Aveva passata la notte con
Cavignì a giuocare in una società di giovani che
avevan molto da spendere e molti vizi da soddisfare.
Montoni sprezzava la maggior parte di questa
gente, più per la debolezza de' loro talenti, che per
la bassezza delle inclinazioni, e non li frequentava
se non per renderli strumenti de' suoi disegni. Fra
costoro però eranvene di più abili, e Montoni li ammetteva
alla sua intimità, conservando però sopra
di loro quell'alterigia decisa che comanda la sommessione
agli spiriti vili o timidi, e suscita l'odio
e la fierezza degli spiriti superiori. Egli avea dunque
numerosi e mortali nemici; ma l'antichità del loro
odio era la prova certa del di lui potere; e siccome
il potere era il suo unico scopo, gloriavasi più di
quest'odio che di tutta la stima che avessero potuto
tributargli. Sprezzava dunque un sentimento tanto
moderato come quello della stima, ed avrebbe disprezzato
sè medesimo, se si fosse creduto capace
di contentarsene. Nel numero ristretto di coloro
ch'egli distingueva, contavansi i signori Bertolini,
Orsino e Verrezzi. Il primo aveva un carattere allegro
e passioni vive; era di una dissipazione e
d'una stravaganza senza pari, ma del resto generoso,
ardito e schietto. — Orsino, orgoglioso e riservato,
amava il potere più che l'ostentazione:
avea indole crudele e sospettosa; sentiva vivamente
le ingiurie, e la sete della vendetta non gli dava
riposo. Sagace, fecondo in ripieghi, paziente, costante
nella sua perseveranza, sapeva signoreggiare
le azioni e le passioni. L'orgoglio, la vendetta e
l'avarizia erano quasi le sole ch'ei conoscesse: pochi
riflessi che valessero ad arrestarlo, e pochi gli
ostacoli che potessero eludere la profondità de' suoi
stratagemmi. Costui era il favorito di Montoni.


Verrezzi non mancava di talenti; ma la violenza
della sua immaginazione lo rendeva schiavo delle[47]
passioni più opposte. Egli era giocondo, voluttuoso,
intraprendente, ma non aveva nè fermezza, nè coraggio
vero, ed il più vile egoismo era l'unico principio
delle sue azioni. Pronto ne' progetti, petulante
nelle speranze, il primo ad intraprendere e ad abbandonare
non solo le sue imprese, ma anche quelle
degli altri; orgoglioso, impetuoso ed insobordinato:
tal Verrezzi; chiunque però conosceva a fondo il di
lui carattere, e sapeva dirigere le sue passioni, lo
guidava come un fanciullo.


Questi erano gli amici che Montoni introdusse
in casa sua, ed ammise a mensa, il giorno dopo il
suo arrivo a Venezia. Vi era parimente fra loro un
nobile Veneziano chiamato il conte Morano, ed una
tal signora Livona, che Montoni presentò alla moglie
come persona di merito distinto; essa era venuta
la mattina per congratularsi del suo arrivo,
ed era stata invitata a pranzo.


La signora Montoni ricevè di mala grazia i complimenti
di quei signori. Bastava, per dispiacerle,
che fossero amici di suo marito; e li odiava perchè
accusavali d'aver contribuito a fargli passar la notte
fuori di casa. Finalmente l'invidiava, chè, sebbene
convinta della poca influenza di lei su Montoni,
supponeva che preferisse la loro società alla sua. Il
grado del conte Morano gli fruttò un'accoglienza
che ricusava a tutti gli altri: il di lei portamento,
le maniere sprezzanti, ed il suo stravagante e ricercato
abbigliamento (essa non aveva ancora adottato
le fogge veneziane), contrastavano forte colla
bellezza, modestia, dolcezza e semplicità della nipote.
Questa osservava con più attenzione che piacere
la società che la circondava: la bellezza però,
e le grazie seducenti della signora Livona l'interessarono
involontariamente; la dolcezza de' suoi
accenti e la sua aria di compiacenza risvegliarono
in Emilia le tenere affezioni che sembravano sopite
da lungo tempo.[48]


Per profittare della frescura della sera, tutta la
compagnia s'imbarcò nella gondola di Montoni. Lo
splendido fulgore del tramonto coloriva ancora le
onde, andando a morire a ponente; le ultime tinte
parevano dileguarsi a poco a poco, mentre l'azzurro
cupo del firmamento cominciava a scintillar di stelle.
Emilia abbandonavasi ad emozioni dolci e serie insieme;
la quiete della laguna su cui vogava, le
immagini che venivano a pingervisi, un nuovo cielo,
gli astri ripercossi nelle acque, il profilo tetro delle
torri e de' portici, il silenzio infine in quell'ora solenne,
interrotto sol dal gorgoglio dell'onda e dai
suoni indistinti di lontana musica, tutto sublimava
i suoi pensieri. Sgorgaronle lagrime; i raggi della
luna, luminosi ognor più che le ombre diffondeansi,
proiettavano allora su di lei il loro argenteo splendore.
Semicoperta d'un nero velo, la sua figura ne
ricevea un'inenarrabile soavità. Il conte Morano, seduto
accanto ad Emilia, e che l'aveva considerata
in silenzio, prese improvvisamente un liuto, e suonandolo
con molta agilità, cantò un'aria piena di
malinconia con voce insinuante. Quand'ebbe finito,
diede il liuto ad Emilia, che, accompagnandosi con
quell'istrumento, cantò con molto gusto e semplicità
una romanza, poi una canzonetta popolare del suo
paese; ma questo canto le richiamò al pensiero rimembranze
dolorose: la voce tremante le spirò sul
labbro, e le corde del liuto non risuonarono più
sotto la sua mano. Vergognandosi infine della commozione
che l'aveva tradita, passò tosto ad una canzone
sì allegra e graziosa, che tutta la conversazione
proruppe in applausi e fu obbligata a ripeterla.
In mezzo ai complimenti che le venivano fatti,
quelli del conte non furono i meno espressivi, e
non cessarono se non quando Emilia passò il liuto
alla signora Livona, la quale se ne servì con tutto
il gusto italiano.


Il conte, Emilia, Cavignì e la signora Livona cantarono[49]
quindi canzonette accompagnate da due liuti,
e da qualche altro istrumento. Talvolta gli strumenti
tacevano, e le voci, in accordo perfetto, andavano
indebolendosi fino all'ultimo grado; dopo
una breve pausa si rialzavano, gli strumenti riprendevan
forza, ed il coro generale echeggiava per
l'aria.


Intanto, Montoni, annoiato di quella musica, rifletteva
al mezzo di disimpegnarsi per seguir coloro
che volevano andare a giuocare in un casino. Propose
di tornare a terra: Orsino l'appoggiò con
piacere, ma il conte e tutti gli altri vi si opposero
con vivacità.


Montoni meditava di nuovo il modo di sbarazzarsi
da quell'impaccio; una gondola vuota che tornava
a Venezia passò accanto alla sua. Senza tormentarsi
più a lungo per una scusa, profittò dell'occasione,
e affidando le signore agli amici partì
con Orsino. Emilia, per la prima volta, lo vide andar
via con rincrescimento, poichè considerava la
di lui presenza come una protezione, senza saper
bene ciò che avesse a temere. Egli sbarcò alla
piazza San Marco, e correndo al casino, si perdè
nella folla de' giuocatori.


Il conte aveva fatto partire segretamente un suo
servo nella barca di Montoni per mandar cercare i
suoi suonatori e la propria gondola. Emilia, ignara
di tutto questo, intese le allegre canzonette de' gondolieri
che, turbando coi remi le onde argentine,
ove ripercoteasi la luna, si avvicinavano, e distinse
poco dopo il suono degli istrumenti, ed una sinfonia
veramente armoniosa; nell'istante medesimo le
barche si avvicinarono, il conte spiegò tutto, e passarono
nella di lui gondola parata col gusto più
squisito.


Mentre la società gustava rinfreschi di frutti e
gelati, i suonatori nell'altra barca eseguivano deliziose
melodie: il conte, seduto accanto ad Emilia,[50]
occupavasi di lei sola, e le prodigava con voce
soave ed appassionata complimenti, il cui senso non
poteva esser dubbioso; per evitarli, essa parlava
colla signora Livona, e prendeva con lui un tuono
riservato ed imponente, ma troppo dolce per contenere
le di lui sollecitudini. Egli non poteva vedere,
nè ascoltare altri che Emilia, e non poteva
parlare che a lei. Cavignì l'osservava con mal umore,
e la fanciulla con imbarazzo.


Sbarcarono tutti alla piazza San Marco; la serenità
della notte determinò la Montoni ad accettare
le proposte del conte, di passare cioè alcun tempo
prima di andare a cena, al di lui casino col resto
della società. Se qualche cosa avesse potuto dissipare
gli affanni di Emilia, sarebbe stata per certo
la novità di tutto ciò che la circondava, gli ornamenti
dei ricchi palazzi ed il tumulto delle maschere.


Finalmente recaronsi al casino, ornato col miglior
gusto: eravi preparata una splendida cena; ma
quivi il contegno riserbato di Emilia fece comprendere
al conte quanto gli fosse necessario il favore
della Montoni; la condiscendenza da essa già dimostratagli
gl'impediva di giudicare l'impresa molto
difficile; rivolse allora parte delle sue attenzioni
sulla zia, la quale fu talmente lusingata di tale distinzione,
che non potè dissimulare la gioia, e prima
della fine della cena il conte possedeva tutta la sua
stima. Quand'egli si dirigea a lei, il suo volto accigliato
si rasserenava, e sorridea a tutte le sue
parole, gradiva tutte le di lui proposte: Morano la
invitò colla società a prendere il caffè nel suo palco
al teatro per la sera dopo; Emilia, avendo inteso
ch'ella accettava, non si occupò più che di trovare
una scusa per dispensarsene.


Era già tardi quando s'imbarcarono; la sorpresa
d'Emilia fu estrema, allorchè, uscendo dal casino,
vide il sole sorgere dall'Adriatico, e la piazza San
Marco tuttavia piena di gente. Il sonno da gran[51]
pezza le aggravava le palpebre; la frescura del vento
marino la ravvivò, ed essa sarebbe partita di colà
con rincrescimento, se non fosse stata la presenza
del conte, il quale volle assolutamente accompagnar
le signore fino a casa. Montoni non era tornato ancora:
la di lui moglie entrò nelle proprie stanze, e
liberò Emilia dalla noia della sua compagnia.


Montoni tornò tardi ed era furente: aveva fatto
una grossa perdita; prima di coricarsi, volle parlare
a quattr'occhi con Cavignì, e l'aria di quest'ultimo
fece conoscere abbastanza il dì seguente
che il soggetto della conferenza eragli riuscito poco
gradevole.


La Montoni, che per tutto il dì era stata taciturna
e pensierosa, ricevè verso sera alcune Veneziane, la
cui affabilità piacque assai ad Emilia. Queste signore
avevano un'aria di scioltezza e cordialità
inesprimibile co' forestieri; parevan conoscerli da
molto tempo; la loro conversazione era a vicenda
tenera, sentimentale e briosa. La Montoni istessa,
che non aveva veruna attrattiva per quel genere di
trattenimento, e la cui asciuttezza e l'egoismo
contrastavano sovente all'eccesso colla loro squisita
cortesia, ella stessa non potè essere insensibile alle
loro grazie.


Cavignì andò a trovar le signore alla sera: Montoni
aveva altri impegni. S'imbarcarono esse nella
gondola per andare alla piazza San Marco, ove il
concorso era numeroso. Dopo una breve passeggiata,
si misero a sedere alla porta di un casino; e mentre
Cavignì faceva portare il caffè e gelati, arrivò il
conte Morano. S'avvicinò ad Emilia con aria d'impazienza
e di piacere, che, unita alle di lui attenzioni
della sera precedente, l'obbligarono a riceverlo
con timida riservatezza.


Era quasi mezzanotte allorchè andarono al teatro.
Emilia nell'entrarvi, si rammentò tutto ciò che
aveva veduto, e ne fu meno abbagliata. Tutto lo[52]
splendore dell'arte le pareva inferiore alla semplicità
della natura. Il suo cuore non era commosso
dall'ammirazione come alla vista dell'immenso Oceano
e della grandezza de' cieli, al fragor dell'onde
tumultuanti, alle melodie d'una musica campestre.
Tai memorie doveano renderle insipida la scena affettata
che le s'offriva allo sguardo.


Scorsero così varie settimane, nelle quali Emilia
si compiacque a considerare un teatro i costumi
tanto opposti ai francesi; ma il conte Morano vi
si trovava troppo frequentemente per la di lei tranquillità.
Le sue grazie, la sua figura, le sue belle
doti, che facevano l'ammirazione generale, avrebbero
forse interessato anche Emilia, se il suo cuore
non fosse stato prevenuto per Valancourt. Fors'anco
avrebbe fatto meglio a mettere meno pertinacia
nelle sue premure. Qualche tratto del suo carattere
che rivelò, indisposero Emilia, e la prevennero contro
le di lui migliori qualità.


Poco dopo il suo arrivo a Venezia, Montoni ricevè
una lettera da Quesnel, che gli annunziava la
morte dello zio della propria moglie nella sua villa
sulla Brenta, ed il suo progetto di venir tosto a
prender possesso di cotesta casa e degli altri beni
toccatigli. Questo zio era fratello della madre della
signora Quesnel. Montoni eragli parente da parte di
padre, e sebbene non avesse nulla a pretendere da
cotesta ricca eredità, non potè nascondere tutta l'invidia
che tale notizia suscitavagli in cuore.


Emilia aveva osservato che, dopo la sua partenza
dalla Francia, Montoni non aveva conservato nessun
riguardo per sua zia: in principio l'aveva trascurata,
ed ora non le mostrava che avversione e cattivo
umore. Ella non aveva mai supposto che i difetti
della zia fossero sfuggiti al discernimento di
Montoni, e che lo spirito e la figura di lei avessero
meritata la sua attenzione. La sorpresa cagionatale
da questo matrimonio era stata estrema; ma la[53]
scelta era fatta, e non s'immaginava com'egli potesse
così presto mostrarle il suo aperto disprezzo.
Montoni, allettato dall'apparente ricchezza della
Cheron, si trovò singolarmente deluso nelle sue
speranze. Sedotto dalle astuzie da essa messe in
opra finchè l'avea creduto necessario, si trovò incappato
nel laccio in cui egli avrebbe voluto far
cadere lei stessa. Era stato giocato dall'accortezza
d'una donna, della quale stimava pochissimo l'intelligenza,
e si trovava aver sacrificato l'orgoglio e
la libertà, senza preservarsi dalla rovina disastrosa
sospesa sul di lui capo. La signora Cheron erasi
posta in testa propria la maggior parte delle sostanze.
Montoni s'era impadronito del resto, e benchè
la somma ricavatane fosse inferiore alla sua
aspettativa ed ai suoi bisogni, aveva portato questo
danaro a Venezia per abbagliare il pubblico, e tentar
la fortuna con un ultimo sforzo.


Le voci riportate a Valancourt sul carattere e
la situazione di Montoni, erano pur troppo esatte.
Toccava al tempo ed alle circostanze a svelare il
mistero.


La Montoni non era di carattere da soffrire un'ingiuria
con dolcezza, e molto meno dal risentirla
con dignità. Il di lei orgoglio esacerbato si spiegava
con tutta la violenza, tutta l'acredine d'uno
spirito limitato, o almeno mal regolato. Non volea
nemmen riconoscere avere colla sua duplicità
provocato in certo qual modo siffatto disprezzo.
Persistè a credere lei sola essere da compiangersi
e Montoni da biasimare. Incapace di concepire qualche
idea morale d'obbligazione, non ne sentiva la
forza se non quando la si violava verso di lei. La
sua vanità soffriva già crudelmente per lo sprezzo
aperto del consorte; le restava da soffrir davvantaggio,
scuoprendone lo stato di fortuna. Il disordine
della di lui casa faceva conoscere parte della
verità alle persone spassionate; ma quelle che non[54]
volevan credere decisamente se non secondo i loro
desideri, erano affatto cieche. La Montoni non si
credeva niente meno d'una principessa, essendo
padrona di un palazzo a Venezia, e di un castello
negli Appennini. Talvolta Montoni parlava di andare
per qualche settimana al suo castello di Udolfo
ond'esaminarne lo stato e ritirarne le rendite. Parea
non esservi stato da due anni, e che il castello
fosse abbandonato alle cure d'un vecchio servo,
ch'egli chiamava il suo intendente.


Emilia sentiva parlar di questo viaggio con piacere,
poichè le prometteva nuove idee e qualche
tregua alle assiduità di Morano. D'altronde, alla
campagna, avrebbe avuto più agio d'occuparsi di
Valancourt, e della malinconica memoria dei luoghi
natii.


Il conte Morano non si tenne lunga pezza al muto
linguaggio delle premure. Dichiarò la sua passione
ad Emilia, e fece proposte allo zio, il quale accettò
a dispetto del di lei rifiuto. Incoraggito da Montoni,
ed in ispecie da una cieca vanità, il conte non disperò
di riuscire. Emilia fu sorpresa ed offesa sensibilmente
della di lui persistenza. Morano passava
tutto il suo tempo in casa di Montoni, vi pranzava,
e seguiva da per tutto Emilia e la sua zia.


Montoni non parlava più d'andare ad Udolfo, e
non era in casa se non quando vi si trovavano il
conte ed Orsino. Si notò qualche freddezza tra lui e
Cavignì, sebbene quest'ultimo abitasse sempre nel
palazzo. Emilia s'avvide che lo zio si rinchiudea
spesso nelle sue stanze con Orsino per ore intiere,
e qualunque fosse il tema de' loro colloqui, convien
dire che fosse interessantissimo, perchè Montoni trascurava
fin la sua passione favorita pel giuoco, e
passava la notte in casa. Eravi qualcosa di misterioso
nelle visite d'Orsino; Emilia n'era più inquieta
che sorpresa, avendo involontariamente scoperto ciò
ch'egli si sforzava di nascondere. Montoni, dopo le[55]
visite dell'amico, era talfiata più pensieroso del solito;
tal altra, le sue profonde meditazioni l'allontanavano
da quanto lo circondava, e spandevano
sulla di lui fisonomia un'alterazione tale da renderla
terribile. Altre volte i di lui occhi sfavillavano, e
tutta l'energia dell'animo suo parea prendere maggior
vigore nell'idea d'una sorpresa formidabile.
Emilia cercava di seguire con interesse i di lui mutamenti,
ma si guardò bene dal far conoscere l'esito
delle sue osservazioni alla zia, la quale non vedeva
ne' modi strani del marito se non la conseguenza
d'una ordinaria severità.


Una seconda lettera di Quesnel annunziò l'arrivo
di lui e della moglie a Miarenti: conteneva inoltre
particolari sul fortunato caso che li conducea in
Italia, e finiva con un invito pressantissimo per Montoni,
sua moglie e sua nipote, di andarlo a trovare
ne' suoi nuovi possessi.


Emilia ricevè, quasi nel medesimo tempo, una lettera
molto più interessante, e che per qualche tempo
calmò l'amarezza del suo cuore. Valancourt, sperando
ch'ella fosse ancora a Venezia, aveva arrischiato
una lettera per la posta; le parlava del suo
amore, delle sue inquietudini e della sua costanza.
Aveva languito per qualche tempo a Tolosa dopo la
di lei partenza, avendovi gustato il piacere di visitar
tutti i giorni quei luoghi, ov'ella si trovava del
consueto, ed erane partito per recarsi al castello di
suo fratello, nelle vicinanze della valle. Dopo le più
tenere espressioni e lunghi dettagli, egli aggiungeva:


« Voi dovete osservare che la mia lettera è datata
da parecchi giorni diversi. Guardate le prime
righe, e conoscerete che le scrissi subito dopo la vostra
partenza di Francia. Scrivere a voi, ecco la sola
occupazione che ha potuto rendermi sopportabile la
vostra assenza. Quando converso con voi sulla carta,
e vi esprimo ciascuno de' miei sentimenti, e tutti gli
affetti del cuore, mi pare che siate sempre presente:[56]
non ho avuto fino ad ora altra consolazione. Ho differito
a spedire il plico unicamente pel piacere di
aumentarlo. Quando una circostanza qualunque aveva
interessato il mio cuore ed infondeva un raggio di
gioia nell'anima mia, mi affrettava di comunicarvelo,
e mi pareva vedervi godere ad una tal descrizione.


« Debbo farvi nota una circostanza che distrugge
in un punto solo tutte le mie illusioni. Son costretto
di andare a raggiungere il mio reggimento, e non
posso più vagar sotto quelle ombre amene, ove mi
figurava di vedervi al mio fianco. La valle è affittata.
Ho luogo di credere che ciò avvenne a vostra
insaputa, da quanto mi ha detto Teresa stamattina,
e perciò appunto ve ne parlo. Essa piangeva raccontandomi
che lasciava il servizio della sua cara padrona,
ed il castello nel quale passò tanti anni felici.

E quel che è peggio, aggiungeva, senza una lettera
della signora Emilia che me ne raddolcisca il dolore.
Questa è l'opera del signor Quesnel; e ardisco
dire ch'essa ignora tutto quel che si fa in questo
luogo.


« Teresa mi ha detto aver ricevuto una lettera da
lui, annunziandole che il castello era affittato, che
non c'era più bisogno del suo servizio, e che avesse
a sloggiare entro una settimana. Qualche giorno prima
di ricevere questa lettera, ella era stata sorpresa dall'arrivo
del signor Quesnel e di un forestiero, i quali
avevano esaminato partitamente il castello.
 »


Verso la fine della lettera datata una settimana
dopo quest'ultima frase, Valancourt soggiungea:


« Prima di partire pel reggimento, sono andato
stamattina alla valle. Ho saputo che il locatario vi
è già alloggiato, e che Teresa n'è partita. Ho procurato
di aver notizie sul carattere di cotesto signore,
ma indarno. La peschiera era sempre aperta. Vi andai,
e vi passai un'ora, pascendomi dell'immagine della
mia cara Emilia. O Emilia mia! sicuramente noi
non siamo separati per sempre, sì, lo spero, e vivremo
l'uno per l'altro. »
[57]


Questa lettera le fece versar molte lacrime, ma
lacrime di tenerezza e soddisfazione, sentendo che
Valancourt stava bene di salute, e che il suo affetto
per lei non era indebolito nè dal tempo, nè dalla
lontananza. Quanto alla notizia che le dava intorno
al suo castello, era stupita ed offesa che Quesnel
l'avesse affittato senza degnarsi neppure di consultarla.
Questo procedere provava evidentemente a
qual punto egli credesse assoluta la sua autorità ed
illimitati i suoi poteri nell'amministrazione del di
lei patrimonio. È vero che prima della sua partenza
le aveva proposto di affittare que' fondi, e per riguardo
ad economia essa non aveva fatta obbiezione
alcuna; ma affidare al capriccio d'uno straniero i
beni e la casa paterna, privarla di un asilo sicuro
nel caso che qualche disgraziata circostanza potesse
renderglielo necessario; ecco ciò che l'aveva decisa
ad opporvisi forte. Sant'Aubert, negli ultimi momenti
della sua vita, aveva ricevuto da lei la promessa
solenne di non disporre mai del castello, e,
soffrendone la locazione, questa promessa era violata.
Era troppo evidente che Quesnel non aveva
fatto caso delle di lei obbiezioni, e considerava come
indifferente tutto ciò che si opponeva ai soli vantaggi
pecuniari. Pareva eziandio ch'egli non si fosse
degnato d'informare Montoni di tale operazione,
giacchè quest'ultimo non avrebbe avuto alcun motivo
per nascondergliela, se gli fosse stata nota. Tale
condotta spiacque forte ad Emilia e la sorprese; ma
ciò che l'afflisse maggiormente fu il licenziamento
della vecchia e fedel serva del padre suo. « Povera
Teresa, » diceva Emilia, « tu non puoi avere accumulato
nulla del tuo salario; tu eri caritatevole
cogli infelici, e credevi morire in quella casa ove
hai passato il fiore degli anni! Povera Teresa! Ora
ti hanno scacciata nella tua vecchiaia, e sarai costretta
d'andare mendicando un tozzo di pane! »


E piangeva amaramente mentre faceva queste riflessioni,[58]
pensando a quel che avrebbe potuto fare
per Teresa, e al modo di spiegarsi in proposito con
Quesnel. Temeva assai che la di lui anima insensibile
non fosse capace di pietà. Volle informarsi se
nelle sue lettere a Montoni colui facesse menzione
de' suoi affari; lo zio la fece pregare, di lì a poco,
di passare nel suo gabinetto, e immaginandosi che
egli volesse comunicarle qualche passo di lettera di
Quesnel relativo all'affare della valle, vi andò tosto
e lo trovò solo.


« Io scrivo al signor Quesnel, » le disse egli, allorchè
la vide entrare, « in risposta ad una lettera
che ho ricevuto ultimamente. Desiderava parlarvi
sopra un articolo di questa lettera.


— Anch'io desiderava intertenermi con voi di tal
soggetto, » rispose Emilia.


— È una cosa interessantissima per voi, » soggiunse
Montoni; « voi la vedrete al certo sotto il
medesimo aspetto di me, poichè non si può vederla
diversamente; converrete adunque che qualunque
obbiezione fondata sul sentimento, come si dice, deve
cedere a considerazioni d'un vantaggio più positivo.


— Accordandovi questo, » disse Emilia modestamente,
« mi pare che nel calcolo dovrebbero entrare
anche le considerazioni d'umanità; ma temo non sia
troppo tardi per deliberare a tal proposito, e mi
spiace che non sia più in mio potere di rigettarlo.


— È troppo tardi, » disse Montoni; « ma piacemi
vedere che vi sottomettete alla ragione e alla
necessità, senza abbandonarvi a querele inutili. Applaudisco
assaissimo a tale condotta, la quale annunzia
una forza d'animo di cui il vostro sesso è
difficilmente capace. Quando avrete qualche anno di
più, riconoscerete il servizio che vi fanno gli amici
vostri, allontanandovi dalle romanzesche illusioni del
sentimento. Non ho ancora chiusa la lettera, e potete
aggiungervi qualche linea per informar lo zio
del vostro consenso: lo vedrete fra breve, essendo[59]
mia intenzione di condurvi fra pochi giorni a Miarenti
con mia moglie; così potrete discorrere di
quest'affare. »


Emilia scrisse le linee seguenti:


« È inutile adesso, o signore, il farvi osservazioni
sull'affare del quale il signor Montoni mi dice avervi
scritto. Avrei potuto desiderare che lo si concludesse
meno precipitosamente; ciò mi avrebbe dato tempo
per vincere quant'egli chiama
pregiudizi, e il cui peso
mi opprime il cuore. Giacchè la cosa è fatta, io mi
vi sottopongo, ma nonostante la mia sommissione, ho
molte cose da dire su altri punti relativi al medesimo
soggetto, e li riserbo pel momento in cui avrò l'onore
di vedervi. Intanto vi prego, signore, di voler prender
cura della povera Teresa, in considerazione della vostra
affezionatissima nipote.


« Emilia Saint-Aubert. »


Montoni sorrise ironicamente a ciò che aveva
scritto Emilia, ma non le fece veruna obbiezione.
Ella si ritirò nel suo appartamento, e cominciò una
lettera per Valancourt; vi riferiva le particolarità
del suo viaggio, e l'arrivo a Venezia. Vi descrisse
le scene più interessanti del suo passaggio nelle
Alpi, le sue emozioni alla prima vista dell'Italia, i
costumi ed il carattere del popolo che la circondava,
e qualche dettaglio sulla condotta di Montoni.
Si guardò bene dal nominare il conte Morano, e
meno ancora della di lui dichiarazione, sapendo
quanto il vero amore sia facile ad allarmarsi.




CAPITOLO XVII


Il dì dopo, il conte pranzò in casa Montoni; era
straordinariamente allegro. Emilia osservò nelle sue
maniere con lei un'aria di fiducia e di gioia che
non aveva mai avuta; si provò a reprimerlo raddoppiando[60]
la consueta freddezza, ma non le riuscì.
Egli parve cercar l'occasione di parlarle senza testimoni,
ma Emilia non volle mai aderire ad ascoltar
cose che non si potessero dire a voce alta.
Verso sera, il signor Montoni e tutta la società andarono
a divertirsi sul mare; il conte, conducendo
Emilia allo zendaletto[1], portò la sua mano alle
proprie labbra, e la ringraziò della condiscendenza
che si era degnata mostrare. La fanciulla, sorpresa
e malcontenta, affrettossi a ritirar la mano, e credette
che scherzasse; ma quando in fondo alle scale
conobbe, dalla livrea, che era lo zendaletto del
conte, e che il resto della società, essendo già entrata
in altre gondole, stava per partire, risolse di
non soffrire un abboccamento particolare; gli diede
la buona sera, e tornò verso il portico. Il conte la
seguì, pregando e supplicando, allorchè giunse
Montoni, il quale la prese per mano, e la condusse
al zendaletto; Emilia lo pregava sottovoce di considerare
la sconvenienza di quel passo.


« Questo capriccio è intollerabile, » diss'egli; « io
non vedo qui nessuna sconvenienza. »


Da quel punto, l'avversione di Emilia pel conte
divenne una specie d'orrore; l'audacia inconcepibile
colla quale continuava a perseguitarla ad onta
del suo rifiuto, l'indifferenza ch'egli mostrava per
la sua opinione particolare, finchè Montoni favorisse
le sue pretese, tutto si riuniva per aumentare l'eccessiva
ripugnanza ch'essa non aveva mai cessato
di sentire per lui. Si tranquillò però alquanto sentendo
che Montoni sarebbe venuto con loro. Egli
si mise da una parte e Morano dall'altra. Tutti tacevano
mentre i gondolieri preparavano i remi; ma
Emilia, fremendo del colloquio che sarebbe susseguito
a quel silenzio, ebbe alfine bastante coraggio
per romperlo con qualche parola indifferente, all'uopo[61]
di prevenire le sollecitazioni dell'uno ed i
rimproveri dell'altro.


« Io era impaziente, » le disse il conte, « di
esprimere la mia riconoscenza alla vostra bontà:
ma devo pure ringraziare il signor Montoni, che mi
procurò un'occasione tanto desiderata. »


Emilia guardò il conte con un misto di sorpresa
e malcontento.


« Come! » soggiuns'egli; « vorreste voi diminuire
la soddisfazione di questo momento delizioso?
Perchè rimpiombarmi nella perplessità del dubbio,
e smentire, coi vostri sguardi, il favore delle vostre
ultime dichiarazioni? Voi non potete dubitare della
mia sincerità e di tutto l'ardore della mia passione.
È inutile, vezzosa Emilia, senza dubbio, è inutile
affatto che cerchiate di nascondere più a lungo i
vostri sentimenti.


— Se li avessi mai nascosti, signore, » rispose
Emilia, « sarebbe inutile senza dubbio il dissimularli
viemaggiormente. Aveva sperato che mi avreste
risparmiata la necessità di dichiararli ancora; ma
poichè mi ci obbligate, vi protesto, e per l'ultima
volta, che la vostra perseveranza vi priva perfin
della stima ond'io era disposta a credervi degno.


— Perdio! » sclamò Montoni; « questo oltrepassa
la mia aspettativa; aveva conosciuto capricci
nelle donne, ma... Osservate, madamigella Emilia,
che se il conte è vostro amante, io nol sono, e non
servirò di trastullo alle vostre capricciose incertezze.
Vi si propone un matrimonio che onorerebbe ogni
famiglia: ricordatevi che la vostra non è nobile;
voi resisteste lunga pezza alle mie ragioni; il mio
onore adesso è impegnato, e non intendo fare una
trista figura. Voi persisterete, se v'aggrada, nella
dichiarazione che m'incaricaste di fare al conte.


— Bisogna per certo che siate caduto in errore,
signore, » disse Emilia; « le mie risposte su questo
soggetto furono costantemente le medesime; è degno[62]
di voi l'accusarmi di capriccio. Se acconsentiste
ad incaricarvi delle mie risposte, è un onore ch'io
non sollecitai. Ho dichiarato io stessa al conte Morano,
ed a voi, o signore, che non accetterò mai
l'onore ch'egli vuol farmi, e lo ripeto. »


Il conte guardava Montoni con meraviglia; il
contegno di quest'ultimo mostrava eziandio sorpresa,
ma una sorpresa mista a sdegno.


« Qui c'è audacia e capriccio insieme. Negherete
voi le vostre proprie espressioni, signorina?


— Una tal domanda non merita risposta, » disse
Emilia arrossendo; « voi ve la rammenterete, e vi
pentirete d'averla fatta.


— Rispondete categoricamente, » replicò Montoni
con veemenza. « Dunque ardite disdire le vostre
parole? Vorreste negare che poco fa avete riconosciuto
esser troppo tardi per isciogliervi dai vostri
impegni, e che voi accettaste la mano del conte?
lo negherete voi?


— Negherò tutto, perchè nessuna delle mie parole
ha mai espresso nulla di simile.


— Negherete voi quello che scriveste al signor
Quesnel vostro zio? Se ardite farlo, il vostro carattere
attesterà contro di voi. Che potete dire
adesso? » continuò Montoni, prevalendosi del silenzio
e della confusione d'Emilia.


— Mi accorgo, signore, che siete in un grand'abbaglio,
e ch'io stessa fui ingannata.


— Non più finzioni, ve ne prego. Siate franca e
sincera, se è possibile.


— Io sono stata sempre tale, signore, e non men
fo al certo nessun merito. Non ho alcun motivo di
fingere.


— Cosa vuol dir tutto questo? » esclamò Morano
alquanto commosso.


— Sospendete il vostro giudizio, conte, » replicò
Montoni; « le idee d'una donna sono impenetrabili.
Ora, si venga alla spiegazione....[63]


— Scusatemi, signore, se io sospendo questa
spiegazione fino al momento in cui voi sembrerete
più disposto alla fiducia; tutto quel ch'io potrei
dire adesso non servirebbe che ad espormi ad
insulti.


— Spiegatevi ve ne prego, » disse Morano.


— Parlate, » soggiunse Montoni, « vi accordo
tutta la fiducia; sentiamo.


— Permettete che vi porti ad uno schiarimento,
facendovi una domanda.


— Mille se v'aggrada, » disse Montoni sdegnosamente.


— Qual era il tema della vostra lettera al signor
Quesnel?


— Eh! qual poteva mai essere? L'offerta onorifica
del conte Morano.


— Allora, signore, noi ci siamo ingannati stranamente
entrambi.


— Noi ci siamo spiegati male, suppongo, nel colloquio
precedente alla lettera. Devo rendervi giustizia;
siete molto ingegnosa nel far nascere un
malinteso. »


Emilia procurava di trattenere le lagrime e risponderete
con fermezza. « Permettetemi, signore,
di spiegarmi intieramente, o di tacer del tutto.


— Montoni, » gridò il conte, « lasciatemi patrocinare
la mia propria causa; è chiaro che voi
non potete farci nulla.


— Qualunque discorso a tal proposito, » disse
Emilia, « è inutile; se volete farmi grazia, non prolungatelo.


— È impossibile, signora, ch'io soffochi una
passione che forma l'incanto ed il tormento della
mia vita. V'amerò sempre, e vi perseguiterò con
ardore instancabile; quando sarete convinta della
forza e costanza della mia passione, il vostro cuore
cederà alla pietà, e forse al ravvedimento. »


Un raggio di luna, cadendo sul volto di Morano,[64]
scoperse il turbamento e l'agitazione dell'anima
sua. D'improvviso esclamò: « È troppo, signor
Montoni, voi m'ingannaste, e vi domando soddisfazione.


— A me, signore? l'avrete, » balbettò questi.


— Mi avete ingannato, » continuò Morano, « e
volete punire l'innocenza del cattivo successo dei
vostri progetti. »


Montoni sorrise sdegnosamente. Emilia, spaventata
dalle conseguenze che poteva avere quel diverbio,
non potè tacere più a lungo. Spiegò il motivo
dello sbaglio, e dichiarò che non aveva inteso
consultar Montoni se non per l'affitto della valle,
concludendo, e supplicandolo di scrivere sul momento
a Quesnel onde riparare a siffatto errore.


Il conte poteva appena contenersi; nullameno,
mentr'essa parlava, entrambi stavano attenti ai suoi
discorsi. Calmato alquanto il di lei spavento, Montoni
pregò il conte d'ordinare ai gondolieri di tornare
addietro, promettendogli un abboccamento particolare;
Morano aderì senza difficoltà.


Emilia, consolata dalla prospettiva di qualche riposo,
adoprò le sue premure conciliatrici a prevenire
una rottura fra due persone che aveanla perseguitata,
ed insultata ben anco senza riguardo.


Lo zendaletto si fermò alla casa di Montoni; il
conte condusse Emilia in una sala, ove lo zio la prese
pel braccio e le disse qualcosa sottovoce. Morano
le baciò la mano nonostante tutti i di lei sforzi per
ritirarla, le augurò la buona notte colla più tenera
espressione, e ritornò allo zendaletto, accompagnato
dall'altro.


Emilia, nella sua camera, considerò con estrema
inquietudine la condotta ingiusta e tirannica di Montoni,
la pertinacia impudente di Morano e la propria
tristissima situazione, lontana dagli amici e dalla
patria. Invano pensava a Valancourt, come a di lei
protettore: egli era trattenuto lontano dal suo servizio,[65]
ma si consolava almeno nel sapere ch'esisteva
al mondo una persona la quale divideva le sue pene,
ed i cui voti non tendevano che a liberarnela.


Risolse nondimanco di non cagionargli un dolore
inutile ragguagliandolo come le spiacesse d'aver respinto
il suo giudizio sopra Montoni, benchè però
non si pentisse d'aver ascoltata la voce del disinteresse
e della delicatezza, rifiutando la proposta d'un
matrimonio clandestino. Ella nutriva qualche speranza
nel suo prossimo colloquio collo zio; era decisa
a dipingergli la sua trista situazione, e pregarlo
di permettergli d'accompagnarlo al di lui ritorno
in Francia; quando d'improvviso ricordossi che la
valle, suo prediletto soggiorno, unico suo asilo, non
sarebbe più a di lei disposizione per lunga pezza.
Pianse allora, temendo di trovar poca pietà in un
uomo come Quesnel, il quale disponeva delle sue
proprietà senza nemmen degnarsi di consultarla, e
licenziava una serva vecchia e fedele, mettendola
così in istrada. Ma benchè certa di non aver più
casa in patria, e pochi amici, volea tornarvi, per
sottrarsi al dominio di Montoni, la cui tirannide
verso di lei e la durezza verso gli altri pareanle insopportabili.
E neppur desiderava abitare collo zio,
il procedere del quale a di lei riguardo bastava a
convincerla del pari non avrebbe altro fatto se non
cambiar d'oppressore.


La condotta di Montoni le pareva singolarmente
sospetta, a proposito della lettera a Quesnel. Poteva,
da principio, essere stato ingannato; ma essa
temeva non persistesse egli volontariamente nel suo
errore per intimorirla, piegarla ai suoi desiderii, e
costringerla a sposare il conte. In qualunque caso
però, era premurosissima di parlarne a Quesnel, e
considerava la sua visita imminente con un misto
d'impazienza, di speranza e timore.


Il giorno seguente, la Montoni, trovandosi sola
con Emilia, le parlò del conte Morano. Parve sorpresa[66]
che la sera innanzi non avesse raggiunto le
altre gondole, e ripreso così presto la volta di Venezia.
Emilia raccontò tutto l'accaduto, esprimendo
il suo cordoglio per il malinteso sorto fra lei e Montoni,
e supplicò la zia d'interporre i suoi buoni uffici,
perchè questi desse al conte un rifiuto decisivo
e formale; ma si accorse in breve ch'ella sapeva
già tutto.


« Non dovete aspettarvi nessuna condiscendenza
da me, » le disse: « ho già dato il mio voto, ed il
signor Montoni ha ragione di estorcere il vostro consenso
con tutti i mezzi che sono in suo potere.
Quando la gioventù s'accieca su' suoi veri interessi,
e se ne allontana ostinatamente, la maggior fortuna
che possa avere è quella di trovare amici che si
oppongano alle loro follie. Ditemi, in grazia, se, per
la vostra nascita, potevate aspirare ad un partito
così vantaggioso, come quello che vi è offerto?


— No, signora, » rispose Emilia; « io non ho
l'orgoglio di pretendere...


— Non si può negare che non ne abbiate una
buona dose. Il mio povero fratello, vostro padre,
era anch'egli molto orgoglioso; ma, in verità, bisogna
confessarlo, la fortuna non lo favoriva troppo. »


Sdegnata per questa maligna allusione al padre,
ed incapace di rispondere con sufficiente moderazione,
Emilia esitò un momento confusa; la zia ne
trionfava; finalmente le disse: « L'orgoglio di mio
padre, signora, aveva un oggetto nobilissimo; la sola
felicità ch'ei conoscesse, veniva dalla bontà, educazione
e carità sua verso il prossimo. Egli non la
fece mai consistere nel superar gli altri in ricchezza,
nè era umiliato della sua inferiorità a tal riguardo.
Non respigneva i miseri e gli sventurati. Disprezzava
talvolta quelle persone le quali, in seno alla
prosperità, si rendevano invise a forza di vanità,
d'ignoranza e di crudeltà. Io farò dunque consistere
la mia gloria nell'imitarlo.[67]


— Non ho la pretensione, nipote mia, di comprendere
quest'accozzaglia di bei sentimenti; ne lascio
tutta la gloria a voi; ma vorrei insegnarvi un
poco di buon senso, e non vedervi la maravigliosa
saviezza di sprezzare la vostra felicità. Non mi vanto
d'una educazione tanto raffinata come quella che
vostro padre si piacque di darvi, ma mi contento
d'un po' di senso comune. Sarebbe stata una vera
fortuna, per vostro padre e per voi, se vi avesse
insegnato ad adoprarlo. »


Emilia, offesa sensibilmente da simili riflessioni
sulla memoria del padre, disprezzando questo discorso,
la lasciò d'improvviso e ritirossi nella sua
camera.


Ne' pochi giorni che scorsero da questo colloquio
alla partenza per Miarenti, Montoni non rivolse mai
una parola alla nipote; i di lui sguardi esprimevano
il suo risentimento; ma Emilia era molto sorpresa
com'egli potesse astenersi dal rinnovare il soggetto.
Lo fu viemaggiormente vedendo che, negli ultimi
tre giorni, il conte non comparve, e che Montoni
non ne pronunziò neppure il nome. Parecchie congetture
le si affacciarono alla mente; temeva talora
che la lite si fosse rinnovata, e fosse riuscita fatale
al conte; qualche volta inclinava a credere che
la stanchezza e il disgusto fossero state la conseguenza
del di lei rifiuto, e ch'egli avesse abbandonato
i suoi progetti; da ultimo, s'immaginava che
il conte ricorresse allo strattagemma di sospendere
le sue visite, ottenendo da Montoni che non lo nominasse,
nella speranza che la gratitudine e la generosità
opererebbero molto su lei, e determinerebbero
un consenso ch'egli non attendeva più dall'amore.
Passava il tempo in queste vane congetture,
cedendo volt'a volta alla speranza ed all'amore:
partirono infine per Miarenti, e quel giorno, come
gli altri, il conte non comparve, nè si parlò menomamente
di lui.[68]


Montoni avendo deciso di non partir da Venezia
prima di sera, per evitare il caldo e godere il fresco
della notte, s'imbarcarono per giungere alla
Brenta un'ora prima del tramonto. Emilia, seduta
sola a poppa, contemplava in silenzio gli oggetti
che fuggivano a misura che la barca inoltrava: vedeva
i palazzi sparire a poco a poco confusi coll'onde;
ben presto le stelle succedettero agli ultimi
raggi del sole, ed una notte fresca e tranquilla l'invitò
a dolci meditazioni, turbate sol dal romore
momentaneo dei remi, e dal lieve mormorio delle
acque.


Giunti alle bocche della Brenta, si attaccarono
alla barca i cavalli, e la fecero avanzare speditamente
fra due sponde ornate a vicenda d'alberi altissimi,
di ricchi palagi, di giardini deliziosi, e di
boschetti odorosi di mirti e d'aranci. Allora affacciaronsi
alla fanciulla tenere memorie; pensò alle
belle sere passate nella sua valle, ed a quelle trascorse
con Valancourt presso Tolosa ne' giardini
della zia. Perduta in tristi riflessioni, e spesso colle
lagrime agli occhi, ne fu scossa d'improvviso dalla
voce di Montoni, che l'invitava a prender qualche
rinfresco. Recatasi nella cabina, vi trovò la zia sola.
La fisonomia di questa era accesa di collera, prodotta,
a quanto parea, da un colloquio avuto col
marito. Questi la guardava con aria di corruccio e
disprezzo, e per qualche tempo restarono ambedue
in perfetto silenzio. Montoni parlò ad Emilia di
Quesnel.


« Mi lusingo, non vorrete persistere nel sostenere
che ignoravate il soggetto della mia lettera.


— Dopo il vostro silenzio mi era figurata, o signore,
che non fosse più necessario d'insistere, e
che avreste riconosciuto il vostro errore.


— Avevate sperato l'impossibile, » sclamò Montoni;
« mi sarei dovuto aspettare dal vostro sesso
una sincerità ed una condotta più riflessiva, colla[69]
stessa facilità con cui voi poteste immaginarvi di
convincermi d'errore. »


Emilia arrossì, e non parlò più. Conobbe allora
troppo chiaramente che aveva di fatti sperato l'impossibile,
e che laddove eravi stato errore volontario,
non si poteva sperare di convincere; era evidente
che la condotta di Montoni non era stata l'effetto
di un malinteso, ma quello d'un piano concertato.


Impaziente di sottrarsi ad un colloquio tanto dispiacevole
ed umiliante per lei, Emilia tornò fuori
a sedere a poppa. Là almeno le veniva accordato
dalla natura quella quiete che le ricusava Montoni.


Quando, svegliata dalla voce d'una guida o da
qualche movimento nella barca, essa ricadea nelle
sue riflessioni, pensava all'accoglienza che le farebbero
i coniugi Quesnel, e che cosa direbbe a proposito
della valle. Poi cercava distogliere lo spirito
da un soggetto tanto fastidioso, divertendosi a contemplare
i tratti del bel paese illuminato dalla luna.
Mentre la sua imaginazione distraevasi così, scoprì
un edifizio che s'innalzava al disopra degli alberi.
Man mano che la barca inoltrava, udiva rumor di
voci; in breve distinse l'alto portico d'una bella
casa ombreggiata da pini e pioppi, e la riconobbe
per la casa medesima statale già mostrata come
proprietà del parente della signora Quesnel.


La barca si fermò vicino ad una scala marmorea
che conduceva sotto il portico, il quale era illuminato.
Montoni sbarcò colla sua famiglia, e trovarono
i coniugi Quesnel in mezzo agli amici, assisi su
sofà, che godevano il fresco della notte mangiando
frutti e gelati, mentre alcuni suonatori, in qualche
distanza, facevano una bella serenata. Emilia era
già avvezza ai costumi dei paesi caldi, e non fu
sorpresa di trovar quei signori di fuori dal loro
portico a due ore dopo mezzanotte.


Fatti i soliti complimenti, la compagnia prese[70]
posto sotto il portico, e da una sala vicina le furono
serviti rinfreschi squisitissimi. Cessato il piccolo
tumulto dell'arrivo, e quando Emilia si fu rimessa
dal turbamento provato in barca fu sorpresa dalla
bellezza singolare di quel luogo, e dai comodi che
offriva per guarentirsi dalle molestie della stagione.
Era una rotonda a cupola scoperta di marmo bianco,
sostenuta da colonnati della medesima materia. Le
due ali guardavano su lunghi cortili, lasciando vedere
immense gradinate sulle sponde del fiume.
Una fontana in mezzo, co' suoi zampilli, formava,
cadendo un piacevole mormorio, e l'odore soave dei
fiori profumava quel luogo delizioso.


Quesnel parlò dei propri affari col suo tuono ordinario
d'importanza. Vantò i nuovi acquisti, e compianse
con affettazione Montoni delle recenti perdite
da lui fatte. Quest'ultimo, il cui orgoglio almeno
era capace di sprezzare una tale ostentazione, scuopriva
facilmente, sotto una finta compassione, la
vera malignità di Quesnel. Lo ascoltò con silenzio
sdegnoso, quand'ebbe nominato sua nipote, si alzarono
entrambi ed andarono a passeggiare in giardino.


Emilia intanto si avvicinò alla signora Quesnel,
la quale parlava della Francia. Il solo nome della
di lei patria erale caro: provava gran piacere nel
considerare una persona che ne veniva. Quel paese
d'altronde era abitato da Valancourt, e dessa ascoltava
attentamente nella lieve lusinga di sentirlo nominare.
La Quesnel che, durante il suo soggiorno
in Francia, parlava con estasi dell'Italia, non parlava
in Italia che delle delizie della Francia, sforzandosi
di eccitare la curiosità altrui raccontando
tutte le belle cose che aveva avuto la fortuna di
vedervi.


Emilia attese invano il nome di Valancourt. La
signora Montoni parlò a sua volta delle bellezze di
Venezia, e del piacere che sperava gustare visitando
il castello di Montoni negli Appennini. Quest'ultimo[71]
articolo non era trattato che per vanità. Emilia
sapeva bene che la di lei zia apprezzava poco le
grandezze solitarie, e quelle in ispecie che potea
presentare il castello di Udolfo. La conversazione
continuò malignandosi vicendevolmente, per quanto
poteva permetterlo la civiltà, con reciproca ostentazione.
Assise su morbidi sofà, sotto un portico
elegante, circondate dai prodigi della natura e dell'arte,
gli esseri meno sensibili avrebbero dovuto
provare trasporti di cordialità, buone disposizioni,
e cedere con trasporto a tutte le dolcezze di quei
luoghi incantati.


Poco stante albeggiò; sorse il sole, e permise agli
sguardi attoniti di contemplare il magnifico spettacolo
che offrivano da lunge i monti coperti di
neve, i declivi verdeggianti, e le ubertose pianure
che si estendevano alle loro falde.


I contadini che andavano al mercato passavano in
battello. Gli ombrelli di tela colorata, che portavano
la maggior parte per guarentirsi dai raggi solari;
i canestri di frutti e di fiori che andavano accomodando
nel tragitto; l'abbigliamento semplice e pittoresco
delle villanelle, tutto formava un colpo d'occhio
dei più sorprendenti. La rapidità della corrente,
la vivacità dei rematori, i canti di quei contadini
all'ombra delle vele, ed il suono di qualche rustico
strumento, dava a tutta la scena il carattere di una
festa campestre.


Allorchè Montoni e Quesnel ebbero raggiunte le
signore, passeggiarono tutti insieme nei giardini, la
cui elegante distribuzione contribuì molto a distrarre
Emilia. La forma maestosa e la ricca verzura dei
cipressi, ch'ella trovava qui nella loro perfezione,
l'altezza smisurata dei pini e dei pioppi, i folti rami
dei platani, contrastavano coll'arte in quei giardini
meravigliosi; i boschetti di mirto ed altre piante
fiorite confondevano gli aromatici effluvi con quelli
di mille fiori che smaltavano il terreno, e l'aria[72]
veniva rinfrescata dai limpidi ruscelli, serpeggianti
fra i verdi pergolati.


Intanto il sole s'innalzava sull'orizzonte, ed il
caldo cominciava a farsi sentire. La società abbandonò
i giardini per andar in cerca di riposo.




CAPITOLO XVIII


Emilia profittò della prima occasione propizia
per parlare a Quesnel del castello della valle. Le
sue risposte furono concise, e fatte coll'accento di
chi non ignorando il suo assoluto potere, s'impazientisce
di vederlo messo in dubbio. Le dichiarò
che la disposizione presa era una misura necessaria,
e ch'essa doveva andar debitrice alla di lui prudenza
de' vantaggi che gliene sarebbero ridondati.


« Del resto, » aggiunse « quando il conte veneziano,
di cui non mi ricordo il nome, vi avrà sposata,
i fastidi della vostra dipendenza cesseranno.
Come vostro parente, mi rallegro per voi d'una
circostanza tanto felice, e, ardisco dirlo, così poco
attesa dai vostri amici. »


Per qualche momento, Emilia restò muta e fredda;
quindi procurò disingannarlo a proposito del
poscritto da lei aggiunto alla lettera di Montoni;
Quesnel parve avere ragioni particolari di non crederle,
e per assai tempo persistè ad accusarla di
capriccio. Convinto alfine della di lei avversione per
Morano, e del rifiuto positivo che gli aveva dato,
si abbandonò alle stravaganze del risentimento, esprimendosi
colla maggiore asprezza. Lusingato segretamente
dal parentado d'un nobile, onde aveva finto
dimenticar il casato, era incapace d'intenerirsi dei
patimenti cui poteva incontrare la nipote nel sentiero
che le segnava la propria ambizione.


Emilia vide tosto tutte le difficoltà che la minacciavano;
e quantunque nessuna persecuzione potesse
farla rinunziare a Valancourt per Morano, essa fremeva[73]
all'idea delle violenze di suo zio. A tanta collera
ed a tanto sdegno oppos'ella solamente la dolce
dignità d'uno spirito superiore; ma la fermezza misurata
della sua condotta non servì che ad esacerbare
il corruccio di Quesnel, obbligandolo a riconoscere
la sua inferiorità. Finì per dichiararle
che, se persisteva nella sua follìa, e lui e Montoni
l'avrebbero abbandonata al disprezzo universale.


La calma nella quale Emilia erasi mantenuta in
presenza dello zio, l'abbandonò quando fu sola:
pianse amaramente; ripetè più d'una volta il nome
del padre, di quel tenero padre che non vedeva
più, e di cui si rammentava tutti gli avvertimenti
datile al letto di morte. « Oimè! » diceva essa;
« conosco bene adesso che la forza del coraggio è
preferibile alle grazie della sensibilità. Farò tutti
gli sforzi per adempire alla mia promessa; non mi
abbandonerò ad inutili lamenti, e procurerò di soffrire
con fortezza d'animo l'oppressione che non
posso evitare. »


Sollevata in qualche modo dal suo fermo proposito
di adempire in parte alle ultime volontà paterne,
terse il pianto, e comparve a tavola colla
consueta serenità.


Verso sera, le signore andarono a prendere il
fresco nella carrozza della Quesnel sulle rive della
Brenta. La situazione d'Emilia formava un contrasto
malinconico coll'allegria delle brillanti società
riunite sotto gli alberi lungo il delizioso fiume. Taluni
ballavano all'ombra, altri, sdraiati sull'erba,
prendevano gelati, mangiavano frutti e gustavano
in pace le dolcezze d'una bella sera all'aspetto del
più bel paese del mondo.


La fanciulla considerando le lontane vette nevose
degli Appennini, pensò al castello di Montoni, e
fremè all'idea ch'egli ve la condurrebbe, ed avrebbe
saputo costringerla all'obbedienza. Questo timore
però svanì, riflettendo ch'era in di lui potere a
Venezia, come lo sarebbe stata in ogni altra parte.[74]


Tornarono a Miarenti assai tardi; la cena era
preparata nella magnifica rotonda già tanto ammirata
da Emilia: le signore si riposarono sotto il
portico, finchè Quesnel, Montoni ed altri gentiluomini
vennero a raggiungerle. Emilia faceva ogni
sforzo per tranquillarsi, allorchè una barca sostò
d'improvviso alla scalea del giardino, ed essa distinse
la voce di Morano, il quale comparve poco
dopo. Ricevè i di lui complimenti in silenzio, e la
sua freddezza parve da principio sconcertarlo, ma
in seguito si rimise, riprese il suo brio, e la fanciulla
osservò che la specie d'adulazione onde l'opprimevano
i suoi zii, e di cui ella maravigliossi
forte, eccitava solo il suo disgusto.


Appena potè ritirarsi, le di lei riflessioni quasi
involontariamente si aggirarono sui mezzi possibili
d'indurre il conte a desistere dalle sue pretese;
la sua delicatezza non ne trovò di più efficace fuor
quello di confessargli un vincolo già formato, e rimettersene
alla di lui generosità. Nullameno, quando
la domane egli rinnovò le sue premure, Emilia abbandonò
quel progetto: sarebbe repugnato troppo
al di lei orgoglio lo svelare il segreto del suo cuore
ad un uomo come Morano, e domandargli un sacrifizio;
talchè respinse con impazienza il piano già
concetto. Ripetè il suo rifiuto nei termini più decisi,
e biasimò severamente la condotta tenuta verso
di lei. Il conte ne parve mortificato, ma continuò
a persistere nelle solite assicurazioni di tenerezza;
l'arrivo della Quesnel l'interruppe, e fu per Emilia
un gran soccorso.


Di tal guisa, Emilia passò i giorni più infelici in
quella casa deliziosa a motivo dell'ostinata assiduità
di Morano, e della tirannia crudele che esercitavano
su di lei Quesnel e Montoni, i quali parevano,
al par della zia, più risoluti che mai a siffatto
matrimonio. Quesnel, vedendo infine che i discorsi
e le minacce erano egualmente inutili per venire[75]
ad una pronta decisione, vi rinunziò, e tutto fu rimesso
al tempo ed al potere di Montoni. Emilia
intanto desiderava tornar a Venezia, sperando colà
sottrarsi in parte alle persecuzioni di Morano; d'altro
lato, Montoni, distratto dalle occupazioni, non
sarebbe sempre stato in casa. In mezzo alle sciagure,
pensò anche a raccomandar con forza la povera
Teresa a Quesnel il quale, la lusingò promettendole
che non l'avrebbe dimenticata.


Montoni, in un lungo colloquio, concertò con
Quesnel il piano da eseguirsi riguardo alla nipote,
e questi promise trovarsi a Venezia tosto dopo la
celebrazione del matrimonio.


Emilia per la prima volta, non provò verun rincrescimento
a separarsi da' parenti. Morano tornò a
Venezia nella stessa barca di Montoni. La fanciulla,
la quale osservava gradatamente l'avvicinarsi di
quella superba città, si vide dappresso la sola persona
che potesse diminuirgliene il piacere. Arrivarono
verso mezzanotte; Emilia fu liberata dalla
presenza del conte, che seguì Montoni in un casino,
e potè finalmente ritirarsi nella sua camera.


Il dì seguente, lo zio in un breve colloquio dichiarò
ad Emilia che non intendeva esser tirato più
per le lunghe; il suo matrimonio col conte era per
lei di un vantaggio così prodigioso, che sarebbe
follìa l'opporvisi, ed una follìa inconcepibile, e che
verrebbe celebrato senza dilazione, e, se facea duopo,
senza di lei consenso. La giovane, la quale fino
allora aveva impiegate le ragioni, ricorse alle preghiere:
il dolore le impediva di considerare che,
con un uomo del carattere di Montoni, le suppliche
non produrrebbero migliore effetto delle ragioni.
Gli domandò poscia con qual diritto esercitasse egli
su di lei quell'autorità illimitata. In uno stato più
tranquillo, non avrebbe rischiato questa domanda
che non le giovava a nulla, e faceva trionfare Montoni
della sua debolezza e del suo isolamento.[76]


« Con qual diritto? » sclamò questi con un sorriso
maligno; « col diritto della mia volontà; se
voi potrete sottrarvene, io non vi domanderò con
qual diritto lo faceste. Ve lo ricordo per l'ultima
volta: voi siete straniera, lontana dalla patria; deve
interessarvi di avermi per amico, e ne conoscete i
mezzi; se mi obbligate a divenirvi nemico, m'arrischierò
a dire che la punizione supererà la vostra
aspettativa; dovreste ben sapere che non son fatto
per essere burlato. »


Emilia restò immobile dopo che Montoni l'ebbe
lasciata: era disperata, o piuttosto stupefatta; il
sentimento della sua miseria era il solo che avesse
conservato: la Montoni la trovò in quello stato. La
giovine alzò gli occhi, e il dolore espresso da tutta
la di lei persona avendo senza dubbio intenerita la
zia, le parlò con insolita bontà; il cuore di Emilia
ne fu commosso, e dopo aver pianto alcun poco,
raccolse bastante forza per raccontarle il soggetto
del suo dolore, e sforzarsi d'interessarla per lei. La
compassione della zia era stata sorpresa, ma la sua
ambizione non poteva moderarsi, e credeva esser
già la zia d'una contessa. I tentativi della fanciulla
non riusciron meglio con lei che con Montoni: ritornò
nella sua camera, e cominciò nuovamente a
piangere, risolutissima di sfidare ad ogni costo tutta
la vendetta di Montoni, anzichè sposare un uomo
di cui avrebbe disprezzata la condotta, quand'anco
non avesse mai conosciuto Valancourt.


Sopraggiunse poco di poi una faccenda che per
qualche giorno sospese l'attenzione di Montoni; le
visite misteriose d'Orsino si erano rinnovate con
maggiore frequenza, dopo il ritorno di Montoni.
Cavignì, Verrezzi, e qualcun altro erano ammessi,
oltre Orsino, a questi conciliaboli notturni: Montoni
divenne più riservato e severo che mai. Se i propri
interessi non l'avessero resa indifferente a tutto il
resto, Emilia si sarebbe accorta che meditava qualche
progetto.[77]


Una sera che non doveva tenersi riunione, arrivò
Orsino agitatissimo e spedì al casino un suo confidente
in cerca di Montoni: lo pregava di tornare
a casa subito, raccomandando al messo di non pronunziar
il suo nome. Montoni tornò sull'istante,
trovò Orsino, e seppe tosto il motivo della visita
ed agitazione sua, conoscendone già una parte.


Un gentiluomo veneziano, che aveva recentemente
provocato l'odio di Orsino, era stato pugnalato da
scherani pagati da quest'ultimo. Il morto apparteneva
alle prime famiglie, ed il Senato erasi preso
a cuore quell'affare. Uno degli assassini fu arrestato,
e confessò, Orsino essere il reo. Alla nuova del suo
pericolo, egli veniva a trovare Montoni perchè gli
facilitasse la fuga, sapendo che in quel momento
tutti gli officiali di polizia erano in cerca di lui per
tutta la città, talchè riuscivagli impossibile di uscirne.
Montoni acconsentì a nasconderlo per qualche giorno
finchè la vigilanza fosse rallentata, e potesse con
sicurezza lasciar Venezia. Sapeva il pericolo che
incorreva accordando asilo ad Orsino; ma era tale
la natura delle obbligazioni sue verso quell'uomo,
che non credeva prudente negarglielo.


Tal era la persona ammessa da lui alla sua confidenza,
e per la quale sentiva tanta amicizia, quanto
potevalo comportare il suo carattere.


Per tutto il tempo che Orsino rimase nascosto
nella casa, Montoni non volle attirare gli sguardi
del pubblico celebrando le nozze del conte; ma
quando la fuga del reo ebbe fatto cessare questo
ostacolo, informò Emilia che il di lei matrimonio
avrebbe avuto luogo la mattina seguente. Essa protestò
che non avrebbe mai acconsentito, ed egli rispose
con un maligno sorriso, assicurandola che di
buonissima ora il conte ed un sacerdote si sarebbero
trovati in casa sua, e consigliandola a non
isfidare il di lui risentimento con un'opposizione
contraria ai suoi voleri ed al proprio di lei bene.[78]


« Esco per tutta sera, » aggiuns'egli: « ricordatevi
che domani do la vostra mano al conte Morano. »


Emilia, la quale, dopo le ultime di lui minacce, si
lusingava che la crisi giungerebbe al suo termine,
fu poco scossa da questa dichiarazione; studiò dunque
il mezzo di farsi coraggio considerando che il
matrimonio non poteva esser valido fintantochè in
presenza del sacerdote ella ricuserebbe di prender
parte alla cerimonia. Il momento della prova si avvicinava,
ed essa era egualmente agitata dall'idea
della vendetta e a quella dell'imeneo. Assolutamente
incerta sulle conseguenze del suo rifiuto all'altare,
temeva più che mai il potere illimitato di Montoni,
ed era persuasa che avrebbe trasgredite senza scrupolo
tutte le leggi per riuscire ne' suoi progetti.


Mentre stava immersa in questo mare di affanni
fu avvertita che Morano desiderava parlarle. Appena
il servo fu uscito con le di lei scuse, se ne pentì,
lo chiamò indietro, e volendo provare se le preghiere
e la fiducia produrrebbero migliore effetto
del rifiuto e dello spregio, gli fece dire che sarebbe
andata a trovarlo ella stessa.


La dignità e il nobile contegno con cui mosse
incontro al conte, l'aria rassegnata e pensierosa che
ne addolciva la fisonomia, non erano mezzi capaci
per farlo rinunziare a lei, nè servirono se non ad
aumentare una passione che l'aveva già inebriato.
Egli ascoltò ciò ch'essa diceva con apparente compiacenza
e gran desiderio di contentarlo, ma la
sua risoluzione era invariabile. Mise in opera con
lei l'arte e l'insinuazione la più raffinata. Persuasa
Emilia che non avesse nulla da sperare dalla di lui
giustizia, ripetè solennemente le sue proteste d'opposizione,
e lo lasciò coll'assicurazione formale che
avrebbe saputo mantenersi nella negativa anche
malgrado la violenza. Un giusto orgoglio aveane
trattenute le lacrime in presenza di Morano, ma[79]
appena si trovò sola, pianse amaramente, invocando
il padre, ed attaccandosi con dolore inesprimibile
all'idea di Valancourt.


La sera era avanzatissima, allorchè la Montoni
entrò nella di lei camera cogli ornamenti nuziali
che inviavale il conte. Essa aveva scansata la nipote
per tutta la giornata, temendo cedere ad un'insolita
sensibilità: non ardiva esporsi alla disperazione
di Emilia; e forse la sua coscienza, il cui linguaggio
era sì poco frequente, le rimproverava una condotta
sì dura verso un'orfana figlia di suo fratello, e
della quale un padre moribondo le aveva affidata
la felicità.


Emilia non volle vedere quei regali, e tentò, sebbene
senza speranza, un nuovo ed ultimo sforzo
per interessare la compassione della zia. Commossa
forse alternativamente dalla pietà o dai rimorsi,
seppe nasconder l'una e gli altri, e rimproverò alla
nipote la follia di affliggersi per un matrimonio
che non poteva mancare di renderla felice. « Certo, »
le diss'ella, « se io non fossi maritata, e se il conte
mi offrisse la sua mano, sarei molto lusingata di
questa distinzione. Se io credo dover pensare così,
voi, nipote mia, che non siete ricca, dovete indubitatamente
trovarvene onoratissima, e mostrare
una riconoscenza, un'umiltà verso Morano, tale da
corrispondere alla sua condiscendenza. Son sorpresa,
ve lo confesso, di veder lui così sommesso e voi
così orgogliosa. Stupisco della sua pazienza, e, se
fossi in lui, vi farei per certo ricordare un po' meglio
dei vostri doveri. Io non vi adulerò, ve lo
dico schietto; è questa ridicola adulazione che vi
dà tanta e tale opinione di voi stessa, che vi fa
credere non esservi nessuno che possa meritarvi.
L'ho detto spesso al conte; io non badava alla
stravaganza de' suoi complimenti, e voi li pigliavate
alla lettera.


— La vostra pazienza, signora, » disse Emilia,
« soffriva allora assai meno della mia.[80]


— Tutto questo è pura affettazione, null'altro, »
rispose la zia; « io so che l'adulazione v'insuperbisce
e vi rende così vana, che credete ingenuamente
di vedere tutti gli uomini ai vostri piedi;
ma v'ingannate. Posso accertarvi, nipote mia, che
non troverete molti adoratori come il conte; chiunque
altro vi avrebbe voltate le spalle, e vi avrebbe
lasciata in preda a un tardo pentimento.


— Oh! perchè mai il conte non fa quel che farebbero
gli altri? » disse Emilia sospirando.


— È una fortuna per voi che non sia così, »
replicò la zia.


— Io non sono ambiziosa; desidero solo restare
nello stato in cui mi trovo.


— Non si tratta di ciò, » soggiunse la zia; « vedo
che pensate sempre a quel Valancourt. Scacciate,
ven prego, queste ubbie amorose e questo ridicolo
orgoglio; diventate ragionevole. D'altronde son tutte
ciarle inutili; voi sarete maritata domani, vogliate
o no, già lo sapete: il conte non vuole esser più
a lungo vostro zimbello. »


La fanciulla non tentò rispondere a siffatta singolare
aringa, sentendone l'inutilità. La zia depose
i regali del conte sopra un tavolino ove appoggiavasi
Emilia, e le augurò la buona sera. L'orfanella
fissò gli occhi sulla porta dond'era uscita la zia;
ascoltava attenta se qualche suono venisse a rialzar
l'abbattimento spaventoso de' suoi spiriti. Era mezzanotte
passata; tutti dormivano, tranne il servo
che aspettava il padrone. Il di lei animo, prostrato
dai dispiaceri, cedè allora a terrori imaginari; tremava
considerando le tenebre dell'ampia stanza in
cui trovavasi; temeva senza saper perchè. Durò in
tale stato tanto tempo, che avrebbe chiamata Annetta,
la cameriera della zia, se la paura le avesse
concesso d'alzarsi dalla sedia e traversar le camere.
Le tetre illusioni a poco a poco svanirono; ed andò
a letto, non per dormire, era impossibile, ma per[81]
cercar di calmare il disordine dell'accesa fantasia e
raccogliere le forze che le sarebbero state necessarie
per la mattina seguente.




CAPITOLO XIX


Un colpo battuto alla porta di Emilia la scosse
dalla specie di sonno al quale erasi data in preda.
Sussultò: le vennero tosto in mente Montoni e Morano.
Ascoltò qualche momento, e riconoscendo la
voce di Annetta rischiò ad aprire.


« Che ti conduce qui così di buon'ora? » le
chiese tutta tremante.


— Per carità, signorina, non vi spaventate; siete
così pallida, che fate paura anche a me. Giù dabbasso
fanno un gran rumore; tutti i servi vanno e
vengono con furia, e nessuno può indovinarne il
motivo.


— Chi c'è con loro? » disse Emilia; « Annetta,
non m'ingannare.


— Il cielo me ne guardi, per tutto l'oro del
mondo non v'ingannerei. Ho veduto soltanto che il
signor Montoni mostra un'impazienza straordinaria,
e mi diede l'ordine di farvi alzare sul momento.


— Cielo! aiutatemi, » gridò Emilia disperata.
« Il conte Morano è dunque venuto?


— No, signorina, per quanto io sappia egli non
c'è. Sua eccellenza mandommi a dirvi che a momenti
saranno qui le gondole, e partiremo da Venezia.
Bisogna ch'io mi sbrighi per tornar dalla
padrona, la quale è tanto confusa, che non sa più
quel che si faccia.


— Ma insomma, che cosa significa tutto questo?


— Oh! signora Emilia, io non so altro se non
che il signor Montoni è tornato a casa agitatissimo,
e ci ha fatti alzar tutti, dichiarandoci che bisognava
partir sull'istante.


— Il conte Morano viene egli con noi? e dove
andiamo?[82]


— Lo ignoro. Ho inteso che Lodovico parlava
d'un castello che il padrone ha in certe montagne.


— Negli Appennini?


— Appunto, signorina; ma sollecitatevi, e pensate
all'impazienza del signor Montoni. Dio buono!
sento già i remi delle gondole che arrivano. »


Annetta uscì a precipizio. Emilia si dispose a
questo viaggio inaspettato, ed appena ebbe gettati
libri ed abiti nel baule, ricevè un secondo avviso;
scese nel gabinetto della zia, ove Montoni le rimproverò
la sua lentezza. Egli uscì quindi per dare
alcuni ordini, e Emilia chiese il motivo di quella
partenza subitanea. La zia parve ignorarlo come lei,
e che non intraprendesse quel viaggio se non con
estrema ripugnanza.


Finalmente tutta la famiglia s'imbarcò, ma nè
Morano, nè Cavignì si fecero vedere. Questa circostanza
rianimò un poco gli spiriti abbattuti di Emilia,
la quale somigliava ad un condannato a morte,
cui venga accordata una breve dilazione: il suo
cuore si alleggerì ancor più, quando ebbero fatto
il giro di San Marco senza fermarsi per prendere
il conte.


L'alba cominciava appena a biancheggiar l'orizzonte
ed il lido. Emilia non ardiva fare veruna
interrogazione a Montoni, che restò qualche tempo
in cupo silenzio, e s'avvolse quindi nel mantello,
come se avesse voluto dormire. Sua moglie fece altrettanto.
Emilia, non potendo prender sonno, alzò
una cortina, e si mise a considerar il mare. L'aurora
illuminava grandemente la sommità dei monti friulani;
ma le loro coste e le onde che le bagnavano,
erano tuttavia sepolte nell'ombra: la fanciulla, immersa
in dolce malinconia, osservava i progressi
del giorno, che stendevasi sul mare, illuminando
Venezia, i suoi isolotti, e finalmente le spiagge italiane,
lungo le quali cominciavano già a mettersi
in moto le barche. I gondolieri venivano spesso chiamati[83]
da coloro che portavano le provvisioni al mercato
di Venezia. Un'infinita quantità di barchette
coperse in breve la laguna. Emilia gettò l'ultimo
sguardo su quella magnifica città; ma il di lei spirito
allora era soltanto occupato da mille congetture
sui casi che l'attendevano, sul paese ov'era trascinata,
e sul motivo di quel viaggio repentino.


Le parve dopo mature riflessioni, che Montoni la
conducesse al suo castello isolato per costringerla
più sicuramente all'obbedienza con mezzi di terrore.
Se le scene tenebrose e solitarie che vi si
disponevano non sortissero il bramato esito, il
suo matrimonio vi sarebbe celebrato per forza, e
con maggior mistero forse e meno smacco per l'onore
di Montoni. Il poco coraggio resole dalla proroga
svanì a questa terribile idea, e quando si toccò
la riva, ell'era ricaduta nel più penoso abbattimento.


Montoni non rimontò la Brenta, ma continuò in
carrozza per andare agli Appennini. Durante questo
viaggio fu così severo con Emilia che ciò solo
avrebbe servito a confermare le sue congetture allarmanti.


I viaggiatori cominciarono a salire gli Appennini:
a quell'epoca que' monti erano coperti da immense
foreste di abeti. La strada passava in mezzo a questi
boschi, e non lasciava vedere che rupi spaventevoli
sospese sul loro capo, a meno che qualche radura
non lasciasse distinguere momentaneamente il
sottoposto piano. L'oscurità di quei luoghi, il loro
cupo silenzio, quando neanche il più lieve vento
agitava la cima degli alberi, l'orrore dei precipizi
susseguentisi, ciascun oggetto, in una parola, rendeva
più imponenti le triste riflessioni d'Emilia.
Essa non vedeva a sè intorno che immagini di spaventosa
grandezza e di tetra sublimità.


A misura che i viaggiatori montavano attraverso
le selve, le rupi accatastavansi a rupi, i monti parevano
moltiplicarsi, e la cima di un'eminenza sembrava[84]
servir di base ad un'altra. Finalmente trovaronsi
sopra un piccolo piano, ove i mulattieri sostarono.
La scena vasta e magnifica che si presentava
nella valle, eccitò l'ammirazione universale, ed
interessò perfino la signora Montoni. Emilia obliò
un momento i suoi mali nell'immensità della natura.
Al di là d'un anfiteatro di montagne, le cui masse
parevano numerose quanto le onde del mare, e le
cui falde erano coperte di folti boschi, scuoprivansi
le campagne d'Italia dove i fiumi, le città, gli oliveti,
le vigne e tutta la prosperità della coltura
si mischiavano in una ricca confusione. L'Adriatico
circoscriveva l'orizzonte. Il Po e la Brenta, dopo
aver fecondato tutta l'estensione del bel paese, venivano
a scaricarvi le loro fertili acque. Emilia contemplò
a lungo lo splendore di quei luoghi deliziosi
che abbandonava, e la cui magnificenza sembrava
non ispiegarsi davanti a lei se non per cagionarle
maggior rincrescimento. Per lei, il mondo
intero non conteneva che Valancourt, il di lei cuore
dirigevasi a lui solo, e per lui solo versava tante
lacrime.


Da quel punto di vista sublime i viaggiatori continuarono
a salire penetrando in una gola angusta
che mostrava soltanto minacciose rupi sospese sulla
strada. Nessun vestigio umano, verun segno di vegetazione
compariva colà. Questa gola conduceva
nel cuore degli Appennini. Si allargò finalmente,
scoprendo una catena di monti sterilissimi, attraverso
i quali bisognò viaggiare per più ore.


Verso sera, la strada svoltò in una valle più profonda,
circondata quasi tutta da scoscese montagne.
Il sole tramontava allora dietro lo stesso monte che
scendevano i viaggiatori, prolungandone l'ombra
verso la valle; ma i suoi raggi orizzontali, traversando
qualche spaccatura, doravano le sommità dell'opposta
foresta, e scintillavano sulle alte torri ed
i comignoli d'un castello, i cui vasti bastioni estendevansi[85]
lungo uno spaventoso precipizio. Lo splendore
di tanti oggetti bene illuminati veniva accresciuto
dal contrasto dell'ombre che avvolgevano già
la valle.


« Ecco il castello di Udolfo, » disse Montoni, parlando
per la prima volta dopo parecchie ore.


Emilia guardò il castello con una specie di terrore,
quando seppe ch'era quello di Montoni; sebbene
illuminato in quel momento dal sole all'occaso
la gotica magnificenza di quell'architettura, le antiche
mura di pietra bigia, ne formavano un oggetto
imponente e sinistro. La luce s'affievolì insensibilmente,
spargendo una tinta purpurea che si
estinse grado grado, e lasciò i monti, il castello e
tutti gli oggetti circonvicini in tetra oscurità.


Isolato, vasto e massiccio, esso sembrava dominare
la contrada. Più la notte diveniva oscura, più
le sue alte torri parevano imponenti. L'estensione
e l'oscurità di quegli immensi boschi erano considerate
da Emilia come adatte soltanto a servir di
covile a masnadieri. Finalmente, le carrozze giunsero
alle porte del castello. La lunga oscillazione
della campana che fu suonata alla porta d'ingresso
aumentò il terrore di Emilia. Mentre si aspettava
l'arrivo di qualcuno che aprisse quelle imposte formidabili,
ella considerò il maestoso edifizio. Le tenebre
che l'avvolgevano non le permisero di discernerne
il recinto, le grosse mura, i bastioni merlati
e d'accorgersi che era vasto, antico e spaventoso.
La porta d'ingresso conduceva nei cortili, ed era
di proporzioni gigantesche. Due fortissime torri ne
difendevano il passaggio. Invece di stendardi si vedevano
svolazzare, su per le sconnesse pietre, erbe
lunghissime e piante salvatiche abbarbicate nelle
rovine, e che parevano crescere a stento in mezzo
alla desolazione che le circondava. Le torri erano
congiunte da una cortina munita di merli e casematte.
Dall'alto della vôlta cadeva una pesante saracinesca.[86]
Da questa porta, le mura dei bastioni
comunicavano con altre torri sporgenti sul precipizio;
ma queste muraglie quasi rovinate mostravano
i guasti della guerra. Mentre Emilia osservava con
tanta attenzione, si udì aprire i grossi catenacci. Un
vecchio servitore comparve, e spinse le imposte per
lasciar entrare il suo signore. Mentre le ruote giravano
con fracasso sotto quelle saracinesche impenetrabili,
Emilia si sentì mancare il cuore, credendo
entrare nella sua prigione. Il cupo cortile che traversarono
confermònne la lugubre idea; e la di lei
immaginazione, sempre attiva, le suggerì un terror
maggiore di quel che potesse giustificarlo la sua
ragione.


Un'altra porta l'introdusse nel secondo cortile,
ancor più tristo del primo. Emilia ne giudicava alla
fioca luce del crepuscolo, vedendone le alte mura
tappezzate d'ellera e di musco, e le merlate torri
giganteggianti. L'idea di lunghi patimenti e d'un
assassinio le colpì l'immaginazione d'improvviso
orrore. Questo sentimento non diminuì allorchè entrò
in una sala gotica, immensa, tenebrosa. Una face
che brillava da lontano traverso una lunga fila
d'arcate serviva solo a renderne più sensibile l'oscurità.


L'arrivo inaspettato di Montoni non aveva permesso
alcun preparativo per riceverlo. Il servo da
lui spedito partendo da Venezia, l'aveva preceduto
di pochi momenti, e questa circostanza scusava in
qualche modo lo stato di nudità e disordine del
castello.


Il servo che venne a far lume, salutò il padrone
tacendo, e la di lui fisonomia non fu animata da
veruna apparenza di piacere. Montoni rispose al saluto
con leggiero moto della mano e passò. La moglie
lo seguiva, guardandosi intorno con una sorpresa
ed un malcontento, cui pareva temer di esprimere.
Emilia, vedendo l'immensa estensione di[87]
quell'edificio, con timido stupore si avvicinò ad
una scala marmorea. Qui gli archi formavano una
vôlta altissima, dal centro della quale pendeva una
lampada a tre becchi, che il servitore si affrettò di
accendere. La ricchezza delle cornici, la grandezza
di una galleria che conduceva a molti appartamenti,
ed i vetri coloriti d'un finestrone gotico, furono,
gli oggetti che scuoprironsi successivamente.


Dopo aver girato appiè della scala, e traversata
un'anticamera, entrarono in una vastissima sala.
L'intavolato di nero larice ne aumentava l'oscurità.


« Portate altri lumi, » disse Montoni nell'entrare.
Il servo depose la lucerna ed uscì per ubbidire. La
padrona osservò che l'aria della sera era umida in
quel clima, e che avrebbe gradito un po' di fuoco:
Montoni ordinò di accenderne.


Mentr'egli passeggiava pensieroso nella stanza,
la signora Montoni riposava silenziosa sopra un sofà,
aspettando il ritorno del servo. Emilia osservava
l'imponente singolarità e l'abbandono di quel luogo,
illuminato da una sola lucerna posta in faccia al
grande specchio di Venezia, che rifletteva oscuratamente
la scena, e l'alta statura di Montoni, che
passava e ripassava colle braccia incrociate, e la
faccia ombreggiata dalle piume del suo largo cappello.
Il vecchio servitore tornò di lì a poco carico
d'un fascio di legna e seguito da altri due servi
con lumi.


« Vostra eccellenza sia il benvenuto, » disse il
vecchio, dopo aver deposte le legna. « Questo castello
è stato lunga pezza deserto. Ci scuserete sapendo
che abbiamo avuto pochissimo tempo. Saranno
due anni il giorno di san Marco prossimo,
che vostra eccellenza non è venuta qui.


— Precisamente, » disse Montoni, « tu hai buona
memoria, Carlo; come hai tu fatto dunque a vivere
sì lungamente?


— Ah! signore, molto a stento. I venti freddi[88]
che soffiano in questi luoghi nell'inverno, sono cattivi
per me. Aveva pensato più d'una volta di domandare
il permesso a vostra eccellenza di lasciarmi
abbandonare i monti per ritrarmi nella valle; ma
non so come sia, io non posso risolvermi ad abbandonare
queste vecchie mura dove ho vissuto per
tanti anni.


— Bene, » disse Montoni; « cosa facesti tu in
questo castello dopo la mia partenza?


— Press'a poco come secondo il solito; ma tutto
rovina qui: c'è la torre di settentrione che ha bisogno
di esser risarcita; molte fortificazioni sono in
cattivo stato; una parte del tetto della sala grande
è crollato, e poco mancò non cadesse sulla testa
della mia povera moglie (Dio l'abbia in pace). Tutti
i venti vi s'inabissavano l'inverno scorso. Noi fummo
quasi per morir di freddo.


— Ci sono altre riparazioni da fare? » disse
Montoni con impazienza.


— Oh! sì, eccellenza. Il bastione è rovinato in
tre luoghi. Le scale della galleria a tramontana sono
piene di tante macerie, ch'è pericoloso passarvi. Il
corridoio che mette alla camera di quercia, è nel
medesimo stato. Una sera mi ci avventurai; e...


— Basta basta, » disse Montoni vivamente; « ne
discorreremo domattina. »


Il fuoco era già acceso. Carlo spazzò il camino,
dispose le sedie, spolverò una tavola di marmo vicina
e uscì.


I nostri personaggi s'accostarono al fuoco. La
Montoni tentò appiccar discorso, ma le brusche risposte
del marito ne la distolsero. Emilia procurò
di farsi animo, e con voce tremante disse: « Poss'io
domandarvi, o signore, il motivo di questa improvvisa
partenza? » Dopo una lunga pausa ebbe bastante
coraggio per reiterare la domanda.


« Non mi garba rispondere alle interrogazioni, »
disse Montoni, « come a voi non conviene di farmene.[89]
Il tempo spiegherà tutto. Desidero adesso
non essere importunato più a lungo. Vi consiglio
ad adottare una condotta più ragionevole. Tutte
queste idee di pretesa sensibilità non sono, a dirla
schietta, che debolezze. »


Emilia si alzò per andarsene. « Buona notte, »
diss'ella alla zia, nascondendo con difficoltà la sua
emozione.


— Buona notte, mia cara, » rispose questa con
accento di bontà straordinaria in lei. La tenerezza
inaspettata fece piangere la fanciulla, che, salutato
Montoni, s'avviò. « Ma voi non sapete dove sia la
vostra camera? » soggiunse la zia. Montoni chiamò
il servo che attendeva nell'anticamera, e gli ordinò
di far venire la cameriera di sua moglie, la quale
arrivò poco dopo e seguì Emilia.


« Sai tu dove sia la mia camera? » diss'ella ad
Annetta nel traversar la sala.


— Credo saperlo, signorina, ma è una stanza
molto stravagante; è situata sul bastione meridionale,
e ci si va dallo scalone: la camera della signora
è all'altra estremità del castello. »


Emilia salì la scala ed entrò nel corridoio. Percorrendolo,
Annetta ripigliò il chiaccherio.


« È un luogo solitario e tristo questo castello;
io tremo tutta nel pensare che devo soggiornarvi.
Oh! quante volte mi son pentita di avere abbandonata
la Francia! non mi sarei mai aspettata,
quando seguii la signora per girare il mondo, di
essere imprigionata in un luogo simile. Oh! non
sarei venuta via dal mio paese, quand'anco m'avessero
coperta d'oro.


— Da questa parte, signorina, voltate a sinistra.
In verità, son quasi tentata di credere ai giganti.
Questo castello sembra fatto espressamente per loro.
Una notte o l'altra vedremo qualche folletto; ne
devono comparire in quella gran sala, la quale,
ne' suoi pesanti pilastri, somiglia più ad una chiesa,
che ad altro.[90]


— Sì, » disse Emilia sorridendo, lieta di sottrarsi
a più serii pensieri, « se noi venissimo qui a mezzanotte
e guardassimo nel vestibolo, lo vedremmo
per certo illuminato da più di mille lampade. Tutti
gli spiriti ballerebbero in giro al suon di deliziosa
musica; e' soglion sempre tener lor congreghe in
luoghi consimili. Temo, Annetta, tu non abbia bastante
coraggio per assistere a sì bello spettacolo.
Se tu parlassi, tutto svanirebbe all'istante.


— Epperciò credo che se abiterò qui un pezzo
diverrò un'ombra anch'io.


— Spero che non confiderai i tuoi timori al signor
Montoni; gli spiacerebbero assaissimo.


— Come! voi dunque sapete tutto, signorina?
Oh! no, no. So ben io cosa devo fare, e se il padrone
può dormire in pace, certo tutti qui possono
fare altrettanto... Per quest'andito, signorina; esso
conduce ad una scaletta. Oh! se vedo qualcosa,
cado svenuta sicuramente.


— Non è possibile, » disse Emilia sorridendo, e
svoltando l'andito che metteva in un'altra galleria.
Annetta si avvide allora d'avere sbagliata strada, e
si smarrì sempre più attraverso altri corridoi: spaventata
infine dai loro giri e dalla solitudine loro,
gridò chiedendo soccorso; ma i servi erano dalla
parte opposta del castello, e non potevano udirla.
Emilia aprì la porta d'una camera a sinistra. La
cameriera sclamò:


« Non entrate là dentro, signora, ci perderemmo
ancor più.


— Porta il lume: troveremo la strada traverso
tutte queste stanze. »


Annetta stava alla porta titubando; essa tendeva
il lume per lasciar vedere la camera, ma i suoi
raggi non vi penetravano a metà. « Perchè non
entri? » disse Emilia; « lasciami vedere per dove
si va per di qui. »


L'altra si avanzò con ripugnanza. La camera dava[91]
adito ad una fuga di stanze antiche e spaziose. I
mobili che le adornavano erano antichi quanto le
muraglie, e conservavano un'apparenza di grandezza,
sebbene logorati dal tempo e dalla polvere.


« Come fa freddo qui, » disse Annetta; « a quanto
si dice, non vi ha abitato nessuno da molti secoli.
Andiamo via.


— Da questa parte potremo forse arrivare allo
scalone, » rispose Emilia, e andando sempre avanti,
si trovarono in una sala guarnita di quadri; prese
il lume per esaminare quello d'un soldato a cavallo
sul campo di battaglia. Egli puntava la spada
sopra un uomo disteso ai piedi del suo destriero,
e che sembrava chiederli mercè. Il soldato, colla
visiera alzata, lo guardava con l'aria della vendetta.


Quest'espressione e tutto il complesso sorpresero
Emilia per la sua somiglianza con Montoni;
fremè e volse altrove lo sguardo. Passando col
lume accanto agli altri quadri, ne vide uno coperto
da un velo nero; questa singolarità la colpì; fermossi
coll'intenzione di alzare il velo e considerare
ciò che v'era nascosto con tanta cura; pure
esitò. « Madonna! » gridò Annetta; che vuol dir
mai questo? È sicuramente la pittura, il quadro
di cui si parlava a Venezia.


— Che pittura? » disse Emilia. « Che quadro?


— Un quadro, » rispose Annetta, tremante e
pallida. « Non ho mai potuto sapere ciò che fosse.


— Alza quel velo, Annetta.


— Chi? io, signorina, io? No, per tutto l'oro
del mondo.


— Ma che cosa hai saputo su questo quadro,
che ti spaventa tanto?


— Nulla, signorina, non mi è stato detto nulla.
Andiamo via.


— Sicuro, ma prima voglio vedere il quadro;
piglia il lume, Annetta, alzerò io il velo. »[92]


La cameriera prese il lume e fuggì precipitosamente,
senza volere ascoltare Emilia, la quale, non
volendo restar al buio, fu obbligata a seguirla.


« Ma che cos'hai, Annetta? Cosa ti fu detto di
quel quadro, che scappi quando ti prego di restare?


— Non ne so il motivo, e non m'han detto nulla.
Tutto quel che so, è che ci fu qualcosa di spaventoso
a tal proposito; che in seguito fu sempre tenuto
coperto d'un velo nero, e che nessuno lo ha
veduto da molto tempo. Si dice che ciò abbia qualche
rapporto colla persona che possedeva il castello
prima che appartenesse al padrone; e...


— Benissimo, Annetta, mi accorgo che infatti tu
non sai nulla del quadro.


— No, nulla in verità, signorina; perchè mi hanno
fatto promettere di non parlarne mai. Ma...


— In tal caso, » soggiunse Emilia, vedendola
combattuta dalla volontà di rivelare un segreto, e
dal timore delle conseguenze, « in tal caso, non voglio
saperne di più.


— No, signorina; non me lo domandate.


— Tu diresti tutto. »


Annetta arrossì, Emilia sorrise; finirono di traversare
quelle stanze, e si trovarono finalmente in
cima allo scalone. La cameriera vi lasciò la padroncina
per chiamare una serva del castello, e farsi
condurre alla camera inutilmente cercata.


Intanto Emilia pensava al quadro. La curiosità la
spingea a tornar indietro per esaminarlo; ma l'ora,
il luogo, il cupo silenzio che regnava intorno, tutto
ne la distolse. Pure risolse di tornar col nuovo
giorno al misterioso quadro e sollevarne il velo.


La serva comparve alfine, e condusse Emilia nella
sua camera, situata all'estremità del castello ed in
fondo al corridoio, sul quale s'apriva appunto la
fila di stanze che avevano traversate. L'aspetto deserto
di quella camera fece desiderare alla fanciulla[93]
che Annetta non partisse subito. Il freddo umido
che vi si sentiva la gelava quanto il timore; pregò
Caterina, la serva del castello, di accenderle un po'
di fuoco.


« Oh! signorina, son molti anni che non venne
acceso fuoco in questa camera, » disse la fantesca.


— Non c'era bisogno di dircelo, buona donna, »
soggiunse Annetta; « tutte le stanze di questo castello
son fresche come i pozzi in tempo di estate:
stupisco che voi possiate vivere in un luogo simile.
Per me, vorrei essere a Venezia, o piuttosto in
Francia. »


Emilia fe' cenno a Caterina di andare a prender
le legna.


« Non capisco, » disse la cameriera, « perchè
questa si chiami la camera doppia. »


La padroncina intanto l'osservava in silenzio, e
la trovava alta e spaziosa come tutte le altre già
vedute. Le pareti erano intavolate di larice; il letto
e gli altri mobili pareano antichissimi, ed avevano
quell'aria di tetra grandezza che si osservava in
tutto l'edificio. Essa aprì un finestrone; ma l'oscurità
non le permise di nulla distinguere.


In presenza di Annetta, Emilia procurava di contenersi
e trattener le lacrime. Desiderava ansiosamente
di sapere quando si aspettava al castello il
conte Morano; ma temeva di fare un'interrogazione
inutile, e divulgare interessi di famiglia in presenza
della servitù. Intanto, i pensieri d'Annetta
occupavansi di oggetti ben diversi: essa amava molto
il maraviglioso; aveva udito parlare d'una circostanza
relativa al castello, che solleticava molto la
di lei curiosità. Le avevano raccomandato il segreto
e la sua smania di parlare era così violenta, che ad
ogni istante stava per dir tutto. Era circostanza sì
strana! Il non poter parlarne era un castigo forte
per lei; ma Montoni poteva imporgliene de' più severi
ed essa temeva di provocarlo.[94]


Caterina portò le legna, e la fiamma sfavillante
fugò alquanto la nebbia lugubre della stanza; la
fante disse ad Annetta che la padrona la cercava:
Emilia restò sola in preda alle sue tristi riflessioni.
Per sottrarvisi, si alzò a considerare meglio la camera
ed i mobili. Vide una porta chiusa poco esattamente;
ma accorgendosi non esser quella ond'era
entrata, prese il lume per sapere ove conduceva.
L'aprì, e scorse i gradini d'una scaletta segreta.
Volle vedere dove mettesse, tanto più che comunicava
colla camera; ma nello stato attuale del suo
spirito le mancò il coraggio per andar più oltre.
Chiuse la porta, e cercò d'affrancarla, avendo osservato
che dalla parte interna non aveva chiavistello,
mentre di fuori ve n'erano fin due. Appoggiandovi
una sedia pesante, rimediò in parte al pericolo;
ma paventava molto d'esser costretta a dormire
in quella camera isolata, sola e con una porta
della quale non conosceva la riuscita. Voleva quasi
andar a pregar la signora Montoni acciò permettesse
ad Annetta di passar la notte con lei, ma rigettò
quest'idea, persuasa che i di lei timori sarebbero
stati chiamati puerili, e per non iscuoter anche di
troppo la fantasia già alterata della giovine. Queste
affliggenti riflessioni furono interrotte dal rumore
di passi nel corridoio: era Annetta ed un
servo che le portavano la cena da parte della zia.
Si mise a tavola vicino al fuoco, ed obbligò la cameriera
a mangiar seco lei. Incoraggita da tale condiscendenza,
e dallo splendore e calore del fuoco, la
buona ragazza accostò la sedia a quella d'Emilia, e
le disse:


« Avete mai udito parlare, signorina, dello strano
caso che ha messo il padrone in possesso di questo
castello?


— Quale maravigliosa storia ti fu mai detta? »
rispose Emilia, cercando nascondere la viva curiosità
che la tormentava.[95]


— Io so tutto, » soggiunse Annetta guardandosi
intorno, ed accostandosele sempre più; « Benedetto
mi ha raccontato tutto per viaggio. — Annetta, mi
diss'egli, voi non sapete nulla di quel castello ove noi
andiamo? — No, gli risposi, signor Benedetto; e
voi che ne sapete? — Ma mi lusingo che saprete
custodire un segreto, altrimenti non vi direi nulla
per tutto l'oro del mondo. — Ho promesso di non
parlarne, e si assicura che al padrone spiacerebbe
molto che se ne ciarlasse.


— Se hai promesso il segreto, » disse Emilia,
« fai male a rivelarlo. »


Annetta tacque alcun poco, poi soggiunse: « Oh!
ma per voi, signorina, so bene che vi posso confidar
tutto. »


Emilia si mise a ridere, dicendo: « Io tacerò fedelmente
quanto te. »


Annetta replicò con gravità, ch'era cosa indispensabile,
e continuò: « Voi dovete sapere che questo
castello è molto antico e ben fortificato; si dice
che abbia già sostenuto diversi assedi, e non appartenne
sempre al signor Montoni, nè a suo padre;
ma per una disposizione qualsiasi, egli doveva entrarne
al possesso, se la signora moriva senza maritarsi.


— Qual signora? » disse Emilia.


— Adagio, » soggiunse Annetta; « è la signora
di cui verrò a parlarvi. Essa abitava nel castello,
ed aveva, come potete immaginarvelo, un gran treno.
Il padrone veniva spesso a visitarla; se ne innamorò
e le offrì di sposarla; erano parenti alla lontana,
ma ciò non importava. La signora amava un altro,
e non volle saperne di lui, per cui dicono montasse
sulle furie; e voi ben sapete qual uomo sia quando
è in collera. Forse lo vide ella in uno di questi
trasporti, e lo rifiutò. Ma, come vi diceva, essa parea
trista, infelice, e ciò per molto tempo. O Dio!
Che rumore è questo? Non sentite, signorina?[96]


— È il vento, » disse Emilia; « prosiegui il tuo
racconto.


— Come vi diceva, essa era afflitta ed infelice,
passeggiava sola sul terrazzo, sotto le finestre, e là
piangeva amaramente... Tutto ciò l'ho inteso dire a
Venezia; ma ciò che segue, lo seppi oggi soltanto:
il caso è accaduto molti anni addietro, allorchè il
signor Montoni era ancor giovine; la dama si chiamava
la signora Laurentini; era bellissima, ma andava
spesso in collera, al par del padrone. Accortosi
questi ch'essa non voleva dargli retta, che fa?
lascia il castello, e non ci torna più; ma ciò poco
le importava, poichè era infelice anche lui assente.
Una sera finalmente, » soggiunse la ragazza sbassando
la voce, e guardando intorno inquieta, « per
quanto si dice, verso la fine dell'anno, cioè alla metà
di settembre, o ai primi di ottobre, a quanto suppongo,
o fors'anco alla metà di novembre... poco
importa, è sempre verso la fine dell'anno: ma non
posso precisare il momento, perchè non me lo dissero
neppur essi. In somma, verso la fine dell'anno,
questa signora andò a passeggiare fuori del castello
nel bosco vicino, come faceva di solito. Essa era
sola, colla sua cameriera: faceva freddo; ed il vento,
spazzando via le foglie, soffiava tristamente attraverso
quei grossi castagni che abbiamo passati ieri: Benedetto
mi mostrava gli alberi mentre raccontava.
Il vento era dunque molto freddo, e la cameriera la
pregava di tornare indietro, ma non volle acconsentirvi,
chè passeggiava volentieri pei boschi in
qualunque stagione, la sera in ispecie; e se le foglie
secche cadevano intorno a lei, ne avea maggior piacere.
Ebbene! fu veduta scendere verso il bosco;
venne la sera, ed essa non comparve. Suonarono le
dieci, le undici, mezzanotte, e non si vide tornare;
i domestici, pensando che le fosse occorsa qualche
disgrazia, ne andarono in traccia; cercarono tutta
la notte, ma non la trovarono, e non poterono averne[97]
nessun indizio. Da quel giorno non ne hanno più
saputo nulla.


— È proprio vero? » disse Emilia sorpresa.


— Verissimo, signora, » rispose Annetta inorridita;
« pur troppo è vero. Ma si dice, » soggiunse
ella sottovoce, « che da qualche tempo la signora
Laurentini fu vista più volte di notte nel bosco e
nei contorni del castello; alcuni de' vecchi servitori,
che restarono qui dopo il tristo caso, assicurano
d'averla veduta. Il vecchio fattore potrebbe raccontare
cose assai strane, a quanto si dice.


— Qual contraddizione! » soggiunse Emilia; « tu
dici che non si era più udito parlare di lei, e poi
asserisci che fu veduta.


— Tutto questo mi fu detto colla massima segretezza, »
continuò Annetta senza badare all'osservazione;
« son certa che non vorrete farci torto a
Benedetto ed a me di parlare di questo fatto.


— Non temere della mia indiscrezione, » rispose
Emilia; « ma permettimi ch'io ti consigli d'essere
un po' più prudente, e non isvelare ad alcuno quel
che hai detto a me. Il signor Montoni, come tu dici,
potrebbe benissimo andare in collera, se ne sentisse
parlare. Ma, quali ricerche furono fatte a proposito
di questa infelice?


— Oh! infinite, perchè il padrone aveva diritti
sul castello, essendo parente più prossimo della signora
Laurentini; e si dice che i giudici, i senatori,
od altri, dichiararono ch'egli non potesse entrarne
in possesso, se non dopo molti anni, e che se dopo
questo lasso di tempo la dama non si fosse trovata,
allora il castello gli sarebbe appartenuto come se
fosse morta. Ma il fatto si propalò, e si sparsero
tante e tante voci strane in proposito, che non ardisco
neppure menzionarvele...


— È strano, » disse Emilia; « ma allorchè la
signora Laurentini è di poi ricomparsa nel castello,
non le ha parlato nessuno?[98]


— Parlato! parlarle! » sclamò Annetta con ispavento.
« No, no, e poi no, statene sicura.


— E perchè no? » disse Emilia, bramando sapere
qualcosa di più.


— Madonna santa! Parlare con uno spirito!


— Ma quali ragioni vi sono per credere che fosse
uno spirito, se nessuno se le è avvicinato, e se nessuno
le ha parlato?


— Oh! signorina, questo non posso dirvelo. Come
potete voi farmi domande così stravaganti? Ma nessuno
l'ha veduta andare e venire nel castello. Ora
la vedevano in un sito, e poco dopo era in un altro.
Essa non parlava, e se fosse stata viva, cosa avrebbe
fatto in questo castello senza parlare? vi sono
perfino parecchi luoghi dove nessuno si è arrischiato
più di andare, e sempre per lo stesso motivo.


— Perchè essa non parlava? » disse Emilia sforzandosi
di ridere, malgrado la paura che cominciava
ad impossessarsi di lei.


— No, » rispose Annetta indispettita; « ma perchè
ci si vedeva qualche cosa. Si dice pure esservi
un'antica cappella nella parte occidentale del castello,
ove talvolta, a mezzanotte, si sentono gemiti.
Io fremo solo a pensarvi! colà si sono vedute cose
molto straordinarie.


— Finiscila una volta con queste favole.


— Favole! signorina, io posso dirvi in proposito
una storia che mi raccontò Caterina. Era una fredda
sera d'inverno, e Caterina stava seduta nel salotto
col vecchio Carlo e sua moglie. Carlo desiderò di
mangiar fichi, ed incaricò la serva d'andarne a cercare
alla dispensa, ch'era in fondo della galleria
settentrionale. Caterina prese la lampada... Zitto, signora,
odo fracasso!... »


Emilia, in cui allora Annetta avea fatto passar la
sua paura, ascoltò attenta; ma non udì nulla. La
cameriera continuò: « Caterina andò alla galleria...
è quella che abbiam traversata prima di venir qui.[99]
Essa andava colla lampada in mano senza paura alcuna...
Ancora! » sclamò d'improvviso; « ho sentito
ancora: or non m'inganno.


— Zitto! » disse Emilia tutta tremante. Ascoltarono,
e rimasero immobili. Fu udito un colpo
battuto nel muro. Annetta gettò un alto grido, la
porta si aprì con lentezza, e videro entrar Caterina,
che veniva per dire alla cameriera che la sua padrona
la cercava. Annetta ridendo e piangendo,
rimproverò Caterina di averle fatto tanta paura:
temeva avesse udito ciò ch'ella aveva detto. Emilia,
profondamente colpita dalla circostanza principale
del racconto di Annetta, non avrebbe voluto restar
sola nella situazione attuale; ma, per evitare
i sarcasmi della signora Montoni, e non tradire la
propria debolezza, lottò contro l'illusioni della paura,
e congedò Annetta per tutta la notte.


Quando fu sola, pensò alla strana storia della
signora Laurentini, e poi alla situazione in cui trovavasi
ella stessa in quel terribile castello, in mezzo
a deserti e montagne, in paese straniero, sotto il
dominio d'un uomo che pochi mesi prima non conosceva,
e di cui considerava il carattere con un
orrore giustificato dal terror generale ch'egli ispirava.
Allora, ricordando i timori profetici di Valancourt,
il cuore di lei stringeasi dolorosamente,
abbandonandosi a vani rammarici.


Il vento, fischiando con forza di fuori pel corridoio,
accresceva la di lei malinconia. Emilia restava
fissa davanti alle fredde ceneri dello spento
focolare, quando un'impetuosa raffica penetrando
con ispaventevol fracasso per quegli anditi, scosse
porte e finestre, e spaventolla tanto più che spostò,
nella scossa, la sedia ond'ell'erasi servita per
affrancare l'uscio della scaletta, che si socchiuse.
Gelata dal terrore, stette immobile, si fe' quindi
coraggio, e corse ad assicurarlo alla meglio; quindi
coricossi lasciando il lume sulla tavola; ma quella[100]
luce tetra raddoppiò la sua paura. Al tremolio degli
incerti raggi le pareva sempre di vedere ombre
moversi nel fondo tenebroso della camera, ed affacciarsi
per fino alle cortine del letto. L'orologio del
castello suonò un'ora prima ch'ella potesse addormentarsi.




CAPITOLO XX


La luce del giorno fugò i vapori della superstizione,
ma non quelli della paura. Si alzò, e per
distrarsi delle importune idee, cercò occuparsi degli
oggetti esterni. Contemplò dalla finestra le selvagge
grandezze che le s'offrivano; i monti accatastati l'un
sull'altro, non lasciavan vedere che anguste valli
ombreggiate da folte selve. I vasti bastioni, gli
edifizi diversi del castello, stendevansi lungo uno
scosceso scoglio appiè del quale rumoreggiava un
torrente precipitandosi sotto annosi abeti in profondo
burrone. Una lieve nebbia occupava le lontane
fondure, e svanendo gradatamente ai raggi del
sole, scopriva gli alberi, le coste, gli armenti ed i
pastori.


Osservando queste ammirabili vedute, Emilia si
trovò alquanto sollevata.


L'aria fresca del mattino contribuì non poco a
rianimarla. Innalzò i pensieri al cielo, chè sentivasi
ognor più tranquilla allorchè gustava le sublimità
della natura. Quando si ritrasse dalla finestra, girò
gli occhi verso la porta da lei assicurata con tanta
cura la notte precedente. Era decisa di esaminarne
la riuscita, quando, nell'avvicinarsi per levar la
sedia, si avvide ch'essa n'era già stata alquanto
scostata. È impossibile descrivere la di lei sorpresa
nel trovar poscia la porta chiusa. Rimase attonita
come se avesse veduto uno spettro. La porta del
corridoio era chiusa come l'aveva lasciata; ma l'altra,
che non si poteva chiudere se non dal di fuori,[101]
eralo stata necessariamente nel corso della notte.
Si spaventò all'idea di dover dormir ancora in una
camera nella quale era sì facile penetrare, e così
lontana da qualunque soccorso: si decise pertanto
di dirlo alla signora Montoni, e domandarle il cambiamento
della camera.


Dopo qualche difficoltà le riuscì di ritrovare la
sala della sera precedente, ove stava già preparata
la colazione. Sua zia era sola, Montoni essendo andato
a visitare i contorni del castello, per esaminar
lo stato delle fortificazioni in compagnia di Carlo.
Emilia notò che la zia aveva pianto, e il suo cuore
s'intenerì per lei con un sentimento che si manifestò
più nelle sue maniere che nelle parole. Si
fece coraggio non ostante, e profittando dell'assenza
di Montoni, chiese un'altra camera, ed informossi
del motivo di quel viaggio. Sul primo articolo, la
zia la rimandò a Montoni, ricusando di mescolarsene;
e sul secondo, protestò la più assoluta ignoranza.
Parlarono quindi del castello e del paese che
lo circondava; e la zia non potè resistere al piacere
di motteggiare la buona Emilia sul di lei gusto
per le bellezze della natura. Questi discorsi
furono interrotti dall'arrivo di Montoni, il quale si
mise a tavola senza mostra di avvedersi che vi
fosse qualcuno vicino a lui.


Emilia, che l'osservava tacendo, vide nella sua
fisonomia un'espressione più tetra e severa del
solito. — Oh! se io potessi indovinare, — diss'ella
tra sè, — i pensieri ed i progetti di quella testa,
non sarei condannata a questo crudele stato d'incertezza! — Avanti
la fine della colazione, passata
nel silenzio, Emilia arrischiò la domanda del cambiamento
della camera, allegando i motivi che ve
la inducevano.


« Non ho tempo di occuparmi di queste inezie, »
disse Montoni; « quella è la camera che vi fu destinata,
e dovete contentarvene. Non è presumibile[102]
che nessuno siasi preso l'incomodo di salire una
scala per chiudere una porta; se non lo era quando
entraste, è probabilissimo che il vento abbia sospinto
un chiavistello. Ma io non so perchè dovrei
occuparmi d'una circostanza così frivola. »


Questa risposta non soddisfece punto Emilia, la
quale avea notato come i chiavistelli fossero rugginosi,
e per conseguenza non tanto facili a moversi.
Non fe' noto questa sua osservazione, ma rinnovò
la domanda.


« Se volete essere schiava di simili paure, »
disse Montoni severamente, « astenetevi almeno dal
molestare gli altri. Sappiate vincere tutte queste
frivolezze, ed occupatevi nel fortificare il vostro spirito.
Non avvi esistenza più spregevole di quella
avvelenata dalla paura. » Sì dicendo, egli guardava
fisso la moglie, la quale arrossì, e non proferì parola.
Emilia, sconcertata ed offesa, trovava allora
i suoi timori troppo giusti per meritare que' sarcasmi;
ma vedendo che qualunque osservazione in
proposito sarebbe inutile affatto, mutò discorso.


Carlo entrò di lì a poco portando frutti. « Vostra
eccellenza dev'essere stanca di quella lunga
passeggiata, » diss'egli mettendo le frutta sulla tavola;
« ma dopo la colazione ci resta da vedere
assai più: c'è un posto, nella strada sotterranea,
che conduce a... »


Montoni aggrottò le ciglia e gli accennò di ritirarsi.
Carlo troncò il discorso e chinò gli occhi;
poi, avvicinandosi alla tavola, soggiunse: « Mi son
presa la libertà, eccellenza, di portare alcune ciliege
per le mie padrone: degnatevi gustarle, » diss'egli
presentando il paniere alle donne; « sono buonissime;
le ho colte io stesso; vedete, sono grosse come
susine.


— Andiamo, andiamo, » disse Montoni impazientito,
« basta così. Uscite ed aspettatemi, poichè
avrò bisogno di voi. » Quando i due coniugi si furono[103]
ritirati, Emilia cercò distrarsi esaminando il
castello. Aprì una gran porta e passò sui bastioni,
contornati per tre lati da precipizii. L'ampiezza di
essi ed il paese svariato cui dominavano eccitarono
la di lei ammirazione. Percorrendoli, sostava ella
sovente a contemplare la gotica magnificenza d'Udolfo,
la sua orgogliosa irregolarità, le alte torri, le
fortificazioni, le anguste finestrelle, le numerose feritoie
delle torrette. Affacciatasi al parapetto, misurò
coll'occhio la voragine spaventosa del sottoposto
precipizio, di cui le nere cime delle selve celavano
ancora la profondità. Dovunque volgea gli sguardi,
non vedeva che picchi erti, tetri abeti e gole anguste,
che internavansi negli Appennini, e sparivano
alla vista tra quelle inaccessibili regioni. Stava così
intenta quando vide Montoni accompagnato da due
uomini che si arrampicavano per un sentiero praticato
nel vivo sasso. Egli si fermò sopra un poggio
considerando il bastione, e voltandosi alla scorta,
si esprimeva con aria e gesti molto energici. Emilia
conobbe che un di coloro era Carlo, e che solo all'altro,
vestito da contadino, dirigevansi gli ordini
di Montoni. Si ritirò dal muro al repentino fracasso
d'alcune carrozze ed al tintinnar della campana
d'ingresso, e le venne subito l'idea che fosse giunto
il conte Morano. Tornò celeramente alla propria
stanza, agitata da mille paure; corse alla finestra, e
vide sul bastione Montoni che passeggiava con
Cavignì: parevano intertenersi in animatissimo colloquio.


Mentre stava agitata e perplessa, udì camminare
nel corridoio, ed Annetta entrò.


« Ah! signorina, » diss'ella, « è arrivato il signor
Cavignì: son contentissima di veder finalmente
una faccia cristiana in questo luogo. Egli è così
buono, m'ha sempre dimostrato tanto interesse....
C'è pure il signor Verrezzi, ed un altro che voi
non indovinereste mai.[104]


— Il conte Morano forse, suppongo... » E cedendo
all'emozione, cadde quasi svenuta sulla
sedia.


— Il conte? Ma chi ve lo dice? No, signorina,
egli non è qui, fatevi coraggio.


— Ne sei tu ben sicura?


— Sia lodato Iddio, » soggiunse Annetta, « che
vi siete riavuta presto. In verità, vi credeva moribonda.


--Ma sei proprio sicura che il conte non c'è?


— Oh! sicurissima. Io guardava da un finestrino
nella torretta di settentrione, quando sono arrivate
le carrozze: non mi aspettava certo una vista tanto
cara in questa spaventosa cittadella. Ma ora vi sono
padroni, servitori, e si vede un po' di moto. Noi
staremo allegri: andremo a ballare e cantare nel
salotto, ch'è lontano dall'appartamento del padrone.
Ma, a proposito, Lodovico è venuto con loro. Vi
dovete ricordare di Lodovico, signora Emilia: quel
bel giovane che governava la gondola del cavaliere
nell'ultima regata, e guadagnò il premio! Quello
che cantava poesie così belle, sempre sotto la mia
finestra, al chiaro della luna, a Venezia! Oh! come
l'ascoltava io!


— Temo che que' versi non ti abbiano guadagnato
il cuore, Annetta mia. Ma se è così, ricordati
di non lasciarglielo capire. Adesso sono riavuta, e
puoi lasciarmi.


— Mi scordava di domandarvi in qual maniera
avete potuto riposare in questa antica e spaventosa
camera la notte scorsa.


— Come secondo il solito.


— Non avete dunque inteso alcun rumore?


— No.


— Nè veduto nulla?


— Niente affatto.


— È sorprendente.


— Ma dimmi, per qual motivo mi fai tu queste
interrogazioni?[105]


— Oh! signorina, non ve lo direi per tutto l'oro
del mondo, nè molto meno quel che mi fu raccontato
di questa camera... Vi spaventereste troppo.


— Se è così, tu mi hai già spaventata. Potrai
dunque dirmi tutto quel che ne sai senza aggravarti
la coscienza.


— Dio Signore! si dice che compariscano spiriti
in questa camera, e da un bel pezzo.


— Se è vero, gli è uno spirito che sa chiudere
molto bene i chiavistelli, » disse Emilia sforzandosi
di ridere, malgrado la sua paura. « Ieri sera
lasciai quella porta aperta, e stamane l'ho trovata
chiusa. »


Annetta impallidì, e tacque.


« Hai tu inteso dire che qualche servitore abbia
chiusa questa porta stamattina prima ch'io mi alzassi?


— No, signora Emilia, vi giuro che non lo so,
ma andrò a domandarlo, » disse Annetta correndo
alla porta del corridoio.


— Fermati, Annetta, ho altre domande da farti.
Dimmi quel che sai di questa camera e della scaletta
segreta.


— Vado subito a domandarlo, signorina; eppoi
son persuasa che la padrona avrà bisogno di me,
e non posso più restare. » Ed uscì ratta, senza
aspettare risposta. Emilia, sollevata dalla certezza
che Morano non era arrivato, non potè astenersi di
ridere del repentino terrore superstizioso di Annetta,
benchè anch'ella se ne risentisse talfiata.


Montoni aveva negato ad Emilia un'altra camera,
ed ella si decise a sopportar rassegnata il male che
non poteva evitare. Procurò di rendere la sua abitazione
più comoda che potè; situò su d'un grand'armadio
la sua piccola biblioteca, delizia dei
giorni felici, e consolazione nella sua malinconia,
preparò le matite, avendo deciso di disegnare il
sublime punto di vista che scorgevasi dalla finestra;[106]
ma rammentandosi quante volte avesse intrapreso
anche altrove una distrazione di quel genere, e
quante ne fosse stata impedita da nuove imprevedute
disgrazie, titubò ad accingersi al lavoro, turbata
dal presupposto prossimo arrivo del conte.


Per evitare queste penose riflessioni, si mise a
leggere; ma la sua attenzione non potendo fissarsi
sul libro che aveva in mano, lo buttò sul tavolino,
e risolse di visitare il castello. Rammentandosi la
strana istoria dell'antica proprietaria, si ricordò del
quadro coperto dal velo, e risolse d'andarlo a scoprire.
Traversando le stanze che vi conducevano, si
sentì vivamente agitata: i rapporti di quel quadro
colla signora del castello, il discorso di Annetta, la
circostanza del velo, il mistero di quell'affare, eccitavano
nell'anima sua un lieve sentimento di terrore,
ma di quel terrore che s'impadronisce dello
spirito, l'innalza ad idee grandiose, e, per una specie
di magia, all'oggetto medesimo, che n'è la cagione.


Emilia camminava tremando, e si fermò un momento
alla porta prima di risolversi di aprirla. Si
avanzò verso il quadro, che parea di straordinaria
grandezza e trovavasi in un canto; si fermò nuovamente;
alla fine, con mano timida alzò il velo,
ma tosto lasciollo ricadere. Non era un dipinto che
aveva veduto, e, prima di poter fuggire, svenne sul
pavimento.


Allorchè ebbe ricuperato l'uso de' sensi la rimembranza
di ciò che aveva veduto la fece quasi mancare
una seconda volta, ed ebbe appena la forza
di uscir da quel luogo e di tornare nella sua camera.
Quando vi fu rientrata, non ebbe coraggio di
restarvi sola. L'orrore la dominava intieramente, e
quando fu un poco riavuta, non seppe decidersi se
dovesse informare la signora Montoni di ciò che
aveva visto; ma il timore di esser nuovamente derisa,
la determinò a tacere. Sedette alla finestra per
riprender coraggio. Montoni e Verrezzi passarono[107]
di lì a poco; essi parlavano e ridevano, e la loro
voce la rianimò alquanto. Bertolini e Cavignì li raggiunsero
sul terrazzo. Emilia, supponendo allora che
la signora Montoni fosse sola, uscì per recarsi da
lei. Sua zia stava abbigliandosi pel pranzo. Il pallore
e la costernazione della nipote la sorpresero
assai, ma la fanciulla ebbe forza bastante per tacere,
sebbene il labbro ad ogni momento fosse in procinto
di tradirla. Restò nell'appartamento della zia fino
all'ora del pranzo; essa vi trovò i forestieri, i quali
avevano un aria insolita di preoccupazione, e parevano
distratti da interessi troppo importanti, per
fare attenzione a Emilia od alla zia: parlarono poco,
e Montoni anche meno: Emilia fremè nel vederlo.
L'orrore di quella camera le stava sempre innanzi,
e cambiò colore temendo di non poter contenere
l'emozione; ma potè vincere sè medesima, interessandosi
ai discorsi ed affettando un'ilarità poco
d'accordo colla mestizia del cuore. Montoni mostrava
evidentemente riflettere a qualche grande operazione.
Il pasto fu silenzioso. La tristezza di quel soggiorno
influiva perfino sul giocondo carattere di Cavignì.


Il conte Morano non fu nominato. La conversazione
s'aggirò tutta sulle guerre che in quei tempi
laceravano l'Italia, sulla forza delle milizie veneziane
e sulla bravura dei generali. Dopo il pranzo, Emilia
intese che il cavaliere sul quale Orsino aveva
saziata la sua vendetta, era morto in conseguenza
delle ferite ricevute, e che l'omicida veniva cercato
con cura. Questa notizia parve allarmar Montoni;
ma seppe dissimulare, e s'informò dove fosse nascosto
Orsino. Gli ospiti, eccettuato Cavignì, ignari
che Montoni a Venezia ne avesse favorito la fuga,
risposero che desso era scappato la medesima notte
con tanta fretta e segretezza, che neppure i suoi
più intimi amici non ne avevano saputo nulla.


Emilia si ritirò poco dopo colla signora Montoni,
lasciando quei signori occupati nei loro consigli[108]
segreti. Aveva già Montoni avvertito la consorte,
con cenni espressivi, a ritirarsi. Questa andò sui
bastioni a passeggiare, nè aprì bocca: Emilia non
interruppe il corso de' suoi pensieri. Essa ebbe bisogno
di tutta la sua fermezza per astenersi dal
comunicare alla zia il soggetto terribile del quadro.
Si sentiva tutta convulsa, ed era tentata di palesarle
ogni cosa per sollevarsi il cuore; ma, considerando
che un'imprudenza della zia poteva perderle ambedue,
preferì soffrire un male presente anzichè sottoporsi
per l'avvenire ad uno maggiore. Essa aveva in
quel giorno strani presentimenti. Le pareva che il suo
destino l'incatenasse a quel luogo lugubre. Nondimeno,
la rimembranza di Valancourt, la perfetta
fiducia che aveva del suo amore costante, bastavano
a versarle in seno il balsamo della consolazione.


Mentre appoggiavasi al parapetto del bastione,
scorse in poca distanza parecchi operai ed un mucchio
di pietre che parevano destinate a risarcire
una breccia. Vide parimenti un antico cannone smontato.
La zia si fermò per parlare co' lavoranti, domandandoli
cosa facessero. « Si vuol risarcire le
fortificazioni, signora, » disse uno di loro. Ella fu
sorpresa che Montoni pensasse a que' lavori, tanto
più ch'ei non le aveva mai manifestata l'intenzione
di voler soggiornare colà lunga pezza. Si avanzò
verso un'alta arcata che conduceva al bastiono di
mezzogiorno, e che, essendo unita da una parte al
castello, sosteneva una torretta di guardia dominante
tutta la valle. Nell'avvicinarsi a quell'arcata,
vide da lontano scendere dai boschi una numerosa
truppa di cavalli e d'uomini, cui riconobbe per soldati
al solo splendore delle lance e delle altre armi,
giacchè la distanza non permetteva di giudicare
esattamente dei colori. Mentre guardava, l'avanguardia
uscì dal bosco, ma la truppa continuava a
stendersi fino all'estremità del monte. L'uniforme
militare si distingueva nelle prime file, alla testa[109]
delle quali inoltrava il comandante, che pareva dirigere
la marcia delle schiere, avvicinandosi gradatamente
al castello.


Un tale spettacolo, in quelle contrade solitarie,
sorprese ed allarmò singolarmente la Montoni, la
quale corse in fretta da alcuni contadini che lavoravano
all'altro bastione, a domandar loro cosa fosse
quella truppa. Queglino non poterono darle alcuna
risposta soddisfacente; e, sorpresi anch'essi, osservavano
stupidamente la cavalcata. La signora, credendo
necessario comunicare al marito il soggetto
della di lei sorpresa, mandò Emilia per avvertirlo
che desiderava parlargli. La nipote non approvava
l'ambasciata, temendo il mal umore dello zio; pure
obbedì senza aprir bocca.


Nell'avvicinarsi alle stanze, ove si trovava Montoni
cogli ospiti, Emilia udì una contesa violenta.
Si fermò temendo la collera che poteva produrre il
suo arrivo inaspettato. Poco dopo tacquero tutti;
allora essa ardì aprir la porta. Montoni si volse vivamente,
e la guardò senza parlare; ella eseguì la
commissione. « Dite alla signora che sono occupato, »
ei le rispose.


La fanciulla credè bene raccontargli il motivo
dell'ambasciata. Montoni e gli altri si alzarono tosto
e corsero alle finestre; ma, non vedendo le truppe,
andarono sul bastione, e Cavignì congetturò dovesse
essere una legione di condottieri in marcia
per Modena. Parte di quella soldatesca era allora
nella valle, l'altra risaliva i monti verso ponente,
e la retroguardia era ancora sull'orlo dei precipizi,
dond'erano venuti. Mentre Montoni e gli altri osservavano
quella marcia militare, s'udì lo squillo
delle trombe e dei timpani, i cui acuti suoni venivan
ripetuti dagli echi. Montoni spiegò i segnali,
di cui pareva espertissimo, e concluse che non
avean nulla di ostile. La divisa dei soldati e la
qualità delle armi lo confermarono nell'opinione di[110]
Cavignì; ebbe la soddisfazione di vederli allontanare,
nè ritirossi fintantochè non furono intieramente
scomparsi.


Emilia, non sentendosi bastantemente rimessa per
sopportare la solitudine della sua camera, rimase
sul baluardo fino a sera. Gli uomini cenarono fra
loro. La signora Montoni non uscì dalle sue stanze:
Emilia recossi da lei prima di ritirarsi, e la trovò
piangente ed agitata. La tenerezza della nipote era
naturalmente così insinuante, che riusciva quasi
sempre a consolare gli afflitti; ma le più dolci espressioni
a nulla valsero colla zia. Ella finse, colla solita
delicatezza, di non osservare il dolore di lei,
ma ne' modi usò una grazia così squisita, una premura
così affettuosa, che quella superba se ne offese.
Eccitare la pietà della nipote, era per lei un
affronto sì crudele pel suo orgoglio, che s'affrettò
a congedarla. Emilia non le parlò della sua estrema
ripugnanza a trovarsi isolata; le chiese soltanto in
grazia che Annetta potesse restare con lei fino al
momento di coricarsi. L'ottenne a stento; e siccome
Annetta allora era co' servitori, le convenne ritirarsi
sola. Traversò veloce le lunghe gallerie. Il fioco
chiarore del lume non serviva che a rendere più
sensibile l'oscurità, ed il vento minacciava di spegnerlo
ad ogni istante. Passando davanti la fuga
delle stanze visitate la mattina, credette udir qualche
suono, ma guardossi bene dal fermarsi per
accertarsene. Giunta alla sua camera, non vi trovò
neppure una scintilla di fuoco. Prese un libro per
occuparsi, finchè Annetta venisse; ma la solitudine
e la quasi oscurità la piombarono nuovamente nella
desolazione, tanto più ch'era prossima al luogo orribile
scoperto la mattina. Non sapendo risolversi
a dormire in quella stanza dove per certo la notte
precedente era entrato qualcuno, aspettava Annetta
con penosa impazienza, volendo saper da lei un'infinità
di circostanze. Desiderava egualmente interrogarla[111]
su quell'oggetto d'orrore, di cui la credea
informata, sebbene inesattamente. Stupiva però, che
la camera che lo conteneva restasse aperta tanto
imprudentemente. Il fioco chiarore diffuso sulle pareti
dal lume presso a spegnersi, aumentava il suo
terrore. Si alzò per tornare nella parte abitata del
castello, prima che l'olio fosse totalmente consunto.


Nell'aprir la porta, intese alcune voci, e vide un
lume in fondo al corridoio. Era Annetta con un'altra
serva. « Ho piacere che siate venute, » disse
Emilia; « qual cagione vi ha trattenute tanto? Favorite
di accendere il fuoco.


— La padrona aveva bisogno di me, » rispose
Annetta un poco imbarazzata. « Vado subito a prendere
le legna.


— No, » disse Caterina, « è incombenza mia. » Ed
uscì. Annetta voleva seguirla; ma Emilia la richiamò,
ed ella si mise a parlar forte e a ridere, come se
avesse avuto paura di stare silenziosa.


Caterina tornò colle legna, e tostochè fu acceso
il fuoco e la serva se ne fu andata, la fanciulla
domandò ad Annetta se avesse prese le informazioni
ordinatele.


« Sì, signora, » rispose la ragazza, « ma nessuno
sa nulla. Io ho osservato Carlo con attenzione, perchè
dicono ch'egli sappia di cose strane; quel vecchio
ha una cert'aria che non saprei esprimere: mi
domandò più volte se era ben sicura che la porta
della scaletta segreta non fosse chiusa. — Sicurissima,
gli risposi. In verità, signorina, son tanto
sbalordita, che non so quel che mi dica. Non vorrei
dormire in questa camera più che sul cannone
del baluardo, là in fondo.


— E perchè meno su quel cannone che in qualunque
altra parte del castello? » disse Emilia sorridendo.
« Credo che il letto sarebbe duro.


— Sì, ma non si può trovarne un più cattivo. Il
fatto sta che la notte scorsa fu veduto qualcosa vicino
a quel cannone, che vi stava come di guardia.[112]


— E tu credi a tutte le favole che ti spacciano?


— Signorina, vi farò vedere il cannone di cui
si tratta. Voi potete scorgerlo qui dalla finestra.


— È vero, ma è una prova che sia guardato da
un fantasma?


— Come! Se vi faccio vedere il cannone, non
lo credete neppure allora?


— No, non credo altro se non quel che vedo
co' miei occhi.


— Ebbene, lo vedrete, se volete avvicinarvi soltanto
alla finestra. »


Emilia non potè trattener le risa, e Annetta parve
sconcertata. Vedendo la di lei facilità a credere al
maraviglioso, la fanciulla credè bene astenersi dal
parlarle del soggetto del suo terrore, temendo
ch'ella soccombesse a paure ideali. Parlò dunque
delle regate di Venezia.


« Oh! sì, signorina, » disse Annetta, « que' bei
lampioni e quelle belle notti al chiaro di luna: ecco
che cosa c'è di magnifico a Venezia; son certa che
la luna è più bella in quella città che altrove. Che
musica deliziosa si sentiva! Lodovico cantava così
spesso vicino alla mia finestra, sotto il portico! Fu
Lodovico a parlarmi di quel quadro che avevate
tanta smania di vedere ieri.


— Che quadro? » disse Emilia, volendo far parlare
Annetta.


— Quel quadro terribile col velo nero.


— L'hai tu veduto?


— Chi? io? giammai; ma stamattina, » continuò
la cameriera, parlando sottovoce e guardandosi intorno,
« stamattina, quando fu giorno chiaro, — voi
sapete ch'io aveva un gran desiderio di vederlo,
ed aveva inteso strane cose in proposito, — andai
fino alla porta decisa di entrarvi, ma la trovai
chiusa. »


Emilia fremette, e temendo d'essere stata osservata,
poichè la porta era stata chiusa sì poco tempo[113]
dopo la sua visita, tremava la sua curiosità non le
attirasse la vendetta di Montoni; e comprendendo
quel soggetto essere troppo spaventoso per occuparsene
a quell'ora, cambiò discorso. Era vicina la
mezzanotte, e Annetta accingeasi ad andarsene, allorchè
intesero suonare la campana della porta d'ingresso;
ristettero spaventate: dopo una lunga pausa
udirono il rumore di una carrozza nel cortile; Emilia
si abbandonò sopra la sedia esclamando: « È il conte
senz'altro.


— A quest'ora! oh no! parendomi impossibile
ch'egli abbia scelto questo momento per arrivare
in una casa.


— Cara mia, non perdiamo tempo in vani discorsi, »
disse Emilia spaventata; « va, te ne prego,
va a vedere chi può essere. »


Annetta uscì portando via il lume, e lasciandola
all'oscuro: ciò le avrebbe fatto paura qualche minuto
prima, ma in quel momento non ci badava:
aspettava ed ascoltava quasi senza respirare. Infine
Annetta ricomparve.


« Sì, » diss'ella, « avevate ragione; è il conte.


— Giusto cielo! » sclamò Emilia; « ma è proprio
lui? l'hai realmente riconosciuto?


— Sì, l'ho veduto distintamente; sono andata al
finestrino della corte occidentale che, come sapete,
guarda nel cortile intorno. Ho veduto la sua carrozza,
ov'egli aspettava qualcuno: vi erano molti cavalieri
con torce accese. Quando gli si presentò Carlo, disse
alcune parole ch'io non potei capire, e scese in
compagnia d'un altro signore. Credendo che il padrone
fosse già in letto, corsi al gabinetto della padrona
per saper qualcosa; incontrai Lodovico, dal
quale seppi che il signor Montoni vegliava ancora,
e teneva consiglio cogli altri signori in fondo alla
galleria di levante. Lodovico mi fe' segno di tacere,
ed io son tornata subito qui. »


Emilia domandò chi fosse il compagno del conte,[114]
e come li avesse ricevuti Montoni; ma Annetta non
potè dirle nulla.


« Lodovico, » soggiuns'ella, « andava appunto a
chiamare il cameriere del padrone per informarlo
di questo arrivo, allorchè io lo trovai. »


Emilia restò alcun tempo incerta; finalmente pregò
Annetta di andar a scoprire, se fosse possibile, l'intenzione
del conte venendo al castello.


« Volentieri, » rispose l'altra; « ma come potrò
io trovare la scala, se vi lascio la lucerna? »


Emilia si offrì di farle lume. Quando furono in
cima alla scala, essa riflettè che poteva essere veduta
dal conte, e, per evitar di passare pel salone,
Annetta la condusse per vari anditi ad una scala
segreta che metteva nel tinello.


Tornando indietro, Emilia temè di smarrirsi, ed
essere nuovamente spaventata da qualche misterioso
spettacolo, e fremea all'idea di aprire una sola porta.
Mentre stava perplessa e pensierosa, le parve udire
un singulto; si fermò, e ne sentì un altro distintamente:
avea a destra parecchi usci; tese l'orecchio;
quando fu al secondo, intese una voce lamentevole,
ma non sapeva decidersi ad aprir la porta, o ad
allontanarsi. Riconobbe sospiri convulsi e le querele
d'un cuore alla disperazione: impallidì, e considerò
ansiosa le tenebre che circondavanla: i lamenti continuavano;
la pietà vinse il terrore. Nella probabilità
che le di lei attenzioni valessero a consolarlo,
depose il lume, ed aprì la porta pian piano: tutto
era tenebre, tranne un gabinetto in fondo d'onde
trapelava una fioca luce. Parendole riconoscere la
voce, si avanzò adagio, e vide sua zia appoggiata
al tavolino, col fazzoletto agli occhi... Essa restò
immobile per lo stupore.


Un uomo stava assiso vicino al caminetto, ma non
potè distinguerlo, perchè le voltava le spalle; tratto
tratto egli diceva qualche parola sottovoce, che non
potevasi intendere, ed allora la zia piangeva più[115]
forte. Avrebbe Emilia voluto indovinare il motivo
di quella scena, e riconoscere colui che a quell'ora
si trovava colà: non volendo però aumentare le
smanie della zia scuoprendo i suoi segreti, si ritirò
con cautela, e, sebbene a stento, le riuscì di trovare
la sua camera, ove in breve altri interessi le
fecero obliare la di lei sorpresa.


Annetta tornò senza risposta soddisfacente. I servi,
coi quali aveva parlato, ignoravano il tempo che
il conte doveva restare nel castello: non parlavano
che delle strade cattive percorse, dei pericoli superati,
e maravigliavansi che il loro padrone avesse
fatto quella strada a notte così avanzata. Ella finì
col chiedere il permesso d'andarsi a riposare.


Emilia, conoscendo che sarebbe stata una crudeltà
il trattenerla, la congedò. Rimase sola, pensando alla
propria situazione ed a quella della zia; e gli occhi
di lei fermaronsi alfine sul ritratto trovato nelle carte
che il padre aveale imposto di ardere, e che stava
sul tavolo con vari disegni estratti da una scatoletta
poche ore innanzi: tal vista la immerse in
tristi riflessioni, ma l'espressione commovente del
ritratto ne addolciva l'amarezza. Guardò intenerita
que' leggiadri lineamenti; d'improvviso, ricordossi
conturbata le parole del manoscritto trovato colla
miniatura, e che allora aveanla compresa d'incertezza
e d'orrore. Infine, si riscosse, e decise di coricarsi;
ma il silenzio, la solitudine in cui si trovava a
quell'ora tarda, l'impressione lasciatale dal soggetto
cui stava meditando, le ne tolsero il coraggio. I
racconti di Annetta, benchè frivoli, aveanla però
conturbata, tanto più dopo la spaventosa circostanza
ond'ella era stata testimone poco lungi dalla sua
camera.


La porta della scala segreta era forse il soggetto
d'un timore meglio fondato. Decisa a non ispogliarsi,
si gettò vestita sul letto; il cane di suo padre,
il buon Fido, coricato ai di lei piedi, le serviva
di sentinella.[116]


Preparata così, procurò di bandire le triste idee;
ma il suo spirito errava tuttavia sui punti che più
l'interessavano, e l'orologio suonò le due prima
ch'ella potesse chiuder occhio. Cedè finalmente ad
un sonno leggero, e ne fu svegliata da un rumore
che le parve sentire in camera. Tremante alzò il
capo, ascoltò attenta: tutto era nel silenzio; credendo
essersi ingannata, si riadagiò sul guanciale.


Poco dopo il rumore ricominciò: pareva venir
dalla parte della scaletta. Si rammentò allora il disgustoso
incidente della notte scorsa, in cui una
mano ignota aveva socchiuso quell'uscio. Il terrore
le agghiacciò il cuore. Si alzò sul letto, e stirando
lievemente il cortinaggio, osservò la porta della scala.
Il lume che ardeva sul caminetto spandeva una luce
fiochissima. Il rumore che credeva venire dalla porta
continuò a farsi sentire. Le pareva che ne smovessero
i chiavistelli; poi si fermavano, e quindi
ricominciavano pian piano, come se avessero temuto
di farsi udire. Mentre Emilia fissava gli occhi da
quella parte, vide l'imposta muoversi, aprirsi lenta
e qualcosa entrare in camera, senza che l'oscurità
le permettesse distinguer nulla. Quasi morta dallo
spavento, fu abbastanza padrona di sè stessa per
non gridare e lasciar ricader la cortina. Osservò tacendo
quell'oggetto misterioso, il quale pareva cacciarsi
nelle parti più oscure della camera, poi talvolta
fermarsi; ma quando si avvicinò al camino,
Emilia potè distinguere una figura umana. Una tetra
rimembranza fu quasi per farla soccombere. Continuò
nonostante ad osservar quella figura, la quale
restò immobile buona pezza, e si avvicinò quindi
pian piano ai piedi del letto. Le cortine, socchiuse
alquanto, permettevano alla fanciulla di vederla; ma
il terrore la privava perfin dalla forza di fare un
movimento. Dopo un istante, la figura tornò al camino,
prese il lume, considerò la camera, e riaccostossi
adagio al letto. I raggi della lampada svegliarono[117]
allora il cane, il quale saltò a terra, latrò
forte, e corse sull'incognito, che lo respinse colla
spada coperta dal fodero. Emilia riconobbe il conte
Morano. Essa lo guardò muta dallo spavento. Egli
cadde in ginocchio, scongiurandola di non temere,
e gettando il ferro, volle prenderle una mano. Ma,
ricuperando allora le forze paralizzate dal terrore,
Emilia saltò giù dal letto, Morano si alzò, la seguì
verso la porta della scaletta, e la fermò mentre ne
toccava il primo gradino; ma già al chiarore d'un
lume, essa aveva veduto un altr'uomo a metà della
scala medesima. Gettò un grido di disperazione, e,
credendosi tradita da Montoni, si diè per perduta.


Il conte la trascinò in camera. « Perchè tanto
spavento? » diss'egli con voce tremante. « Ascoltatemi,
Emilia, io non vengo per farvi alcun male;
no, giuro al cielo, vi amo troppo, senza dubbio pel
mio riposo. »


Emilia lo guardò un momento coll'incertezza
della paura. « Lasciatemi, signore, » gli disse, « lasciatemi
dunque sul momento.


— Ascoltate, Emilia, » soggiunse Morano, « ascoltatemi:
io vi amo, e sono disperato, sì, disperato.
Come posso io guardarvi, forse per l'ultima volta
e non provare tutte le furie della disperazione? Ma
no, voi sarete mia a dispetto di Montoni, a dispetto
di tutta la sua viltà.


— A dispetto di Montoni! » sclamò Emilia con
vivacità. « O cielo! che sento mai?


— Che Montoni è un infame, » gridò Morano con
veemenza, « un infame che vi vendeva al mio
amore, che...


— E quello che mi comprava lo era egli meno? »
diss'ella gettando sul conte un'occhiata sprezzante.
« Uscite, signore, uscite sull'istante. » Poi soggiunse
con voce commossa dalla speranza e dal timore,
benchè sapesse di non poter essere intesa da nessuno:
« Od io metterò sossopra tutto il castello,[118]
ed otterrò dal risentimento del signor Montoni ciò
che implorai indarno dalla sua pietà.


— Non isperate nulla dalla sua pietà; egli mi ha
tradito indegnamente: la mia vendetta lo perseguiterà
da per tutto; e quanto a voi, Emilia, ha senza
dubbio progetti più lucrosi del primo. »


Il raggio di speranza che le prime parole del
conte avevano reso ad Emilia, fu quasi spento da
queste ultime espressioni. La di lei fisonomia ne fu
conturbata, e Morano procurò di trarne vantaggio.
Ei disse:


« Io perdo il tempo, non venni per declamare
contro Montoni, venni per sollecitare, per supplicare
Emilia; venni per dirle tutto ciò che soffro, per
iscongiurarla di salvarci amendue: me dalla disperazione
e lei dalla rovina. Emilia, i progetti di Montoni
son tali, che voi non potete concepirli; sono
terribili, ve lo giuro. Fuggite, fuggite da quest'orrida
prigione coll'uomo che vi adora. Un servo,
guadagnato a forza d'oro, mi aprirà le porte del
castello, e fra breve vi sarete sottratta da questo
scellerato. »


Emilia era oppressa dal colpo terribile ricevuto
nel mentre appunto rinascevale la speranza in cuore.
Si vedeva perduta senza riparo. Incapace di rispondere
e quasi di riflettere, si abbandonò sur una sedia,
pallida e taciturna; era probabilissimo che in
principio Montoni l'avesse venduta a Morano, ma
era chiaro che in seguito avesse ritrattata la sua
promessa, e la condotta del conte lo provava. Appariva
eziandio che un progetto più vantaggioso
aveva solo potuto decidere l'egoista Montoni ad
abbandonare quel piano, che aveva sì vivamente sollecitato.
Queste riflessioni la fecero fremere delle
parole di Morano, ch'ella non esitava a credere. Ma
mentre tremava all'idea delle sventure che l'attendevano
nel castello di Udolfo, considerava che l'unico
mezzo di uscirne era la protezione d'un uomo,[119]
col quale non potevano mancarle sciagure più certe
e non meno terribili; mali in fine, di cui non poteva
sostener il pensiero.


Il silenzio di lei incoraggì le speranze del conte,
che l'osservava con impazienza; ei le prese la mano
e scongiurala a decidersi. « Tutti gl'istanti di ritardo, »
le disse, « rendono la partenza più pericolosa;
i pochi momenti che noi perdiamo, possono
dare a Montoni il tempo di sorprenderci.


— Per pietà, signore, non m'importunate » disse
Emilia fiocamente; « io sono infelice, e debbo continuare
ad esserlo. Lasciatemi, ve ne prego, lasciatemi
al mio destino.


— Non mai, » gridò il conte con impeto; « io perirò
piuttosto... ma perdonate questa violenza: l'idea
di perdervi mi altera la ragione. Voi non potete
ignorare il carattere di Montoni; ma potete
ignorare i suoi progetti, sì, voi li ignorate certo,
chè diversamente non esitereste fra l'amor mio ed
il suo potere.


— Io non esito punto, » disse Emilia.


— Partiamo dunque, » soggiunse Morano baciandole
la mano, ed alzandosi in fretta. « La mia carrozza
ci aspetta sotto le mura del castello.


— V'ingannate, signore; vi ringrazio dell'interesse
che prendete per la mia sorte, ma io resterò
sotto la protezione del signor Montoni.


— Sotto la sua protezione! » sclamò violentemente
Morano; « la sua protezione! Emilia, deh!
non vi lasciate ingannare... Ve l'ho già detto quale
sarebbe la sua protezione.


— Scusate se in questo momento non presto fede
ad una semplice asserzione, e se esigo qualche
prova.


— Non ho il tempo nè il mezzo di produrne.


— Ed io non avrò nessuna volontà di ascoltarle.


— Voi vi beffate della mia pazienza e delle pene[120]
mie, » continuò Morano; « un matrimonio coll'uomo
che vi adora, è egli dunque così terribile ai vostri
occhi? Preferite questa crudel prigionia? Oh! c'è
qualcuno, per certo, che m'invola gli affetti che
dovrebbero appartenermi, altrimenti non potreste
ricusare un partito che può sottrarvi alla più barbara
tirannide. » E correva smarrito su e giù per
la camera.


— Il vostro discorso, conte Morano, prova abbastanza
che i miei affetti non potrebbero appartenervi, »
disse Emilia con dolcezza. « Questa condotta
prova abbastanza ch'io sarei ugualmente tiranneggiata,
caso fossi in vostro potere. Se volete
persuadermi il contrario, cessate di molestarmi davvantaggio
colla vostra presenza; se me lo negaste,
mi obblighereste di esporvi alla collera del signor
Montoni.


— Ma ch'ei venga! » sclamò Morano furibondo;
« ch'ei venga! Ardisca provocare la mia! ardisca
guardare in faccia l'uomo che ha così insolentemente
oltraggiato! Gl'insegnerò io cosa sia la morale,
la giustizia, e specialmente la vendetta! venga,
ed io gl'immergerò la spada nel seno. »


La veemenza colla quale si esprimeva, divenne
per Emilia un nuovo motivo d'inquietudine. Si alzò
dalla sedia, ma le tremavano le gambe, e ricadde.
Guardava attentamente la porta chiusa del corridoio,
convincendosi di non poter fuggire senza esserne
impedita.


« Conte Morano, » diss'ella finalmente, « calmatevi,
ve ne scongiuro, ed ascoltate la ragione, se
non la pietà. Voi v'ingannate egualmente nell'amore
e nell'odio. Non potrò mai corrispondere all'affetto
onde vi piaceste onorarmi, e certo io non
l'ho mai incoraggito. Il signor Montoni non può
avervi oltraggiato: sappiate ch'ei non ha diritto
di disporre della mia mano, quand'anco ne avesse
il potere. Lasciatemi, abbandonate questo castello,[121]
finchè potete farlo con sicurezza. Risparmiatevi le
terribili conseguenze d'una vendetta ingiusta, ed il
rimorso sicuro di aver prolungato i miei patimenti.


— Una vendetta ingiusta! » esclamò il conte riprendendo
a un tratto la furia della passione. « E
chi mai potrà vedere questo volto angelico, e credere
un castigo qualunque proporzionato all'offesa
che mi fu fatta? Sì, abbandonerò questo castello,
ma non ne uscirò solo. La mia gente mi aspetta,
e vi porterà alla mia carrozza; le vostre strida saranno
inutili; nessuno può ascoltarle in questo
luogo remoto. Cedete dunque alla necessità, e lasciatevi
condurre.


— Conte Morano, » diss'ella alzandosi, e respingendolo
mentre si avanzava, « io sono adesso in
poter vostro, ma riflettete che una simile condotta
non può acquistarvi la stima di cui pretendete
esser degno. »


Qui fu interrotta dal brontolìo del suo cane, che
saltò giù dal letto per la seconda volta; Morano
guardò verso la scala, e, non vedendo alcuno, chiamò
ad alta voce Cesario.


« Emilia, » le disse, in seguito, « perchè mi obbligate
ad usar questo mezzo? Oh! quanto desidererei
persuadervi, anzichè obbligarvi ad essere la
mia sposa! Ma giuro al cielo che Montoni non vi
venderà ad un altro. Intanto verrete meco. Cesario,
Cesario!... »


Un uomo comparve. Emilia gettò un alto strido,
mentre il conte la trascinava. In quel punto s'intese
rumore all'uscio del corridoio. Il conte si
fermò, come esitante tra l'amore e la vendetta;
l'uscio si aprì, e Montoni, seguito dal vecchio intendente
e da parecchi altri, entrò precipitoso nella
camera dicendo: « Ah traditore! pagherai il fio
del tuo infame attentato; in guardia! »


Il conte non aspettò una seconda sfida; consegnò
Emilia a Cesario, e voltosi con fierezza: « Sono da[122]
te, infame, » gridò egli menandogli un colpo da
disperato. Montoni si difese valorosamente, ma furono
separati dai seguaci, mentre Carlo strappava
Emilia alla gente di Morano.


« È per questo, » disse Montoni con ironia, « è
per questo ch'io vi riceveva nel mio tetto, e vi
permetteva di passarvi la notte? Voi adunque veniste
a ricompensar la mia ospitalità con un indegno
tradimento, e per involarmi mia nipote?


— Che chi parla di tradimento, » rispose Morano
con rabbia concentrata, « osi mostrarsi senza
arrossire. Montoni, voi siete un infame; se qui c'è
tradimento, voi solo ne siete l'autore.


— Ah vile! » gridò l'altro sciogliendosi da chi
lo tratteneva e correndo addosso al conte. Uscirono
dalla porta del corridoio. Il combattimento fu
così furioso, che nessuno ardì avvicinarsi. Montoni,
d'altra parte, giurava di trafiggere il primo che si
fosse frapposto. La gelosia e la vendetta aumentavano
la rabbia e l'acciecamento di Morano. Montoni,
più padrone di sè stesso, ed abilissimo, ebbe il
vantaggio, e ferì l'avversario; ma questi parendo
insensibile al dolore e alla perdita del sangue, seguitò
a battersi, e piagò Montoni leggermente nel
braccio, ma nell'istesso momento toccò una larga
ferita, e cadde in braccio a Cesario. Montoni, appoggiandogli
la spada al petto, voleva obbligarlo a
chieder la vita. Morano potè appena replicare con
un gesto ed una parola negativa, e svenne. L'altro
stava per trafiggerlo, ma Cavignì gli trattenne il
braccio: cedette però con molta difficoltà, e vedendo
l'avversario rovesciato, ordinò di trasportarlo
all'istante fuori del castello.


Emilia, che non aveva potuto uscire dalla camera
durante lo spaventoso tumulto, entrò nel corridoio,
e patrocinando con coraggio la causa dell'umanità,
supplicò Montoni di accordare a Morano, nel castello,
i soccorsi che esigeva il suo stato. Montoni,[123]
il quale non ascoltava quasi mai la pietà, parea in
quel momento sitibondo di vendetta. Colla crudeltà
d'un mostro ordinò per la seconda volta che il suo
vinto nemico fosse trasportato subito fuori del castello
nello stato in cui si trovava. Quei dintorni,
coperti di boschi, offrivano appena una capanna
solitaria da passarvi la notte. I servi del conte dichiararono
che non l'avrebbero mosso di lì, finchè
non avesse dato almeno qualche segno di vita. Quelli
di Montoni stavano immobili, e Cavignì faceva invano
rimostranze: la sola Emilia, non badando a
minacce, portò acqua a Morano, e ordinò agli astanti
di fasciargli le ferite. Montoni, sentendo finalmente
qualche dolore alla sua, si ritirò per farsi medicare.


In quell'intervallo, il conte rinvenne. Il primo
oggetto che lo colpì, aprendo gli occhi, fu Emilia
chinata su di lui coll'espressione della massima inquietudine.
Egli la contemplò dolorosamente.


« L'ho meritato, » diss'egli, « ma non da Montoni.
Io meritava d'esser punito da voi, e ne ricevo
invece pietà. » Dopo qualche pausa soggiunse: « Bisogna
ch'io vi abbandoni, ma non a Montoni. Perdonatemi
i dispiaceri che vi cagionai. Il tradimento
di quell'infame non resterà impunito.... Non sono
in istato di camminare, ma poco importa: portatemi
alla capanna più prossima. Non passerei la
notte in questo luogo, quand'anco fossi certo di
morire nel breve tragitto che dovrò fare. »


Cavignì propose di andare ad uniformarsi se vi
fosse nelle vicinanze qualche abituro, prima di levarlo
di là, ma il conte era troppo impaziente di
partire. L'angoscia del suo spirito sembrava ancor
più violenta del patimento della ferita. Rigettò sdegnosamente
la proposta di Cavignì, nè volle che si
ottenesse per lui il permesso di passar la notte nel
castello. Cesario voleva far venir innanzi la carrozza,
ma Morano glielo proibì. « Non potrei sopportarla, »
diss'egli; « chiamate i miei servitori:
essi mi trasporteranno sulle braccia. »[124]


Finalmente, calmandosi alquanto, acconsentì che
Cesario andasse prima in cerca di un ricetto. Emilia,
vedendolo risensato, si disponeva ad uscire,
quando Montoni glie l'ordinò per mezzo d'un servo,
aggiungendo che se il conte non era partito, dovesse
allontanarsi immediatamente. Gli sguardi di
Morano sfavillarono di sdegno, e si fece di fuoco.


« Dite a Montoni, » soggiunse, « che me n'andrò
quando mi converrà. Lascerò questo castello
ch'esso chiama il suo, come si lascia il nido di un
serpente; ma non sarà l'ultima volta che udrà parlar
di me. Ditegli che, per quanto potrò, non gli
lascerò un altro omicidio sulla coscienza.


— Conte Morano, sapete voi bene quel che dite? »
disse Cavignì.


— Sì, lo so benissimo, ed egli intenderà ciò ch'io
voglio dire. La sua coscienza, su questo punto, seconderà
la sua intelligenza.


— Conte Morano, » disse Verrezzi, che fin allora
stava zitto, « se ardite insultare ancora il mio amico,
v'immergo la spada nel cuore.


— Sarebbe azione degna dell'amico d'un infame, »
disse Morano, e la violenza dello sdegno lo fe' sollevare
dalle braccia de' servi; ma la di lui energia
fu momentanea, e ricadde spossato. La gente di
Montoni tratteneva Verrezzi, il quale pareva disposto
a compiere la sua minaccia. Cavignì, meno irritato
di lui cercava di farlo uscire, Emilia, trattenuta fin
allora dalla compassione, stava per ritirarsi, quando
la voce di Morano l'arrestò. Le fe' cenno di avvicinarsi.
Ella si avanzò timidamente, ma il languore
che sfigurava la faccia del ferito, eccitò la di lei
pietà.


« Vi lascio per sempre, » ei le disse; « forse non
vi vedrò più. Vorrei portar meco il vostro perdono,
e, se non fossi troppo importuno, ardisco chiedere
la vostra benevolenza.


— Ricevete questo perdono, » disse Emilia, « coi
voti più sinceri per la vostra pronta guarigione. »[125]


Scongiuratolo quindi ad uscir tosto dal castello,
recossi dallo zio. Egli era nel salotto di cedro su
di un sofà, e soffriva molto della sua ferita, ma la
sopportava con gran coraggio.


Emilia tremava nell'avvicinarsegli; ei la rampognò
forte per non aver obbedito subito, e attribuì a capriccio
la di lei pietà pel ferito.


La fanciulla, punta da quelle oltraggiose parole,
non rispose.


In quella Lodovico entrò nella stanza, riferendo
che trasportavano Morano su d'una materassa ad una
capanna poco distante. Montoni parve placarsi, e
disse ad Emilia che poteva tornare alla sua camera.
Ella andossene volentieri; ma l'idea di passar la
notte in una stanza che poteva esser aperta a tutti,
le fece allora più spavento che mai. Risolse di andare
da sua zia a chiederle il permesso di condur
seco Annetta.


Nell'avvicinarsi alla galleria, udì voci di persone
che parevano altercare; riconobbe ch'erano Cavignì
e Verrezzi; quest'ultimo protestava di voler andare
ad informar Montoni dell'insulto fattogli da Morano.
Cavignì parea cercar di calmarlo.


« Non si deve badare, » diceva egli, « alle ingiurie
d'un uomo in collera; la vostra ostinazione
sarà funesta al conte ed a Montoni; noi abbiamo
ora interessi molto più seri da discutere. »


Emilia unì le sue preghiere alle ragioni di Cavignì,
e riuscirono in fine a distoglier Verrezzi dal
suo progetto.


Entrata dalla zia, la di lei calma le fece credere
che ignorasse l'accaduto; volle raccontarglielo con
cautela; ma la zia l'interruppe dicendole che sapeva
tutto. Benchè Emilia sapesse benissimo ch'ella
aveva poche ragioni per amare il marito, pur non
la credeva capace di tanta indifferenza. Ottenne il
permesso di condur seco Annetta, e si ritirò subito.
Una striscia di sangue, rigando il corridoio, conducea[126]
alla sua stanza, e nel luogo del combattimento il suolo
erane tutto coperto. La fanciulla tremò, ed appoggiossi
alla cameriera nel passarvi. Giunta in camera,
volle esaminare dove mettesse la scala, dipendendo
molto la sua sicurezza da questa circostanza. Annetta,
curiosa e spaventata insieme, acconsentì al progetto;
ma nell'avvicinarsi alla porta, la trovarono chiusa
al di fuori, talchè dovettero accontentarsi di assicurarla
nell'interno, appoggiandovi i mobili più pesanti
che poterono smovere. Emilia andò a letto, e
la cameriera si mise sur una sedia presso al camino,
ove fumava ancora qualche tizzone.




CAPITOLO XXI


Fa duopo riferir ora qualche circostanza di cui
l'improvvisa partenza da Venezia e la rapida sequela
di casi susseguiti nel castello non ne concessero
d'occuparci.


La mattina istessa di quella partenza, Morano, all'ora
convenuta, andò a casa Montoni per ricevere la
sposa. Fu sorpreso non poco dal silenzio e dalla
solitudine de' portici, pieni al solito di servitori;
ma la sorpresa fece luogo immediatamente al colmo
dello stupore ed alla rabbia, allorchè una vecchia
aprì la porta, e disse che il suo padrone e tutta la
famiglia erano partiti di buonissim'ora da Venezia
per andare in terraferma. Non potendolo credere,
sbarcò dalla gondola e corse nella sala ad informarsi
più minutamente dalla vecchia, la quale persistè
nella sua asserzione, e la solitudine del palazzo lo
convinse della verità. L'afferrò pel braccio, e parve
volesse sfogare sulla poveretta la bile che l'ardea.
Le fece mille interrogazioni in una volta, accompagnati
da gesti così furibondi, che colei, spaventatissima,
non fu in grado di rispondergli. La lasciò,
e si mise a scorrere il portico e i cortili come un[127]
insensato, maledicendo Montoni e la propria dabbenaggine.


Quando la donna si fu riavuta dal terrore, gli
raccontò quanto sapeva; per verità era poco, ma
bastò a far comprendere a Morano come Montoni
fosse andato al suo castello degli Appennini. Ei ve
lo seguì tostochè la sua gente ebbe fatti i necessari
preparativi, accompagnato da un amico e da
numerosa servitù. Era deciso di ottenere Emilia, o
sacrificare Montoni alla sua vendetta. Quando si fu
alquanto calmato, la coscienza gli rammentò alcune
circostanze che spiegavano abbastanza la condotta
di Montoni. Ma in qual modo quest'ultimo avrebbe
mai potuto sospettare un'intenzione ch'egli solo conosceva,
e che non poteva indovinare? Su questo
punto però era stato tradito dall'intelligenza simpatica
che esiste, per così dire, fra le anime poco
delicate, e fa giudicare ad un uomo ciò che deve
fare un altro in una data circostanza. Così infatti
era accaduto a Montoni. Aveva alfine acquistata la
certezza di quanto già sospettava: che la sostanza,
cioè, del conte Morano, invece di esser ragguardevole,
come l'aveva creduto in principio, era al contrario
in cattivissimo stato. Montoni avea favorito
le sue pretese sol per motivi personali, per orgoglio,
per avarizia. La parentela d'un nobile veneziano
avrebbe sicuramente soddisfatto il primo, e
l'altro speculava sui beni di Emilia di Guascogna,
che doveangli esser ceduti il giorno stesso delle
nozze. Aveva già concepito qualche sospetto per le
sregolatezze del conte, ma non aveva acquistata la
certezza della di lui rovina, se non la vigilia del
matrimonio. Non esitò dunque a concludere che
Morano lo ingannava per certo sull'articolo dei beni
di Emilia, e questo dubbio confermossi, quando,
dopo aver convenuto di firmare il contratto la notte
medesima, il conte mancò alla sua parola. Un uomo
così poco riflessivo, così distratto come Morano, nel[128]
momento in cui s'occupava delle sue nozze, aveva
facilmente potuto mancare all'impegno senza malizia;
ma Montoni interpretò l'incidente secondo le
proprie idee. Dopo avere aspettato un pezzo, egli
aveva ordinato a tutta la sua famiglia di star pronta
al primo cenno. Affrettandosi di arrivare al castello
d'Udolfo, voleva sottrarre Emilia a tutte le ricerche
di Morano, e sciogliersi dall'impegno senza esporsi
ad alterchi. Se il conte, al contrario, non avesse
avuto che pretese onorevoli, com'ei le chiamava,
avrebbe certamente seguito Emilia, e firmata la cessione
concertata. A questo patto Montoni l'avrebbe
sacrificata senza scrupolo ad un uomo rovinato, all'unico
scopo di arricchir sè medesimo. Si astenne
nullameno dal dirle una sola parola sui motivi di
quella partenza, temendo che un'altra volta un barlume
di speranza non la rendesse indocile ai suoi
voleri.


Fu per tai considerazioni ch'era partito improvvisamente
da Venezia; e, per motivi opposti, Morano
eragli corso dietro attraverso i precipizi dell'Appennino.
Allorchè seppe il di lui arrivo, Montoni, persuaso
che venisse ad adempire la sua promessa, si
affrettò di riceverlo; ma la rabbia, le espressioni
ed il contegno di Morano lo disingannarono tosto.
Montoni spiegò in parte le ragioni della sua improvvisa
partenza; e il conte, persistendo a chiedere
Emilia, colmollo di rimproveri senza parlare dell'antico
patto.


Il castellano finalmente, stanco della disputa, ne
rimise la conclusione alla domane, e Morano si ritirò
con qualche speranza sull'apparente di lui perplessità;
quando però, nel silenzio della notte, si
rammentò il loro colloquio, il di lui carattere e gli
esempi della sua doppiezza, la poca speranza che
conservava l'abbandonò, e risolse di non perder
l'occasione di possedere Emilia in altro modo. Chiamò
il suo confidente, gli comunicò il proprio disegno,[129]
e l'incaricò di scoprire fra i servi del castello qualcuno
che volesse prestarsi a secondare il ratto di
Emilia: se ne rimise in tutto alla scelta e prudenza
del suo agente, e non a torto, poichè questi non
tardò a trovar un uomo stato recentemente trattato
con rigore da Montoni, e che non pensava se non
a tradirlo. Costui condusse Cesario fuori del castello,
e per un passaggio segreto l'introdusse alla scala,
gl'indicò una via più corta, e gli diede le chiavi
che potevano favorirne la ritirata; fu anticipatamente
ben ricompensato, ed abbiamo veduto qual riuscita
ebbe l'attentato del conte.


Il vecchio Carlo, frattanto, aveva sorpreso due servitori
di Morano, i quali avendo avuto ordine di
aspettare colla carrozza fuori del castello, comunicavansi
la loro maraviglia sulla partenza improvvisa
e segreta del padrone. Il cameriere non aveva lor
confidato, del progetto di Morano, se non ciò ch'essi
dovevano eseguire; ma i sospetti eran destati, e
Carlo ne trasse il miglior partito. Prima di correre
da Montoni, procurò di raccogliere altre notizie, ed
a tal uopo, accompagnato da un altro servo, si
pose in agguato alla porta del corridoio della camera
di Emilia; nè vi restò indarno, giacchè, poco dopo,
sentì giunger Morano, ed essendosi accertato de' suoi
progetti, corse ad avvertire il padrone, contribuendo
così ad impedire il ratto.


Montoni, il giorno dopo, col braccio al collo, fece
il solito giro delle mura, visitò gli operai, ne fece
aumentare il numero, e tornò al castello, ov'era
aspettato da nuovi ospiti. Li fe' venire in un appartamento
separato, e Montoni restò chiuso seco loro
per quasi due ore. Chiamato poscia Carlo, gli ordinò
di condurre i forestieri nelle stanze destinate
agli uffiziali della casa, e di farli immediatamente
rifocillare.


Frattanto il conte giacea in una capanna della foresta,
oppresso da doppio patimento, e meditando[130]
una terribil vendetta. Il servo di lui, spedito al villaggio
più vicino, non tornò che il dì dopo con un
chirurgo, il quale non volle spiegarsi sul carattere
della ferita, e volendo prima esaminare i progressi
dell'infiammazione, gli amministrò un calmante, e
restò con lui per giudicarne gli effetti.


Emilia potè nel resto di quella notte riposare un
poco. Destandosi, si rammentò che finalmente era
stata liberata dalle persecuzioni di Morano, e si sentì
sollevata in gran parte da' mali che l'opprimevano
da tanto tempo. L'affliggevano ancora però i sospetti
esternatile dal conte sulle mire di Montoni: egli
aveva detto che i suoi progetti erano impenetrabili,
ma terribili. Per iscacciarne il pensiero, cercò le
sue matite, si affacciò alla finestra, e contemplò il
paese per iscegliervi una bella veduta.


Così occupata, riconobbe sui bastioni gli uomini
giunti di fresco nel castello. La vista di quegli stranieri
la sorprese, ma ancor più il loro esteriore:
avevano essi una singolarità di vestiario, una fierezza
di sguardi, che cattivarono la di lei attenzione.
Si ritirò dalla finestra mentr'essi vi passavano sotto,
ma vi si riaffacciò tosto per osservarli meglio. Le
loro fisonomie accordavansi così bene coll'asprezza
di tutta la scena, che, mentre esaminavano il castello,
li disegnò come banditi nella sua veduta.


Carlo, avendo procurato a coloro i rinfreschi necessari,
tornò da Montoni, il quale voleva scoprire
il traditore da cui, la notte precedente, Morano
aveva ricevute le chiavi; ma Carlo, troppo fedele
al suo padrone per soffrire che gli nuocessero, non
avrebbe però denunziato il camerata, neppure alla
giustizia. Accertò che l'ignorava, e che il colloquio
de' servi del conte non gli avea svelato altro che
la trama. I sospetti di Montoni caddero naturalmente
sul guardaportone, e lo fece venire. Bernardino negò
con tanta audacia, che lo stesso Montoni dubitò
della sua reità, senza poterlo credere innocente;[131]
infine lo rimandò, talchè sebben fosse il vero autore
del complotto, ebbe l'arte di sfuggire ad un severo
castigo.


Montoni recossi dalla moglie, ed Emilia non tardò
a raggiungerli; essa li trovò in una violenta contesa
e voleva ritirarsi, ma la zia la richiamò.


« Voi sarete testimone, » diss'ella, « della mia
resistenza. Ora ripetete, o signore, il comando al
quale ho tante volte ricusato d'obbedire. »


Egli ordinò severamente alla nipote di ritirarsi.
La zia insistè perchè restasse. Emilia desiderava
sfuggire alla scena di quell'alterco; voleva servire
la zia, ma disperava di calmare Montoni, nei cui
sguardi dipingeasi a tratti di fuoco la tempesta dell'anima.


« Uscite, » gridò egli infine con voce tuonante,
Emilia obbedì, e andò sul bastione, dove non erano
più gli stranieri. Meditando sull'infelice unione fatta
dalla sorella di suo padre, e sull'orrore della propria
situazione, cagionata dalla ridicola imprudenza
della zia, avrebbe voluto rispettarla quant'erale affezionata;
ma la condotta della Montoni aveaglielo
sempre reso impossibile. La pietà però che sentiva
pel cordoglio di quella infelice, le faceva obliare i
torti dei quali poteva accusarla.


Mentre passeggiava così sul bastione, comparve
Annetta, che, guardando intorno con cautela, le
disse:


« Mia cara padroncina, vi cerco dappertutto; se
volete seguirmi, vi farò vedere un quadro.


— Un quadro! » sclamò ella fremendo.


— Sì, il ritratto dell'antica padrona del castello.
Il vecchio Carlo mi ha or detto ch'era dessa, e
pensai farvi cosa grata conducendovi a vederla:
quanto alla signora, voi sapete che non si può parlargliene.


— E perciò tu ne parli con tutti.


— Sì, signora; cosa farei qui, se non potessi[132]
parlare? Se fossi in un carcere, e mi lasciassero
chiaccherare, sarebbe almeno una consolazione: sì,
vorrei parlare, quand'anco fosse ai muri. Ma venite,
non perdiamo tempo: bisogna che vi mostri il
quadro.


— È forse coperto da un velo? » disse Emilia
dopo una pausa; « non ho nessuna voglia di vederlo.


— Come! signora Emilia, non volete vedere la
padrona del castello, quella signora che sparve così
stranamente? Quanto a me, avrei traversate tutte
le montagne per veder il ritratto. A dirvi il vero,
questo racconto singolare mi fa fremere al solo
pensarvi, eppure è l'unica cosa che m'interessa.


— Sei tu poi certa che è un quadro? l'hai tu
veduto? È coperto da un velo?


— Buon Dio! sì, no e sì: son certa che è un
quadro. L'ho veduto, e non è coperto da alcun
velo. »


L'accento e l'aria di sorpresa con cui Annetta
rispose, rammentarono ad Emilia la sua prudenza,
e con un sorriso forzato, dissimulando la commozione,
acconsentì ad andar a vedere il ritratto posto
in una stanza oscura attigua al tinello.


« Eccolo qua, » disse Annetta piano, mostrandole
il quadro. Emilia l'osservò, e vide che rappresentava
una signora nel fior dell'età e della bellezza.
I lineamenti n'erano nobili, regolari e pieni d'una
forte espressione, ma non di quella seducente dolcezza
che avrebbe voluto trovarvi Emilia, nè di
quella tenera melanconia che tanto l'interessava.


« Quant'anni sono scorsi, » disse Emilia, « dacchè
è sparita questa signora?


— Venti anni circa, a quel che dicono. »


La fanciulla continuò ad esaminare il ritratto.


« Io penso, » ripigliò Annetta, « che il signor
Montoni dovrebbe situarlo in una camera più bella.
A parer mio, il ritratto della signora, della quale[133]
ha ereditate le ricchezze, dovrebbe stare nell'appartamento
nobile. In verità, era una bella donna, ed
il padrone potrebbe, senza vergognarsi, farlo portare
nel grand'appartamento dove c'è il quadro
velato. (Emilia si volse). È vero che non lo si vedrebbe
meglio: ne trovo sempre chiusa la porta.


— Usciamo, » disse Emilia; « lascia, Annetta,
che torni a raccomandartelo; procura di esser riservatissima
nei tuoi discorsi, e non far sospettare
che tu sappia la minima cosa, a proposito di quel
quadro.


— Santo Dio, non è già un segreto: tutti i servitori
lo hanno veduto più volte.


— Ma come può essere? » disse Emilia sussultando;
« veduto! quando? come?


— Non c'è nulla di sorprendente: già noi siam
tutti un pochetto curiosi.


— Ma se mi dicesti che la porta era chiusa?


— Se così fosse, come avremmo potuto entrare? »
E guardava da per tutto.


— Ah! tu parli di questo quadro qui, » disse
Emilia calmandosi. « Vieni, Annetta. Non vedo altro
degno d'attenzione. Andiamo via. »


Avviandosi alla sua stanza, essa vide Montoni
scendere nella sala, e tornò nel gabinetto di sua
zia, cui trovò sola e piangente. Il dolore e il risentimento
lottavano sulla sua fisonomia. L'orgoglio
aveva trattenuto fin allora le sue doglianze. Giudicando
Emilia da sè medesima, e non potendo dissimulare
ciò che si meritava da lei l'indegnità del
suo trattamento, credeva che i suoi affanni avrebbero
eccitata la gioia della nipote, anzichè qualche
simpatia. Credeva che la disprezzerebbe, nè avrebbe,
per lei la minima compassione; ma conosceva assai
male la bontà di Emilia.


Le pene vinsero finalmente l'orgoglioso carattere.
Quando Emilia era entrata la mattina nelle sue
stanze, le avrebbe svelato tutto, se il marito non[134]
l'avesse prevenuta; ed or che la di lui presenza non
glielo impediva, proruppe in amari lamenti.


« O Emilia, » esclamò ella, « io sono la donna
più infelice! Vengo trattata in un modo barbaro!
Chi l'avrebbe preveduto, quando aveva dinanzi a
me una sì bella prospettiva, che proverei un destino
così terribile? Chi avrebbe creduto, allorchè sposai
un uomo come Montoni, che mi sarei avvelenata
la vita? Non c'è mezzo d'indovinare il miglior
partito da prendere; non ve n'ha per riconoscere
il vero bene. Le speranze più lusinghiere c'ingannano,
ingannando così anche i più saggi. Chi avrebbe
preveduto, quando sposai Montoni, che mi pentirei
così presto della mia generosità? »


Emilia sapeva bene che avrebbe dovuto prevedere
tutti questi inconvenienti, ma non essendo quello il
momento di farle inutili rimproveri, sedette presso
la zia, le prese la mano, e con quell'aria pietosa
che la faceva somigliare ad un angelo custode, le
parlò con infinita dolcezza. Tutti i suoi discorsi
però non bastarono a calmare la signora Montoni,
la quale non volle ascoltar nulla; essa aveva bisogno
di sfogarsi ancor prima di essere consolata.


« Ingrato! » diss'ella, « mi ha ingannato in tutte
le maniere. Ha saputo strapparmi dalla patria, dagli
amici; mi chiuse in questo antico castello, e
crede costringermi a cedere a tutti i suoi voleri;
ma vedrà che si è ingannato, vedrà che nessuna
minaccia basterà ad indurmi a... Ma chi l'avrebbe
creduto? Chi l'avrebbe mai supposto che, col suo
nome, la sua apparente ricchezza, costui non avesse
nulla affatto? No, neppure uno zecchino del suo!
Io credeva far bene: lo credeva uomo d'importanza
ed opulentissimo, altrimenti non lo avrei sposato.
Ingrato! Perfido! Mostro!...


— Cara zia, calmatevi; il signor Montoni sarà
forse men ricco di quello che credevate, ma non è
poi così povero. La casa di Venezia e questo castello[135]
sono suoi. Posso io domandarvi quali sono
le circostanze che vi affliggono più particolarmente?


— Quali circostanze! » sclamò la zia furibonda.
« Che! non basta? Da molto tempo rovinato al
giuoco, ha perduto anche tutto ciò che gli ho donato,
ed ora pretende che gli faccia cessione di tutti
i miei beni. Fortuna che la maggior parte di essi
sono in testa mia: ei vorrebbe dilapidare anche
questi e gettarsi in un progetto infernale di cui egli
solo può comprendere l'idea; e... tutto questo non
basta?


— Certo, » disse Emilia, « ma rammentatevi, signora,
ch'io l'ignorava assolutamente.


— E non basta, che la sua rovina sia compiuta,
che sia pieno di debiti d'ogni sorta al punto che,
se dovesse pagarli, non gli resterebbe nè il castello,
nè la casa di Venezia?


— Sono afflittissima di ciò che mi dite...


— E non basta, » interruppe la zia, « che mi
abbia trattata con tanta negligenza e crudeltà, perchè
gli ricusai la cessione; perchè invece di tremare
alle sue minacce, lo sfidai risolutamente, rimproverandogli,
la sua vergognosa condotta? Io l'ho sofferto
con tutta la dolcezza possibile. Voi sapete bene,
nipote, se mi sfuggì mai una parola di doglianza
fino ad ora; io, il cui unico torto è una bontà troppo
grande ed una troppo facile condiscendenza! E
per mia disgrazia mi vedo incatenata per la vita a
questo vile, crudele e perfido mostro! »


Emilia, comprendendo che i suoi mali non ammettevano
consolazione reale, e spregiando le frasi
comuni, stimò meglio tacere; la signora Montoni
però, gelosa della sua superiorità, interpretò quel
silenzio per indifferenza o disprezzo, e le rimproverò
l'oblio de' propri doveri e la mancanza di
sensibilità.


« Oh! come diffidava io di quella sensibilità tanto
vantata, quando sarebbe stata messa alla prova! »[136]
soggiuns'ella; « io sapeva benissimo che non v'insegnerebbe
nè tenerezza, nè affetto pei parenti che
vi hanno trattata come loro figlia.


— Perdonate, zia, » disse Emilia con dolcezza,
« io mi vanto poco, e se lo facessi, non mi vanterei
già della mia sensibilità, ch'è un dono forse
più da temere che da desiderare.


— A meraviglia, nipote, non voglio disputar con
voi; ma, come io diceva, Montoni minacciommi di
violenze, se persisto più a lungo a negargli la cessione;
era appunto il soggetto della nostra contesa
quando entraste stamattina. Ora son decisa; non
v'ha forza sulla terra che possa costringermivici, e
non soffrirò con calma tanti mal trattamenti; gli
dirò tutto ciò che merita, a dispetto delle sue minacce
e della sua ferocia. »


Emilia profittò di un momento di silenzio per
dirle: « Cara zia, voi non fareste che irritarlo senza
necessità; non provocate di grazia, i mali crudeli
che temete.


— Poco men cale, ma non lo appagherò mai;
voi mi consigliereste forse a spogliarmi di tutto
il mio?


— No, zia, non intendo dir questo.


— E che intendete voi dunque?


— Voi parlavate di far rimproveri al signor Montoni... »
disse Emilia titubante.


— Che! Forse non li merita?


— Certo; ma non credo sia prudenza il farglieli
nella situazione attuale.


— Prudenza! prudenza con un uomo che senza
scrupolo calpesta perfino le leggi dell'umanità! ed
userò prudenza con costui? No, non sarò vile a tal
segno.


— Pel vostro solo interesse, e non per quello di
Montoni, » disse Emilia modestamente, « stimerei
bene di consultar la prudenza. I vostri rimproveri,
quantunque giusti, riescirebbero vani, nè farebbero
che spingerlo a terribili eccessi.[137]


— Come! Dovrei dunque sottoporrai ciecamente
a tutto ciò ch'ei mi comanda? Pretendereste ch'io
me gli gettassi ai piedi per ringraziarlo della sua
crudeltà? Pretendereste che gli facessi donazione di
tutti i miei beni?


— Cara zia, io forse mi spiego male! non sono
in caso di consigliarvi sopra un punto tanto delicato;
ma soffrite che ve lo dica: se amate il vostro
riposo, cercate di calmare il signor Montoni, anzichè
irritarlo.


— Calmarlo! è impossibile, ripeto, non voglio
neppur provarmici. »


Emilia, benchè piccata dall'ostinazione e dalle
false idee della zia, sentiva pietà de' di lei infortunii,
e fece il possibile per calmarla e consolarla,
dicendole:


« La vostra situazione è forse meno disperata che
non crediate. Il signor Montoni può dipingervi i
suoi affari in uno stato più cattivo di quello che lo
siano realmente, per esagerare e dimostrare il bisogno
che ha della vostra cessione; d'altronde, finchè
conserverete i vostri beni, vi offriranno una risorsa,
se la futura condotta di vostro marito vi obbligasse
a separarvi da lui....


— Nipote crudele e insensibile, » la interruppe
impazientemente la zia, « voi dunque tentate persuadermi
che non ho motivo di querelarmi? Che
mio marito è in una posizione brillante? che il mio
avvenire è consolante, e che i miei affanni son puerili
e romanzeschi come i vostri? Strane consolazioni!
Persuadermi che sono priva di criterio e di
sentimento, perchè voi non sentite nulla, e siete
indifferentissima ai mali altrui! Io credeva aprire
il cuore ad una persona compassionevole, che simpatizzasse
colle mie pene; ma mi avvedo pur troppo
che le persone sentimentali non sanno sentire che
per sè. Andatevene. »


Emilia, senza risponderle, uscì con un misto di[138]
pietà e disprezzo. Appena fu sola, cedè ai penosi
pensieri che le faceva nascere la posizione infelice
della zia. Le proprie osservazioni, le parole equivoche
di Morano, l'aveano convinta che il patrimonio
di Montoni mal corrispondeva alle apparenze. Vedeva
il fasto di lui, il numero de' servi, le sue
nuove spese per le fortificazioni, e la riflessione aumentò
la di lei incertezza sulla sorte della zia e la
propria, pensando al truce carattere dello zio che
andava ognor più spiegandosi nella sua ferocia.


Mentre versava in questi affliggenti pensieri, Annetta
le portò il pranzo in camera. Sorpresa da tal
novità, domandò chi glielo avesse ordinato. « La mia
padrona, » rispose Annetta. « Il signore ha comandato
ch'essa pranzi nel suo appartamento ed ella vi
manda il pranzo nel vostro. Ci sono state forti
discussioni fra loro, e mi pare che la cosa si faccia
seria. »


Emilia, poco badando alle sue ciarle, si mise a
tavola, ma Annetta non taceva sì facilmente: parlò
dell'arrivo degli uomini da lei già veduti sul bastione,
e della loro strana figura, non meno che
della buona accoglienza lor fatta da Montoni. « Pranzano
essi con lui? » disse Emilia.


— No, signorina; hanno già mangiato nelle lor
camere in fondo alla galleria settentrionale. Non so
quando se ne andranno. Il padrone ha ordinato a
Carlo di portar loro il bisognevole. Hanno già fatto
il giro di tutto il castello, e dirette molte interrogazioni
ai manovali. In vita mia non ho mai veduto
ceffi così brutti; fanno paura a vederli. »


La fanciulla le domandò se avesse udito riparlare
del conte Morano, e se vi fosse per lui speranza
di guarigione. Annetta sapeva solo che trovavasi in
una capanna, e molto aggravato. Emilia non potè
nascondere la commozione.


« Signorina, » disse la ciarliera, « come le donne
sanno ben nascondere l'amore! Io credeva che voi
odiaste il conte, e mi sono ingannata.[139]


— Credo di non odiar nessuno, » rispose Emilia
sforzandosi al sorriso; « ma non sono innamorata
certo del conte Morano; e sarei egualmente dispiacentissima
della morte violenta di chicchessia. »


Annetta tornò a parlare de' dissensi fra i coniugi
Montoni. « Non è cosa nuova, » diss'ella, « giacchè
abbiamo inteso e veduto tutto fino da Venezia, sebbene
non ve ne abbia mai parlato.


— E facesti benissimo, ed avresti fatto meglio a
continuare a tacere; abbi dunque prudenza, che
questo discorso non mi garba.


— Ah! cara signora Emilia, vedo qual rispetto
avete per persone che si occupano sì poco di voi!
Io non posso soffrire di vedervi illusa in tal modo;
debbo dirvelo unicamente pel vostro interesse, e
senza alcun disegno di nuocere alla mia padrona,
quantunque, a dir vero, abbia poca ragione di amarla.


— Tu non parli certo di mia zia, » disse Emilia
con gravità.


— Sì, signora; ma io sono fuori di me. Se voi
sapeste tutto quel che so io, non andreste in collera.
Spesso, spessissimo ho inteso lei ed il padrone
che parlavano di maritarvi al conte: essa gli diceva
sempre di non lasciarvi cedere ai vostri ridicoli capricci,
ma di saper costringervi ad obbedire. Mi si
straziava il cuore all'udire tanta crudeltà; parendomi
che essendo ella stessa infelice, avrebbe dovuto compatire
le disgrazie altrui e....


— Ti ringrazio della tua pietà, Annetta; ma mia
zia era infelice, e forse le sue idee erano alterate.
Altrimenti io penso... son persuasa che... Ma via,
lasciami sola, Annetta, ho finito di pranzare.


— Voi non avete mangiato quasi nulla; prendete
un altro boccone... Alterate le sue idee? affè! mi
pare che lo siano sempre. A Tolosa ho inteso spesso
la padrona parlare di voi e del signor Valancourt
alla signora Marville e alla signora Vaison in un
modo poco bello: diceva loro che durava fatica a contenervi[140]
ne' limiti del dovere, che eravate per lei un
gran peso, e che se non vi avesse sorvegliata bene,
sareste andata a scorrazzare per le campagne col
signor Valancourt; che lo facevate venir la notte, e....


— Gran Dio! » sclamò Emilia facendosi di fuoco;
« è impossibile che mia zia mi abbia dipinta così.


— Sì, signora, questa è la pura verità, sebbene
non la dica tutta intiera. Mi pareva che avrebbe
potuto parlare in altra maniera di sua nipote, anche
nel caso che voi aveste commesso qualche fallo.
Ma siate certa che non ho mai creduto neppure
una sillaba di tutti i suoi discorsi. La padrona non
guarda mai a ciò che dice, quando parla degli altri.


— Comunque sia, Annetta, » disse Emilia, ricomponendosi
con dignità, « tu fai malissimo ad accusar
mia zia presso di me; so che la tua intenzione
è buona, ma non parliamone più; sparecchia la
tavola. »


La cameriera arrossì, chinò gli occhi ed affrettassi
ad andarsene.


« È dunque questo il premio della mia onestà? »
disse Emilia quando fu sola. « È questo il trattamento
che debbo ricevere da una parente, da una
zia, la quale doveva difendere la mia riputazione,
invece di calunniarla? Oh! mio tenero ed affettuosissimo
padre, cosa diresti se tu fossi ancora al
mondo? Che penseresti della indegna condotta di
tua sorella a mio riguardo?... Ma via, bando alle
inutili recriminazioni, e pensiamo soltanto ch'essa
è infelice. »


Per divagarsi alquanto, prese il velo, e scese sui
bastioni, l'unico passeggio che le fosse permesso.
Avrebbe, sì, desiderato percorrere i boschi sottoposti,
e contemplare i sublimi quadri della natura;
ma Montoni non volendo ch'ella uscisse dal castello,
cercava contentarsi delle viste pittoresche
cui osservava dalle mura. Nessuno eravi allora colà;
il cielo era tetro e tristo come lei. Però, trapelando[141]
il sole dalle nubi, Emilia volle vederne l'effetto
sulla torre di tramontana: voltandosi, vide i tre
forestieri della mattina, e si sentì un tremito involontario.
Coloro le si avvicinarono mentre esitava.
Volle ritirarsi, ed abbassò il velo, che mal ne nascondeva
la beltà. Essi guardaronla attenti, parlandosi
tra loro: la fierezza delle fisonomie la colpì
ancor più del singolare abbigliamento. La figura in
ispecie di quello in mezzo spirava una ferocia selvaggia,
truce e maligna che l'atterrì. Passò rapida:
quando fu in fondo al terrazzo, si volse, e vide gli
stranieri all'ombra della torretta, intenti a considerarla,
ed a parlare con fuoco tra loro. Ella affrettossi
a ritirarsi in camera.


Montoni cenò tardi, e restò un pezzo a tavola
cogli ospiti nel salotto di cedro. Gonfio del suo recente
trionfo su Morano, vuotò spesso la coppa, e
si abbandonò senza ritegno ai piaceri della tavola
e della conversazione. Il brio di Cavignì parea al
contrario scemato: guardava Verrezzi, cui aveva
stentato molto a contenere fin allora, e che voleva
sempre manifestare a Montoni gli ultimi insulti del
conte.


Un convitato mise in campo i casi della notte
scorsa, e gli occhi di Verrezzi sfavillarono: si parlò
poscia di Emilia, e fu un concerto di elogi. Montoni
solo tacea. Partiti i servi, la conversazione divenne
più libera; il carattere irascibile di Verrezzi
mescolava talvolta un po' di asprezza in quanto diceva,
ma Montoni spiegava la sua superiorità perfin
negli sguardi e nelle maniere. Uno di essi nominò
imprudentemente di nuovo Morano; Verrezzi scaldato
dal vino, e senza badare ai ripetuti segni di
Cavignì, diede misteriosamente qualche cenno
sull'incidente della vigilia. Montoni non parve notarlo
e continuò a tacere, senza mostrare alterazione.
Quell'apparente insensibilità accrebbe l'ira di Verrezzi,
il quale finì a manifestare i detti di Morano,[142]
che, cioè, il castello non gli apparteneva legittimamente,
e che non avrebbegli lasciato volontariamente
un altro omicidio sull'anima.


« Sarei io insultato alla mia tavola, e lo sarei da
un amico? » gridò Montoni pallido dal furore. « Perchè
ripetermi i motti d'uno stolto? » Verrezzi, che
si aspettava di vedere l'ira di Montoni volgersi
contro il conte, guardò Cavignì con sorpresa, e questi
godè della sua confusione. « Avreste la debolezza
di credere ai discorsi d'un uomo traviato dal delirio
della vendetta?


— Signore, » disse Verrezzi, noi crediamo solo
quel che sappiamo.


— Come! » interruppe Montoni con gravità;
« dove sono le vostre prove?


— Noi crediamo solo quel che sappiamo, e non
sappiam nulla di quanto ci affermò Morano. »


Montoni parve rimettersi, e disse: « Io son
sempre pronto, amici, quando si tratta del mio onore;
nessuno potrebbe dubitarne impunemente. Orsù,
beviamo.


— Sì, beviamo alla salute della signora Emilia, »
disse Cavignì.


— Con vostro permesso, prima a quella della
castellana, » soggiunse Bertolini. Montoni taceva.


— Alla salute della castellana, » dissero gli ospiti,
e Montoni fece un lieve cenno di capo in segno
d'approvazione.


« Mi sorprende, signore, » gli disse Bertolini,
« che abbiate negletto tanto questo castello: è un
bell'edifizio.


— E molto adatto ai nostri disegni, » replicò
Montoni. « Voi non sapete, parmi, per qual caso io
lo posseggo?


— Ma, » disse Bertolini ridendo, « è un caso fortunatissimo,
ed io vorrei che me ne accadesse uno
simile.


— Se volete compiacervi d'ascoltarmi, » continuò
Montoni, « vi racconterò la cosa. »[143]


Le fisionomie di Bertolini e Verrezzi esprimevano
ansiosa curiosità. Cavignì, il quale non ne esternava,
sapeva probabilmente già la storia.


« Sono quasi venti anni che posseggo questo castello.
La signora che lo possedeva prima di me,
era mia parente lontana. Io sono l'ultimo della famiglia:
essa era bella e ricca, ed io le offrii la mia
mano, ma siccome amava un altro, mi respinse. È
probabile che il preferito abbia respinto lei, che fu
assalita da una costante malinconia, ed ho tutto il
fondamento di credere che troncasse ella stessa i
suoi giorni. Io non era allora nel castello: è un
caso pieno di strane e misteriose circostanze ch'io
vo' ripetervi.


— Ripetetele, » disse una voce.


Montoni tacque, ed i suoi ospiti, guardandosi reciprocamente,
si chiesero chi avesse parlato, e s'avvidero
che tutti si facevano la stessa domanda.


« Siamo ascoltati, » disse Montoni; « ne parleremo
un'altra volta: beviamo. »


I convitati guardarono per tutta la sala.


« Siamo soli, » disse Verrezzi, « fateci la grazia
di continuare.


— Non udiste qualcosa? » sclamò Montoni.


— Parmi di sì, » rispose Bertolini.


— Pura illusione, » disse Verrezzi guardando ancora.
« Siam soli. Continuate, ven prego. »


Montoni ripigliò sottovoce, mentre i convitati si
serravano intorno a lui.


« Sappiate che la signora Laurentini da qualche
mese mostrava i sintomi d'una gran passione e
d'un'immaginazione alterata. Talvolta si perdeva
in una placida meditazione, ma spesso farneticava.
Una sera di ottobre, dopo uno di questi accessi, si
ritirò sola nella sua camera, vietando di sturbarla.
Era la camera in fondo al corridoio, ch'è stata il
teatro della scena d'ieri sera: da quell'istante non
la videro più.[144]


— Come! Non fu veduta più? » disse Bertolini.
« Il suo corpo non fu trovato nella camera?


— Non si trovò il suo cadavere? » esclamarono
tutti unanimamente.


— Mai, » rispose Montoni.


— Quai motivi s'ebbero per supporre che si
fosse uccisa? » disse Bertolini. — Sì, quai motivi? »
disse Verrezzi. Montoni gli lanciò un'occhiata sdegnosa.
« Perdonate, signore, soggiunse l'altro; non
pensava che la signora fosse vostra parente, quando
ne parlai con tanta leggerezza. »


Montoni, ricevendo questa scusa, continuò: « Vi
spiegherò tosto il tutto: ascoltate.


— Ascoltate! » ripetè una voce.


Tutti tacevano, e Montoni cambiò di colore.


« Questa non è un'illusione, » disse finalmente
Cavignì. — No, » disse Bertolini; « l'ho intesa
anch'io.


— Questo diventa straordinario, » soggiunse
Montoni, alzandosi precipitosamente. Tutti i convitati
si alzarono in disordine: furono chiamati i
servi, si fecero ricerche, ma non fu trovato nessuno.
La sorpresa e la costernazione crebbero. Montoni fu
sconcertato. « Lasciamo questa sala, » diss'egli, « ed
il soggetto del nostro discorso; è troppo serio. »
Gli ospiti, disposti ad uscire, pregarono Montoni di
andare altrove a seguitare il suo racconto, ma invano;
malgrado tutti i suoi sforzi per parer tranquillo,
egli era visibilmente agitatissimo.


« Come! » disse Verrezzi; « sareste superstizioso,
voi che vi burlate dell'altrui credulità?


— Non sono superstizioso, » rispose Montoni
« ma convien sapere cosa ciò vuol dire. » Uscì, e
tutti ritiraronsi.


 
 


FINE DEL SECONDO VOLUME


 
 




Milano, 1875 — Tip. Ditta Wilmant.




NOTE


[1] Specie di gondoletta ornata con magnificenza.



NOTA DEL TRASCRITTORE


La presente edizione del libro è una traduzione abbreviata e priva di
quasi tutte le parti in poesia. La versione originale completa in
inglese è disponibile su Project Gutenberg:
The mysteries of Udolpho.


Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annnotazione minimi errori tipografici. In particolare, l'uso di
trattini e virgolette per introdurre il discorso diretto, molto
irregolare e incoerente, è stato per quanto possibile regolarizzato. Un indice è stato inserito all'inizio.


I seguenti refusi sono stati corretti [tra parentesi il testo originale]:



















































P.     14 - col quale lo considerava. Alla perfine [perfino]
17 - vedo bene che siete disposta [diposta] a
17 - Tutti dormivano [dominavano] nel castello
22 - a qual punto essa lo stimasse ed amasse [amassase]
27 - cadde quasi esanime [esamine] sul seno. Non piangevan più
52 - degli altri beni toccatigli [toccatagli]
62 - o signore, che non accetterò [eccetterò] mai
64 - Calmato alquanto il di lei spavento, Montoni [Monteni]
76 - oltre Orsino, a questi conciliaboli notturni [nottorni]
83 - disponevano non sortissero [sortiressero] il bramato esito
86 - lasciar [lascir] entrare il suo signore
87 - posta in faccia al [ad] grande specchio
90 - per assistere [assistare] a sì bello spettacolo
106 - ad idee grandiose, e, per una specie [spece]
128 - colmollo di rimproveri [rimpoveri] senza parlare
141 - e senza badare ai ripetuti segni di [di di] Cavignì

Grafie alternative mantenute:



  • follia / follìa

  • Saint-Aubert / Sant'Aubert



        

Comments on "I misteri del castello d'Udolfo, vol. 2 (Italian)" :

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